La celebrazione di Scalfari su “la Repubblica” è stata centrata ovviamente sul giornale – una morte di cui ha provato a capitalizzare la nuova proprietà, la famiglia Agnelli-Elkann – e in particolare sulla formula scalfariana del giornale-partito. Schierato cioè per una scelta politica, non per l’informazione il più possibile asettica, né per altre funzioni dell’informazione, la narrativa della vita quotidiana, la scoperta del mondo. Come in effetti lo è stato. Ma contro l’obiettivo politico dichiarato, l’alternativa di governo di sinistra, alternativo al regime democristiano, flessibile e inflessibile, di cui si voleva portabandiera: Scalfari ha usato “la Repubblica” per perpetuare il regime democristiano. Sabotando costantemente, volutamente, i radicali e i socialisti, con i quali aveva militato nella prima metà della sua vita adulta. E portando Berlinguer, capo di un partito di massa, dal richiamo elettorale salito a undici milioni di voti nel 1976, a un settarismo suicida, all’insegna ambigua della questione morale - tanto più per un partito che si finanziava con le tangenti di Mosca, e avendo molti amministratori locali aveva necessariamente molti carichi pendenti.
Scalfari lo ha fatto volutamente.
Non aveva stima del partito Comunista, che considerava attardato, e lo diceva, in
conversazione e tra le righe. Si avvicinò a Berlinguer professando uno strano richiamo
erotico. Sapeva, diceva, e ha anche scritto, che la questione morale è un
artificio. Al Caporedattore Franco Magagnini che un paio di volte gli ha
rimproverato in redazione la politica divisiva della sinistra, non ha risposto.
La Dc ha coltivato, oltre che per i finanziamenti bancari necessari al
giornale, del Banco di Roma e del Banco di Napoli, nei governi patetici di
Andreotti sostenuti da Berlinguer, con vecchie glorie democristiane che
camminavano trascinando piedi. Poi – dopo l’“A Fra’, che te serve?” di Evangelisti,
il segretario politico di Andreotti, che confessava la corruzione – tramite De
Mita, che serviva a De Benedetti. Questo si poteva rilevare già negli anni in
cui avveniva, in “«Il Mondo» non abita più qui”, un libro che è stato discusso
anche in alcune università, e
sicuramente sarà messo a fuoco dagli storici.
Scalfari è personaggio di
grande rilievo, per molti aspetti – la celebrazione in morte è stata
stranamente limitativa, forse per voler essere affettuosa, ma la personalità e
la biografia sono dense. Negli ultimi tempi, lontano dalla redazione, si è
voluto poeta e filosofo, in certo modo lontano dalla politica. Ma prima si
diceva e si voleva “libertino”, non nel senso volgare della parola, di
seduttore, ma dell’autonomia del giudizio, di pensiero e azione. Questa costantemente
ha rivolto contro la possibile alternativa di sinistra di governo, negli anni del
giornale-partito “la Repubblica”. Con costanza e baldanza, dopo l’incerto
avvio, da liberal qual era sempre
stato, radical-socialista.
Questo sito ha trattato naturalmente più volte di Scalfari. A mo’ di
tributo alla memoria si ripropongono due recensioni.
martedì 20
maggio 2008
Se ne parla
molto, è un libro che Einaudi vuole importante. Ma ovunque senza simpatia, che
l’autore pure meriterebbe, sempre sensibile e partecipe - forse è indigesto il
tema, parlare con Dio, benché di moda, con Augias e gli altri browniani (ma
lui, bisogna riconoscere, ha cominciato prima). Scalfari è stato uno dei
migliori imprenditori del dopoguerra, se non il migliore, che con meno mezzi ha
creato un duraturo e lussureggiante impero editoriale. Essendo stato, oltre che
imprenditore, il più grande direttore di giornali, con più fantasia, con più
apertura – in un certo senso l’erede di Giulio Debenedetti, che ne era il
suocero. Formando uno stile di giornalismo, e migliaia di giornalisti e
collaboratori. Il direttore di giornale più colto, con antenne più allenate,
all’economia, la politica, la cultura. Disposto a imparare nelle materie
incognite, per esempio in politica estera (quando scoprì i samizdat,
di cui non aveva mai saputo, dieci anni dopo Praga, cinque dall’esilio dei
grandi russi, prese quotidiane lezioni al telefono da Franco Malfatti, il
direttore generale della Farnesina). Eccellente giornalista in proprio, di
riconosciuta qualità di scrittura. Ha anche una certa età, e si può dire che
non abbia nemici. Ma resta rispettato e temuto, e non amato, benché pregiato da
giornalisti e conduttori.
Il perché è tutto in questo libro: il non detto. Del testimone e del
memorialista. Scalfari ha tradito prima il laicismo, e poi il socialismo, dopo
esserseli assoggettati, li ha derisi, e li ha finiti. Nel nome di Berlinguer,
lui che è stato un mangiacomunisti, spregiatore con Carli del sindacato, con
Andreotti di ogni ideologia. Fingendosi un compagno di strada, un
fiancheggiatore, naturalmente in grande. Ciò si può dire in breve, anche se non
è poco. Ma lui non lo dice, pur rivendicando il libertinismo intellettuale.
Dopodiché ha abbandonato i suoi giornali, ultimo e solo editore “puro”. Senza
dire perché. Facendosi pagare in titoli spazzatura, di una “scatola vuota” –
quindi non l’ha fatto per i soldi. Quando a metà aprile 1989 cedette
inconsultamente, con Carlo Caracciolo, il gruppo L’Espresso-Repubblica a Carlo
De Benedetti, per ingrossare la Mondadori, di cui De Benedetti era allora
padrone. Per nessun motivo conosciuto, un motivo valido. Fu obbligato? E
perché?
In “Via Veneto”aveva santificato il cinismo sotto la formula simpatetica del
settecentesco libertinismo, una forma della libertà di pensiero, o il diritto
all’incoerenza. Il suo cinismo, nient’affatto disperante o disperato,
opportunistico anzi a oltranza, contro venti e tempeste, è molto “cattolico”
(romano, latino, meridionale). Senza colpa peraltro, non specifica: è il modo
di essere della cultura “laica” in Italia. Ma nelle sue mani è stato una sorta
di ascia o di grosso martello, usati per sbriciolare lo stesso “laicismo”.
Scalfari meglio di ogni altro, da imprenditore oltre che da fine politico, sa
che la libertà è in Italia garantita solo dai partiti “intermedi”, quelli cioè
fuori dei partiti di massa, che il compromesso storico ha cementato
monoliticamente – salvo poi perdere la partita a favore di Berlusconi. Tanto
più per non essere mai stato un governabilista, e anzi un acceso denigratore
dei governi che governano, da lui accomunati, ogni volta che un briciolo di
autonomia del politico si è manifestata, al fascismo. Molte cose Scalfari sa,
ma non si comporta di conseguenza, e questo è cinismo. Forse libertinismo, come
gli fa piacere, ma il vero libertino è per la libertà.
Svendette la concezione laica della politica, liberale, al compromesso
cattocomunista nel quale non credeva, senza condizioni, fino al punto da non
contare nulla nel “suo” giornale”, creatura incontestabilmente sua. Non uno dei
“miei dirigenti”, come amava chiamarli, di dopo il 1978 è stato scelto da lui,
non uno dei cronisti o commentatori. Mentre i suoi vecchi venivano confinati
alle rubriche, Viola, Pirani, Turani. Un esito incredibile, prima che triste.
C’è insomma qualcosa di non detto in lui e attorno a lui. Che non si può fare
ascendere all'origine (alla “natura”) calabrese, all'umoralità - non del tutto,
questa calabresità, benché non riconosciuta, c'entra anche molto, a partire dal
fatto di essere rinnegata, senza obbligo: il padre era dopotutto un direttore
di casinò, non un civil servant, come Scalfari vuole far opinare.
La ragione ufficiale dell’abbandono del suo amatissimo giornale è che Scalfari
voleva dedicarsi alla filosofia. Che non è una ragione, ma lui la sostiene.
Mentre la politica dell’alternativa democratica, del necessario ricambio al
potere, ancora oggi insiste a ridurre al gioco di sponda al biliardo.
Facendosela qui teorizzare da Ugo La Malfa, in una formulazione che è solo
insensata. In questa formulazione il gioco di sponda sarebbe una mamma che si
vuole levatrice. Oppure è l’arabica impostura dell’abate Vella, personaggio di
Scinà e Sciascia: uno che s’inventava falsi documenti arabi, per provare
l’autonomia dei baroni siciliani dal re di Napoli prima, poi il contrario, la
loro dipendenza. Non per arricchirsi né per brama di potere, l’abate che
giocava di sponda era a suo modo un asceta, era doppio per aiutare questo
e quello.
Per Berlinguer, da cui tutto lo divideva, Scalfari cerca toni commossi, per la
comune onestà. Ma da antipolitico qual è sempre stato. Senza, singolarmente,
porsi il problema dell’onestà intellettuale. Per Berlinguer, dice, la questione
morale nasceva dall’“occupazione delle istituzioni da parte dei partiti”.
Mentre il Pci, com’è noto, le lasciava sgombre. Del Pci Scalfari ricorda
correttamente i fondamenti: “Il Partito ha sempre ragione” e “Niente fuori dal
Partito”. Da lui stesso ben sperimentati, da politico e da imprenditore. Ma se
il Pci ci ha messo tre anni a sciogliersi dopo la caduta del Muro, la causa è
l’aborrito Craxi. E questa è tutta la politica di Scalfari, il suo senso
critico.
È tutta qui anche la sua vena morale, la questione morale che lo caratterizza:
è il moralismo, la condanna etica di chi è nato senza peccato originale,
sindrome caratteristica dei belli-e-buoni della Repubblica, spesso al servizio
del male dichiarato. Scalfari, superbo imprenditore, si è impadronito del
laicismo e lo ha consegnato al compromesso storico. Si è impadronito dell’ex
Pci e lo ha consegnato a Andreotti, anzi a Evangelisti. E della questione
morale di cui s’è impadronito ha fatto uno scudo per De Mita e Prodi. Scalfari
ha lavorato per la Dc, non per caso, e non per la migliore: un laico non può
che sognare che molli l’osso, giù le mani dal laicismo. Un imprenditore
dovrebbe infine riconoscere gli errori. A meno che Scalfari non abbia
sbagliato: c’è pure stato un Cagliostro la cui ambizione era di essere
Cagliostro.
Ha anche tradito l'etica degli affari. Senza profitto presumibilmente, per lo
stesso cinico impulso. Questa è dura da avallare ma va detta: Scalfari è stato
il paladino antemarcia, e tuttora lo è, della Padania, la Milano degli affari,
da lui eretta con Arrigo Benedetti nella preistoria della Repubblica a
“capitale morale d'Italia”. Anche quando ha toccato con mano per più prove che
è la capitale della corruzione, politica e affaristica. Anche quando, avendolo
inoppugnabilmente provato nel caso di Cefis e della Montedison (con Peppino
Turani nello storico “Razza padrona”), ha dovuto aspettare vent'anni che lo
scandalo esplodesse. Cioè quando a Milano ha fatto comodo e nell’interesse di
Milano - una deriva a lui ben presente: quando Camilla Cederna, che pure era
stata sua Grande Firma all’“Espresso”, montò il caso Leone su carte false, la
tenne ostensibilmente lontana da “Repubblica”, dove lei puntava a entrare
(irritato, è da presumere, dallo scimmiottamento: quanta differenza in effetti
a rileggerli, di tono e soprattutto di argomenti, di “prove”, tra il “Giovanni
Leone” e il Piano Solo, o “Razza padrona”).
Libertino antipolitico
Il suo giornale da tempo sa di stantio. Nella reazione che ha travolto
l’Italia, quella di “Repubblica”, snobistica e manierata, è insipida. La cosa
non sembra dispiacere a Scalfari, che non ha cambiato il giornale personalmente
e non chiede di cambiarlo. E questo vuol dire che l’uomo non era libertino per
andare controcorrente, ma perché intrinsecamente conservatore. È dunque come
appare, un miope eretto. Si dice dei miopi che vanno un po’ curvi. Scalfari è
un miope che gonfia il petto. Lo sguardo che trapassa e la testa eretta
consentono anche entrate teatrali, fiere e sdegnose. Per una concezione della
politica che, benché laico professo, o forse per questo, è totalitaria. Non al
senso e al modo delle adunate o del Grande Fratello di Orwell, con le prigioni
d’acciaio. Ma suadente, persuasiva, ideale. Al modo di Faust: quei rapporti
dove basta dire sì, una volta sola, e si viene poi sempre protetti,
vezzeggiati, magnificati. Benché senza salvezza – è tutto qui il problema di
Dio, che il Partito non lo garantisce?
La qualità della filosofia è come quella della politica. Scalfari insegue
Montaigne, l'incredulità (incroyance) che viene dalla morte, ma non ne
ha lo spirito filosofico, il distacco. “L’universo è un luogo ospitale”, si può
dire di lui con Emerson, personaggio e pensatore forse più nelle corde di
Scalfari – di Scalfari come avrebbe dovuto essere, nella posizione che ha
occupato. E “c’è sempre musica dolce nel flauto, ma ci vuole un suonatore per
tirarla fuori”. Mentre il pensiero della morte, la vita imparentata alla morte,
è già morte. O il desiderio di morire, naturalmente – il suicidio, per chi ha
vissuto, è solo un incidente, una sopravvenienza. La morte “è il termine, non
il fine” della vita, Montaigne insegna. A cui è follia non pensare, o
rifiutarsi di pensare, altrettanto come lo è lasciarsene ingolfare. Thoreau,
altro personaggio che avrebbe dovuto ma non è in commedia, nota giustamente che
“per poter morire bisogna aver vissuto”, che dove non c’è stata vita non c’è
morte, solo un imputridimento costante: “Sento molti dire che stanno per morire
che sono già morti, per quel che ne so”.
Il saggio si confronta con la vita, non con la morte. La quale, se scontata in
vita, è solo nostalgia, del non vissuto. La morte incombente un po’ è l’effetto
del narcisismo, finire depressivi: si disimpara a morire perché non si è in
grado di guardare alla vita, che è passata, al passato. La serenità –
l’accettazione della morte – viene dal senso della vita. Che emerge sullo
sfondo della caducità, cioè della morte, e si esprime nelle opere: la morte è
solo una fine per chi ha fatto ciò che deve, non la fine. La libertà, più di
tutto, ha un senso se c’è il rifiuto della morte. È uno spreco, e come tale può
apprezzarla chi ha spiccato l’edonismo. Cioè la non attesa della morte.
La morte in una vita vissuta non è la sua accidentale interruzione ma il
compimento, la meta del viaggio. Detto da Karl Rahner, ma non è capziosità
gesuitica: il nodo è la malinconia, la moderna accidia. L’indifferenza, diceva
Goethe, a ciò che scandisce l’esistenza. L’attenzione all’esistente, nelle
infinite variazioni della sua monotonia, incagliata nell’apatia e la
disappetenza, di idee, progetti, utopie, desideri. Di cui per di più si
compiace, se non la fa titolo di nobiltà d’animo. E certo, come dice
Kierkegaard, è la perdita di Dio a impedire di vedere il senso delle cose, le
loro connessioni, l’unità della vita. Ma Kierkegaard dice pure che il
malinconico è un falsario: il Dio assente è un’idea, un voler essere. Senza
contare che la morte ha poco potere sulle persone amate: basta avere amato.
Il silenzio di Dio che sembra angustiare Scalfari è quello di Pascal, che egli
non menziona, che perse Dio nell’infinità, come poi Kierkegaard,
nell’astrazione dalla natura cui la Riforma l’aveva costretto. Varrà per lui
ciò che Nietzsche scrisse di Carlyle nel “Crepuscolo degli idoli”: “La ricerca
di una fede forte non è prova di una fede forte, ma piuttosto al contrario”. E
c’è chi crede nel peccato non credendo in Dio: i laici buoni, puritani e
libertini. Ma perché credere? O non sarà un omaggio tribale a Cassiodoro, il
grande pensatore calabrese, che la filosofia disse da ultimo una meditatio
mortis? Dio però c’è poco in questo libro, così come la morte, benché se ne
parli molto. Il radicalismo di Scalfari è sempre quello di Maurras, cui lo
avvicina la scrittura, e anche la démarche, di cui non si saprebbe
misurare la autenticità.
Il dio di Scalfari è il suo io, non detto. Necessario come gli sono necessari
gli affetti probabilmente - di certo l’amicizia, da patriarca influente, a essa
in realtà indifferente. E poi è troppo uomo del suo tempo. È anzi l’uomo del
tempo, il testimone storico per eccellenza dei quarant’anni in cui ha fatto
giornalismo, i suoi “Saggi” sono i suoi giornali, comprese le cadute. E il non
detto è in realtà saputo. L’infinitezza spaventosa di Scalfari, o astrazione
dalla natura, è la sua mondanità: l’interesse pervicace a questo mondo, ottimo
e necessario per un ottimo imprenditore, ma non filosofico.
Si legge al § 429 dei “Pensieri” di Pascal una sorta di prova del nove:
“L’immortalità dell’anima ci importa così tanto, ci tocca così profondamente,
che bisogna aver perso ogni sentimento per essere nell’indifferenza di sapere
che ne è”. Che potrebbe essere opportunismo – credere è meglio che non credere
– e quindi inaccettabile all’onesto. Ma: perché Scalfari scrive? Tutto quello
che aveva da dire, da insegnare ai meno provveduti, ha avuto una lunga vita per
farlo e un largo seguito sui giornali: perché scrive da solo, da filosofo? Per
tutti e per nessuno: per la verità? La condizione attuale di Scalfari sarebbe
quella di un uomo “pio”. Non nel senso di uomo di una fede, ma di fedele del
mistero-verità del mondo e dell’uomo. E invece egli è sempre, e vuol essere,
uomo di parte. E allora? Non si diventa cinici in vecchiaia.
Dio c’è o non c’è, se non c’è non se ne può sentire la mancanza. Di fatto
questa assenza di Dio, o il dispiacere di non poterlo incontrare, sono sociali.
Dei convenevoli. Al modo delle nonne che si facevano visita obbligando i nipoti ad
accompagnarle. Delle frequentazioni, familiari, sociali, editoriali magari, di
un don Bianchi o un don Neri, il vecchio tipo del gesuita che imbrillantava i
tinelli. E in quanto tale, pratica delle convenienze, l’esatto opposto di un
Dio, il quale non può essere che diretto e semplice. “Gli uomini hanno paura
della morte”, direbbe il cancelliere Bacone, “come i bambini hanno paura del
buio; e come la naturale paura dei bambini s’accresce coi racconti, così
l’altra”.
Miglior narratore
La vena di Scalfari è narrativa, qui come in “La sera andavamo in Via Veneto”.
Per lo sberleffo irrefrenabile, l’ironia, la riserva mentale, che fanno il suo
linguaggio primario, irrimediabilmente astuto e canzonatorio – che si dice
adolescenziale, ma potrebbe essere quello della paternità calabrese, campanelliano.
Della politica sicuro, e probabilmente anche di Dio, Scalfari ha opinione
irridente. Ma anche in questo sembra censurarsi, lo spiritaccio emerge a
sprazzi, limitato ai primi ricordi nell’infanzia, e a qualche insegnante, la
proclamazione dell’impero tra i balilla, il fox trot con la mamma al Majestic,
il padre in controluce. Poco, pochissimo, del suo compagno di liceo e amico di
adolescenza Calvino, che pure è stato giovane per più aspetti brillante, con
una casa lussureggiante, villa Meridiana, e genitori formidabili, noti in tutta
Sanremo. Quasi nulla degli anni a Vibo.
Qui Scalfari ricorda infine Ernesto Rossi e cita Salvemini. Ma lascia sempre
fuori Einaudi, Gobetti e gli altri della tradizione liberale, quella che
distingue l’Italia nella grande cultura politica contemporanea – oltre a
Pannunzio e Arrigo Benedetti. Qui comincia anche ad accettare la realtà:
“Questa storia della borghesia illuminata è stata una delle illusioni che il
gruppo del “Mondo” e dell’“Espresso” ha lungamente coltivato”, da lui stesso
prolungata nella società civile, il governo dei tecnici eccetera. Ma sempre
senza senso storico. Finendo per assomigliare al suo ritratto più celebre,
l’Avvocato di panna montata, curioso, generoso, e infastidito. Che unicamente
si diletta, anche in vecchiaia, di esercizi di egotismo, la costruzione
calcolata di un io, senza abbandoni.
Alla fine del libro, non fosse per la vena irridente, si ha la sensazione di un
drammone cupo. Tutto d’improvviso è laico in questa Italia vuota, l’università,
la scuola, la filosofia, il football, la centrale nucleare, i giornali, i
comunisti, il papa, ma perché è vuota la parola, una parola gruccia, per
attaccarci quello che capita. Un mondo di chiacchiere senza un briciolo
d’intelligenza, di accettazione virtuosa della realtà, dove si cercano gli
immigrati ansiosamente e si vilipendono, si disprezza l’America e si tifa
Obama, si uccidono i figli, e viceversa, e la civiltà si vuole là dove si
uccidono i malati. Da cui cioè il laicismo è fuggito. Non molti anni fa: è
fuggito con la politica, la quale è fuggita col compromesso storico. Di cui
Scalfari s’è fatto il maestro, uno che non credeva – e non crede – né all’uno
né all’altro dei suoi componenti, e nemmeno a tutt’e due. O il Fiancheggiatore
per antonomasia: anche ora che il compromesso mostra i suoi terrificanti
limiti, politici, etici, la faziosità, la violenza. Un compromesso sulla cui
natura peraltro non ci sono mai stati dubbi: un ricordo personale è il no del
comitato di redazione, Mino Fuccillo, Guglielmo Pepe, durato cinque anni, alla
qualifica di inviato speciale a un redattore perché socialista, filo-Pci ma
anti compromesso storico (col conseguente congelamento dello status di una
diecina di altri redattori, i quali ebbero l’attesa qualifica dopo che l’odiato
socialista ebbe lasciato il giornale), che Scalfari avallò: l’avallo gli
statuti allora in vigore quasi imponevano, ma come asservire un giornale libero
a queste pratiche sciocche prima che totalitarie?
Se è lecito tentarne una critica, Scalfari ha improntato i giornali che ha
creato a un meccanismo di sfruttamento della psicologia laica, della sua
dote-debolezza che è l’individualismo incondizionato. Di principio ma anche
pratico. Che non si saprebbe dire quanto benefico (l’autonomia del giudizio) e
invece è speculare all’arricchimento facile e all’anti-democrazia su cui
pretende di vigilare. Capriccioso, a volte, ma non di più. Si sa
dell’azionismo, il partito non dichiarato di Scalfari, che è malato di un
piccolo dannunzianesimo di superficie – senza cioè il lavoro di maglio e di
bulino del Vate. A “Repubblica” il vizio non si è manifestato subito,
l’imprinting di “Le Monde”, evocato alla nascita, ha avuto a lungo funzione
apotropaica. Ma già nei primi anni Ottanta, nelle mascalzonate contro Sciascia,
nelle quali ebbe purtroppo il sostegno di Pansa, oltre che di Arlacchi,
Scalfari ne aveva fatto il luogo delle mascalzonate: del pregiudizio cieco, a
carte non lette, e della polemica superficiale, tribale, familiare –
“Repubblica” avrebbe dovuto essere il giornale di Sciascia e invece ne fu il
nemico, pervicace, spietato.
È un laicismo, quello iniettato da Scalfari nei suoi giornali, che non libera
ma tiene soggiogati, nella paura costante: muore la democrazia con Berlusconi,
o chicchessia, e moriamo noi alluvionati, oppure disidratati, muore la banca,
muore la finanza, che pure è raccomandata, sono morte le istituzioni, già forse
alla nascita, tutto vi è morto o vi muore. Nessun lettore, oltre che nessun
redattore, è mai cresciuto civilmente (laicamente) con i suoi giornali, e anzi
la tendenza è a fuggirne: tutti diventano “comunisti”, qualcuno fascista
dichiarato, per il fondo compiaciuto, confermato, del piccolo borghese
che sa di essere nel giusto, lui e non altri. Scalfari sarà il
prototipo del personaggio eroico, cioè durevole, dell’Italia. Non quello
appassionato, a tutto tondo, che suscita deliri, di amore e di odio, ma
quello desabusé e fondamentalmente cinico, che passa per mille
compromessi. I più resistenti in questa kermesse sono in
effetti i giornalisti: Biagi, Montanelli, Bocca. Costruttori di macerie.
Ma poi anche in termini di io Scalfari è uno che si nega: si nega anzitutto
forse a se stesso. Non reticente, non di proposito. Citati lo dice un
Alessandro Magno (e Shakespeare, Pessoa, Montaigne, vedere “la Repubblica” del
primo maggio per credere), che scorazza senza pentimenti. Un piccolo Alessandro
Magno, perché no, che un po’ s’annoia e un po’ ama le novità. Ma non è
necessario andare lontano: Scalfari si è definito, e vuole essere, uno snob. È
sincero, poiché è misantropo - uno che disprezza perfino gli amici. Ma dello
snob non ha il lato buono, che è il rispetto della forma: il principio di non
contraddizione, la logica, la convenienza.
Un ricordo personale di Scalfari ne inquadra la personalità, sempre partecipe e
sempre assente. Era la notte dell’uscita di “Repubblica”, Scalfari era nel
portico della tipografia romana in piazza della Repubblica, che allora era
aperto, nervoso. In una delle giacche di velluto che allora amava, senza
cappotto, malgrado la nebbiolina ghiacciata di metà gennaio. Era forse prima
del ricevimento, col giornale ormai chiuso, forse dopo, quando si aspettava la
prima copia. Chiese una sigaretta, chiedendosi: “Come andrà? Che ne dici?” Il
giornale nasceva su basi solide, compreso l’oroscopo di Linda Wolf - o era di
Sirius? Ma Scalfari l’avrebbe chiesto a chiunque fosse passato. Due militari in
libera uscita si avvicinarono. Non riconobbero Scalfari ma erano lì per
informarsi: “È qui che fanno “Repubblica”?” Un interesse che ognuno avrebbe
considerato beneaugurate. Ma Scalfari non ne fu lusingato, non sembrò neppure
sentirli, intento ad ascoltarsi.
Compromesso De Benedetti
Il titolo è programmatico. Fosse descrittivo, sarebbe già di un uomo che crede
in Dio, pur non volendolo. E risponde all’impoeticità di Scalfari, anch’essa di
programma più che caratteriale, naturale. Di un passionale, al contrario, che
inclina fatalmente alla poesia. Ma ha fatto voto evidentemente di fermarsi un
passo prima, e a questa linea gialla ritorna di proposito ogni volta che
d’impulso l’ha sorpassata. Scalfari è, in ogni sua manifestazione, passionale:
prevenuto, preveniente, protettivo, vendicativo, sempre emotivo. L’effetto di
questa astensione è curioso: perché la sua “filosofia”, il giudizio disincarnato
sulle cose (gli eventi, l’adolescenza, la famiglia, il lungo impegno politico),
solo prende vita nel quadro delle passioni, seppure rattenute.
Ma la sua avventura politica sarà, purtroppo, il tratto che lo distingue.
Guardando da vicino, Scalfari è la specie d’uomo simpatico: attento, svelto, bright, amichevole. Benché, o anche
perché, di spirito caustico, con le cose e, più, con le persone. Guardando le
cose a distanza – è necessario, l’equivoco era troppo grossolano per essere
accettato subito a lungo sembrato inverosimile – lo si scopre sempre su false
tracce. Uno che alla fine, vuoi per divertirsi vuoi per albagia sempre porta il
voto degli antidemocristiani alla Dc, dei comunisti soprattutto e dei laici. A
Andreotti prima, e poi a De Mita – a De Mita... Col suo “Espresso” prima, ma
soprattutto con “Repubblica”, sua a tutti gli effetti. Che si trattasse di
“alternanza” alla guida del governo, o di nomine bancarie e negli enti – terna
buona di candidati era sempre e solo quella che conteneva manager
democristiani. Il che non è una colpa naturalmente, e non sarebbe scandaloso se
l’indiscussa situazione di malgoverno nella Repubblica non fosse determinata
dal mancato ricambio politico (l’alternanza). E se lui stesso non si
professasse il principe degli antidemocristiani. O un capolavoro politico, se
si vuole, ma di pessima politica. Protestando il “rinnovamento” di De Mita (di
De Mita…). E agitando l’anticraxismo. Che non si è mai capito cosa fosse, se
l’antipatia personale di Scalfari verso un segretario provinciale Psi che ne
bloccò la rielezione nel 1972, o un calcolo freddo di cinismo politico,
l’imputato essendo eccezionalmente non corrotto, benché aggressivo, e di ottime
doti politiche. Se non un favore al socio e padrone Carlo De Benedetti, di cui
Craxi fu effettivamente il nemico in tanti contestabili affari, Société
Générale, Ambrosiano, Sme.
La storia politica di Scalfari purtroppo è questa, quella di un
fiancheggiatore. Di che non si vuole dire. Certo non del socialismo, ma nemmeno
del mercato. “Si sa” però alla Pasolini, essendo l’evidenza: cambiare tutto
perché nulla cambi, la politica sotto il tiro dell’indignazione. Fingendosi
ammaliato da Berlinguer, che giudicava ingenuo, per subordinarlo alla Dc. Dalla
quale tutto avrebbe dovuto dividerlo ma era la scelta dell’editore-direttore
Carlo De Benedetti, allora in pectore
ma non in partibus - per vent’anni i
giornalisti di “Repubblica” non hanno saputo che il vero editore-direttore era
De Benedetti. Che ha fatto ottimi affari con la Dc, da quello fallito con De
Mita e Prodi per il colosso alimentare Sme, che avrebbe pagato, per una cifra
irrisoria, con un credito del venditore, a quello riuscito con Draghi delle
licenze Omnitel (rivendute con un guadagno di tredicimila miliardi in un anno)
e delle centrali Enel. Il suo progetto, dichiarato, era di mettere i milioni di
voti del Pci, nel 1976 il 33 per cento, al servizio della Dc. Contro Craxi a un
certo punto (“Repubblica” fu l’unico giornale a non rimarcare nel 1983 che
quello di Craxi era il primo governo a guida socialista nei centoventi anni
della storia d’Italia). Che non aveva colpe particolari, ma pretendeva di
governare – nel solco non infame della governabilità, della (necessaria)
autonomia del politico. Poi, dopo l’abbattimento riuscito di Craxi, con la
straordinaria “creazione” di Berlusconi.
Una storia, se si vuole, di successo. Ma a che fine? Con qualche rischio per
l’immagine, poiché l’indignazione non avvince e anzi stanca – non solo il pazzo
Nietzsche ne ha pessima opinione: “Nessuno è bugiardo come l’uomo indignato”,
in un testo che intitola peraltro "Al di là del bene e del male", anche Fo:
“L’indignazione fa rima con coglione”. La storia politica di Scalfari
s’intreccia purtroppo da trent’anni ormai con quella di Carlo De Benedetti, che
è un uomo d’affari. Potrebbe essere dunque quella di un libertino, quale si
vuole, un avventuriero divertito. Ma il libertino non ha rimpianti. Non ha
cicatrici né vede incroci, ai quali dirsi di aver sbagliato, non per errore.
Eugenio Scalfari, L’uomo che non credeva in Dio, pp.150, € 16,50
sabato 30
novembre 2019
Eugenio si
diverte con i ricordi, a 95 anni ha solo la scelta. Rivendicando – esibendo –
“la pienezza leggera di una coscienza felice”. Qui diverte anche, aiutato da
Gnoli e Merlo, affabile, e sempre per qualche verso sorprendente – dopo aver
esaurito la trita professione di libertino, ora nella formula “libertino
complessivo”… Un’impressione lasciando di sincerità, seppure programmata e
corretta. Fascista fino ai vent’anni. Antifascista in convento, insomma da
imboscato ai vent’anni, dopo il 25 luglio. In realtà un po’ tutto, lui stesso
ne fa la litania: fascista, antifascista, liberale e radicale, socialista e
antisocialista, anticomunista e comunista - solo democristiano, dice, non è
stato, e questo non è vero, forse ha rimosso, la campagna antisocialista la
fece per De Mita. Ma la faccia politica, lo capisce da qualche mese lui stesso
nei sermoni domenicali, è la meno interessante. L’aspetto più nuovo, e più
veritiero, è la spensieratezza, confessata e quasi esibita in vecchiaia,
dell’Eterno Adolescente.
C’è un ritratto infine del padre, Pietro. Che
finì per dirigere il Casino di Sanremo, aperto da Mussolini, dopo aver perso
tutto al gioco, dopo Fiume con D’Annunzio, e dopo un paio d’anni al fronte,
medaglia di bronzo nella Grande Guerra – da cui il fratello maggiore, medaglia
d’argento, uscì tanto menomato da arrivare presto al suicidio. C’è l’amore
nelle due facce: del tormentato, Eugenio con la mamma, per le ribalderie del
padre, e del tormentatore, di mogli e amanti. C’è la verità infine del rapporto
con Calvino, di amicizia intima negli anni del liceo e poi negli ultimi anni
dello scrittore, e di lontananza totale negli anni intermedi, dopo che Scalfari
nel 1946 votò monarchia al referendum. Anche a lungo dopo che Calvino cominciò
a scrivere per i giornali – si può testimoniare che Scalfari cominciò a pensare
a Calvino all’indomani del referendum sull’aborto, nel 1978, quando il
“Corriere della sera” aveva in prima Calvino, e “la Repubblica” Arbasino.
Poco dice anche, sotto il molto, dell’incostanza
amorosa – non c’è Giorgia Moll, non ci sono altre meno note giovani donne. E il
poco senza saggezza, per l’uzzolo di dirsi libertino. La bigamia, in età
giovane, può essere dolorosa, per i partner coinvolti, e per i figli. Una
inavvertenza più triste per uno il cui personale ricordo dei primi anni,
ritornante in tutte le memorie, è di un fanciullo-ragazzo che “teneva assieme”
i genitori, supplendo al “libertinaggio” del padre. Lo stesso in politica. Oggi
va di moda la spensieratezza, ma al suo livello, col credito acquisito con i
suoi giornali, può fare danni, specie con l’antipartitismo, mascherato da
ultimo da filocomunismo.
Notevoli i ritratti: di Calvino soprattutto,
Pannunzio, Arrigo Benedetti, Mattioli, Eco (di cui riporta il dialogo in video
di fine 2014 su “Numero Zero”, l’ultimo romanzo di Eco, che stringeva il suo
cannnocchiale dei meccanismi della comunicazione sul giornalismo, non lusinghiero),
Giulio De Benedetti. Con la storia dell’“Espresso” e quella di
“Repubblica”.
Omissioni
Notevole pure l’assenza, in questa carrellata, di Carli, il governatore
della Banca d’Italia del cui pensiero Scalfari fu l’interprete e il divulgatore
per lungo tempo, come “Bancor”. Uno dei primi ricordi di “Repubblica” fu
quando, agli albori del compromesso storico, Eugenio dileggiava il Pci, che non
aveva ancora “scoperto il tasso di sconto” – governatore in Banca d’Italia era
Baffi, ma Carli era nell’ombra (e Gaetano Stammati, compagno di loggia, altro
assente, al Tesoro, con Luigi Bisignani, attivissimo giovane suo portavoce).
Non c’è “Razza padrona”, la guerra a Cefis che consacrò Scalfari nazionalmente
– forse per non dover parlare di Peppino Turani, il coautore. Né il “compromesso
storico”, da lui patrocinato, ancora oggi, per mero opportunismo, che ha
dissolto la politica e imbarbarito l’Italia – proprio attraverso il controllo
dei media.
Uno, assicura, che si è sempre divertito: “Io
non conosco l’angoscia, perché non conosco la noia” – anche ora, da ultimo,
“non vuole” essere malinconico. E per questo forse resilient,
contro magagne e catastrofi. Perdere “la Repubblica”, l’opera della vita, e non
perdersi. Riciclandosi anzi, come filosofo, come poeta. Nonché compagno di merende
del cardinale Martini e del papa, chi l’avrebbe detto?, poterlo fare benché non
ci creda.
La corazza è una fortuna e la caratteristica del
buon imprenditore, quello di successo, che è sempre imprenditore di se stesso.
Eugenio fin da bambino, stratega delle riappacificazioni domestiche, e poi a
scuola, benché lo chiamassero “Napoli”, perché figlio di un calabrese.
Pagine memorabili ha su Fiume. Su Sanremo anni
1930, pullulante di personaggi, non storici ma che fanno la storia: i genitori
di Calvino, De Santis, il gentiluomo napoletano che “creò” Sanremo, il
dimenticato Pastonchi, un letterato vivacissimo animatore culturale, Marco
Spaini, “teosofo e filibustiere”, consigliere filosofico di Adriano Olivetti;
l’iniziazione alla massoneria a Vibo; il “caro amico” Calasso, direttore di
Adelphi, che lo rifiuta come autore quando lascia “la Repubblica” - dopo
avergli fatto riscrivere “Io sono Dio” (l’editore di Scalfari sarà
Berlusconi…).
Ipocrita, il giusto. “Provo, ancora oggi, molta
tenerezza per le donne che hanno sofferto a causa del loro uomo, ma, in fondo
al cuore, so che l’infelicità di un’anima nasce da se stessa”. Con l’elogio
del radical chic. L’avocazione della discendenza calabrese,
svogliata e con poche nozioni – fa crescere a Vibo agrumi e bergamotto. Celebra
i suoi grandi collaboratori a “Repubblica”, con Bernardo Valli in cima alla
graduatoria ideale.
Anche sincero, un po’. Scalfari a 95 anni recita
di meno, benché sempre gigione. Scalfari non è un istrione, è anzi spesso
insicuro, e appare timido, riflessivo, ma nel suo privato-personale è teatrale,
si mette volentieri in scena. Come ora col papa argentino, e alla tv, che gli
piace. E veritiero, un po’: “Sono un mercuriale che sogna di essere saturnino”.
Un calcolatore. Anche appassionato, ma un poco: “Saturno è la melanconia,
Mercurio è la sintonia con il mondo. E io sono stato un mediatore di scambi, di
commerci, di conflitti e un accompagnatore, spesso di interessi, talvolta anche
di sentimenti e di anime”. Con l’amore per l’azzardo, non solo al tavolo da
gioco. E per le divise… - una civetteria, a Eugenio piace civettare. Oggi
poeta, dopo essere stato filosofo. E dopo avere scritto: “Non ho mai composto
versi e non credo che mai ne scriverò”.
Certo, non
si può dire tutto in un libro. Le mancanze testimoniano delle notevoli plurime
esperienze che Scalfari ha vissuto. Ma qualcuna sa di omissione. Non menziona
Pirani, fra i tanti di “Repubblica” che ricorda con affetto, di Pansa fa giusto
un riferimento. Niente, oltre che di Carli, dice pure della “difficile
amicizia” con Carlo De Benedetti, cui ha dovuto cedere “la Repubblica”, e
sarebbe stato il ricordo più interessante, come pettegolezzo e come storia
economica e dell’editoria giornalistica. Per esempio come De Benedetti diventò
il padrone del suo giornale. Che non era un editore e non ha saputo fare
l’editore – forse non è nemmeno un imprenditore, uno che ci sa fare con gli
uomini e con i mercati, ma solo uomo di denari - se “la Repubblica” è ridotta a
cercarsi un compratore pietoso.
Esercizio in egotismo
Il memoir resta lo stesso
sorprendente. Ha la vena di “La sera andavamo in via Veneto”. E la gagliardia
del creatore di due giornali che hanno fatto epoca e ancora fanno testo –
l’unica impresa editoriale duratura (insieme con quella di Berlusconi…)
dell’ormai lungo dopoguerra. Ci vuole forza per un esercizio in egotismo di
trecento pagine, quando uno Stendhal si è limitato a una sessantina. Qui si
arriva fino a Verdelli a “la Repubblica”, cioè a ieri. Del resto, è il genere
di moda, e Eugenio è sempre goloso. Ma sa raccontare. E Gnoli e Merlo con lui.
Con errori minori – oltre a quelli, fastidiosi, di stampa. Introducono i
container nel 1950. Prestano a Scalfari “lo swinging di Carnaby Street e dei
two-tone a scacchi, il bianco e nero dei Mods, e poi del minibus hippy di Peace
and Love” – a Scalfari, che è sempre stato provinciale, molto (e amavano
ballare con Simonetta, ma il tango)?
L’impressione che lascia è di un Candido, per
quanto avvertito. Da ultimo, quando parla di Montanelli – che era, lui sì, un
filibustiere. O della politica come “colpi di biliardo, il più delle volte
goffi o scontati, raramente magistrali”. Da adolescente eterno – e molto
“Napoli”, meridionale – tra ballo, biliardo e pokerino. Felice di esserci, di
essere vecchio. Senza la riga sulla fronte, per carità, o il sonno difficile.
Sempre rassicurandosi, anche da novantenne.
Da vegliardo incredulo, libertino, gli
piacerebbe quanto l’abate Galiani scriveva a madame d’Ėpinay il 21 settembre
1776, nella settimanale corrispondenza: “Se l’anima invecchia, qualche credenza
riappare”. A lui non è successo, malgrado la familiarità col papa Bergoglio, e
dunque non è vecchio. “L’incredulo fa molto di più”, aggiungeva l’abate,
l’incredulo inconsapevolmente legando al libertino: “È un funambolo che fa i
movimenti più incredibili per aria volteggiando intorno alla corda. Riempie di
spavento e stupore gli spettatori, e nessuno è tentato di seguirlo o imitarlo”.
O non gli piacerebbe?
Antonio Gnoli-Francesco Merlo, Grand
Hotel Scalfari, Marsilio, pp. 303 € 18
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