venerdì 15 luglio 2022

Il miracolo delle “terre selvagge”

Il Tolstoj dei poveri. Della terra, delle erbe e le stagioni, dei contadini cocciuti, che sofrrono e prosperano, invece delle vuote aristocrazie, e dei tormenti d’amore. Che non mancano, ma per quello che sono, l’infatuazione di un momento, il richiamo della carne – dell’aria, dei suoni, degli elementi. Un canto di gloria alla fatica, al confronto col coevo Gor’kij, poverista piuttosto di regime. E il Teocrito del Novecento, quale resterà nelle storie. Ma: nazista?

Ogni Hamsun si confronta col passato di hitleriano convinto dello scrittore, prima della guerra, durante l’occupazione tedesca della Norvegia, e perfino dopo. Nel 1933 Hamsun aveva già 74 anni, Nobel da tredici, ma non era decrepito, e anzi continuava a scrivere con la magia di sempre. E non si capisce. Questo romanzo Sara Culeddu, che l’ha ripescato, tradotto e introduce, pubblicato nel 1917, dice di “storia piena di controversie”, perché piacque ai lettori ma non alla critica, e poi subì “l’appropriazione nazista”. Al punto da restare emarginato, almeno fino alla ripresa della stessa Culeddu, nel 2020, per i cento anni del Nobel a Hamsun - che, perché non dirlo?, deve molto a questo romanzo, di energie primitive. Ma, l’appropriazione di che? “Malgrado l’ovvio anacronismo di considerare «nazista» un romanzo uscito nel 1917”, nota Culeddu, “è indubbio che le sue pagine veicolino messaggi reazionari, antiprogressisti, antimoderni, antifemministi e razzisti”. Dove? Non in questo romanzo.

Qui Hamsun non è antifemminista. E anzi ha quattro personaggi femminili a tutto tondo. Con i difetti anche, certo, ma non da un punto di vista maschilista. E non c’è razzismo, e non c’è antiprogressismo. Non nei termini attuali, dopo la sbornia del consumismo globale. La furbizia del Lappone vagabondo non è una colpa, per lo scrittore del vagabondaggio. Non si può applicare retrospettivamente la correttezza ipocrita di oggi – cancellare per esempio gli zingari o rom che una volta popolavano la narrativa e ora non devono più esistere. L’aiutante femmina del Robinson Crusoe delle marcite settentrionali, futura “principessa” delle stesse, arriva “robusta e rozza, con ottime mani pesanti”, “un po’ avanti negli anni”, parla confuso, e non è “dotata di particolare intelligenza”, ma è “una benedizione” (pp. 10-11), in tutti i sensi – sapremo dopo che ha pure il labbro leporino.

Una scrittura formidabile – almeno nella traduzione di Sara Culeddu. Per ingredienti minimi, la vita nei campi vergini del grande Nord, di fatiche, ripetute, ripetitive. Che però assumono il fascino dell’ignoto, la vita “limpida” della campagna – il “grande mondo” della città può brillare ma non attrae. Con le catastrofi, naturali, stagionali. E l’ignoranza. Fino all’infanticidio, materno. Due infanticidi: uno, in qualche modo giustificato, punito col carcere (ma il carcere sarà una liberazione), e uno gratuito assolto, con argomentazione femminista (un’orazione capolavoro, nessun social femminista oggi saprebbe eguagliarla). Un elogio della sedentarizzazione, dopo gli anni e la trilogia del vagabondaggio – qui si emigra per non lavorare.

Un racconto lungo, insistito, ripetitivo, della vita nei campi, nelle marcite del Nord selvaggio, che si legge come un libro di avventure. Tutto eccelle, le pietre, i tronchi, le stalle, i parti solitari. E la prosa: un racconto di vita minuta memorabile. E progressista, al fondo. Le miniere che i capitalisti si passano di mano disinvolti, il commercio, la ricchezza vengono e vanno, valgono “esattamente quel che la gente è disposta a pagarli, niente di più”; “i germogli della terra, invece,” sono “l’origine di tutto, l’unica fonte di vita” (p. 362).

Un racconto perfino di buoni propositi, nel primo Novecento solforoso. Cosa ci si guadagna, chiede alla fine il deus ex machina, l’ex prefetto Geissler, e si risponde: “Un’esperienza forte e giusta”, e un’esistenza libera, “perché avete autorità e calma, avvolti da grande benevolenza” (p. 411).

Knut Hamsun, Germogli della terra, Einaudi, pp. X + 421 € 22

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