Cinque taccuini di “scrittura automatica”. Che Ann Charters, la studiosa di Kerouac, dice scritti così: “Era solito accendere una candela e starsene seduto tranquillamente a trascrivere i suoni che venivano dalla finestra”, Kerouac viveva allora col poeta e buddista Gary Snider in una baracca, nella campagna fuori San Francisco, “prima di rivolgersi alla propria interiorità e buttare giù pensieri e immagini mentali”. Un guazzabuglio., parole in libertà – ed era edito negli Oscar.
Non
c’è niente di edito del genere, se non forse l’ultimo Joyce, “Finnegans Wake”.
Che però era un progetto, la confusione delle lingue – delle tante lingue che
Joyce in qualche masticava. Il traduttore, Luca Guerneri, lo sa, che precisa:
in “Finnegans Wake” “l’autore garantiva di poter giustificare ogni scelta lessìcale”,
qui è “il linguaggio che insegue se stesso, si incanta su se stesso, si fa
mantra che frantuma il senso in suono, parola che insegue un suono”.
Buddha
c’entra. Charters ricorda che “al 1° aprile 1956 sono ormai cinque anni che
Kerouac lavora su testi di scrittura spontanea”, reduce da sei romanzi, una
racconlta di poesia (”San Francisco Blues”), e un libro di scritture buddiste
(“Dharma”). Qui Budda ricorre a ogni pagina, Guerneri lo spiega in nota con i
riferimenti.
Un
doumento d’epoca. C’è anche “Volare” – “che cos’è l’azzurro, volare” – che Modugno
cantò a Sanremo nel 1958. Non se ne salva niente.
Jack
Kerouac, Vecchio Angelo Mezzanotte
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