Il Tolstoj dei poveri. Della terra, delle erbe e le stagioni, dei contadini cocciuti, che sofrrono e prosperano, invece delle vuote aristocrazie, e dei tormenti d’amore. Che non mancano, ma per quello che sono, l’infatuazione di un momento, il richiamo della carne – dell’aria, dei suoni, degli elementi. Un canto di gloria alla fatica, al confronto col coevo Gor’kij, poverista piuttosto di regime. E il Teocrito del Novecento, quale resterà nelle storie. Ma: nazista?
Ogni
Hamsun si confronta col passato di hitleriano convinto dello scrittore, prima
della guerra, durante l’occupazione tedesca della Norvegia, e perfino dopo. Nel
1933 Hamsun aveva già 74 anni, Nobel da tredici, ma non era decrepito, e anzi
continuava a scrivere con la magia di sempre. E non si capisce. Questo romanzo
Sara Culeddu, che l’ha ripescato, tradotto e introduce, pubblicato nel 1917, dice
di “storia piena di controversie”, perché piacque ai lettori ma non alla
critica, e poi subì “l’appropriazione nazista”. Al punto da restare emarginato,
almeno fino alla ripresa della stessa Culeddu, nel 2020, per i cento anni del
Nobel a Hamsun - che, perché non dirlo?, deve molto a questo romanzo, di energie primitive. Ma, l’appropriazione di che? “Malgrado l’ovvio anacronismo di
considerare «nazista» un romanzo uscito nel 1917”, nota Culeddu, “è indubbio
che le sue pagine veicolino messaggi reazionari, antiprogressisti, antimoderni,
antifemministi e razzisti”. Dove? Non in questo romanzo.
Qui
Hamsun non è antifemminista. E anzi ha quattro personaggi femminili a tutto
tondo. Con i difetti anche, certo, ma non da un punto di vista maschilista. E
non c’è razzismo, e non c’è antiprogressismo. Non nei termini attuali, dopo la
sbornia del consumismo globale. La furbizia del Lappone vagabondo non è una
colpa, per lo scrittore del vagabondaggio. Non si può applicare
retrospettivamente la correttezza ipocrita di oggi – cancellare per esempio gli
zingari o rom che una volta popolavano la narrativa e ora non devono più
esistere. L’aiutante femmina del Robinson Crusoe delle marcite settentrionali,
futura “principessa” delle stesse, arriva “robusta e rozza, con ottime mani
pesanti”, “un po’ avanti negli anni”, parla confuso, e non è “dotata di
particolare intelligenza”, ma è “una benedizione” (pp. 10-11), in tutti i sensi
– sapremo dopo che ha pure il labbro leporino.
Una
scrittura formidabile – almeno nella traduzione di Sara Culeddu. Per
ingredienti minimi, la vita nei campi vergini del grande Nord, di fatiche,
ripetute, ripetitive. Che però assumono il fascino dell’ignoto, la vita
“limpida” della campagna – il “grande mondo” della città può brillare ma non
attrae. Con le catastrofi, naturali, stagionali. E l’ignoranza. Fino all’infanticidio,
materno. Due infanticidi: uno, in qualche modo giustificato, punito col carcere
(ma il carcere sarà una liberazione), e uno gratuito assolto, con argomentazione
femminista (un’orazione capolavoro, nessun social
femminista oggi saprebbe eguagliarla). Un elogio della sedentarizzazione, dopo
gli anni e la trilogia del vagabondaggio – qui si emigra per non lavorare.
Un
racconto lungo, insistito, ripetitivo, della vita nei campi, nelle marcite del
Nord selvaggio, che si legge come un libro di avventure. Tutto eccelle, le pietre,
i tronchi, le stalle, i parti solitari. E la prosa: un racconto di vita minuta
memorabile. E progressista, al fondo. Le miniere che i capitalisti si passano
di mano disinvolti, il commercio, la ricchezza vengono e vanno, valgono
“esattamente quel che la gente è disposta a pagarli, niente di più”; “i
germogli della terra, invece,” sono “l’origine di tutto, l’unica fonte di vita”
(p. 362).
Un
racconto perfino di buoni propositi, nel primo Novecento solforoso. Cosa ci si guadagna,
chiede alla fine il deus ex machina,
l’ex prefetto Geissler, e si risponde: “Un’esperienza forte e giusta”, e un’esistenza
libera, “perché avete autorità e calma, avvolti da grande benevolenza” (p. 411).
Knut
Hamsun, Germogli della terra,
Einaudi, pp. X + 421 € 22
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