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Giappone fatato
Gli zoccoli di legno? “Parlano, ogni
zoccolo ha un suo suono” - “e può anche capitare che la folla si metta di
proposito al passo”. Il jinrikisha, o kurumaya, il “cavallo umano”
che lo porta a spasso alla stanga, parla col sudore, e anche con l'atto di detergersi.
E i piedi, i “piedini”, non deformati dalle scarpe? E i caratteri grafici -
pitture, miniature: allegri, chiassosi, malinconici, pensosi? E i fiori di ciliegio
naturalmente, così vaporosi e così fitti e spessi, una neve, un cuscino.
Lafcadio Hearn, e con lui oggi Ottavio
Fatica, il curatore, condividono l'entusiasmo fine Ottocento per il Giappone.
Tutti, si dice lo stesso Hearn al primo giorno in Giappone, ne hanno l'impressione
di “un paese fatato”, e di “un popolo fatato”. Due iamatologi entusiasti, senza
riserve. Anche se di niente, di un Giappone che non esiste da tempo, già da
allora.
Finendo il primo giorno di visita su e
giù per Yokohama trascinato dall'uomo cavallo, Heran ha infine la visione di
Budda. Nel recesso più segreto del santuario. È uno specchio, brunito. E viene
da pensare a quanto Borges era già qui, in questi “Glimpses of unfamiliar
Japan”, d a cui la plaquette è tratta. Fatica, che condivide anche gli
entusiasmi buddisti, richiama opportunamente San Paolo: “Videmus nunc per
speculum in aenigmate, tunc autem facie ad faciem” – ogni tanto ci guardiamo
allo specchio.
Con qualche preziosità del curatore –
toscanismi? L'asserpolìo. L'illusione “spare”. Se non sono sviste: “I
giapponesi battono le mani per far venire gli inservienti” - o non sono gli
occidentali?
Lafcadio
Hearn, Il mio primo giorno in Giappone, Adelphi, pp.74 € 5
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