A
“Hoffman”-(Leone) Ginzburg, “Masino”-Pavese fa dire una cosa che lo segna: “Tu
non sei di quegli idioti che si cercano, ma colle tue ignoranze riesci a
vivere e a comprendere”. E di sé ribatte una cosa altrettanto importante: “Ho un
difetto soltanto. Che non capirò mai la politica”, spiegando ben in anticipo
gli smarrimenti del “Diario segreto”. Sa anche il suo problema con le donne –
la cosa si prolunga per una pagina, ma il succo è questo: “Un grand’orrore
di qualunque legame l’aveva fin’allora
distinto”.
Le
prime poesie di Pavese, dai quindici anni ai ventidue, 1923-1930, e la raccolta
di divagazioni torinesi “Ciau Masino”, 1932, una raccolta di racconti in realtà,
anzi un romanzo, primo tentativo di narrativa, inedito. Un omaggio ai lettori
dell’“Unità” il 12 settembre 1990, per i quarant’anni della morte, mai più
ristampato, che invece ribalta tutto Pavese, semplicemente: la persona, e anche
l’opera. Nell’introduzione, anonima e breve, ma straordinariamente viva e vera
– sebbene il linguaggio sia censurato dalla vecchia abitudine di omettere le
parole scurrili (ma una è rimasta, di un’opera che gli “bandava “ dentro, francesismo,
o piemontesismo). E nella semplice composizione del volume.
Le
poche note del prefatore anonimo sul legame paterno col professor Augusto Monti
al liceo, su Tina Pizzardo, “l’insegnante di matematica dal carattere duro e
volitivo, politicamente più che impegnata, iscritta al partito comunista
clandestino”, amore infelice di una vita (lei lo usa come cassetta delle
lettere), e sul suicidio per amore al liceo del coetaneo Elio Baraldi, nonché
sulle cotte in serie per le ballerine del varietà scolpiscono un altro Pavese.
Quando Baraldi si spara una rivoltellata “Pavese medita di imitare l’amico, poi
si limita a scaricare la rivoltella contro l’albero a ridosso del quale si è
ammazzato Baraldi. E scrive una serie di endecasillabi sciolti che invia subito
all’amico Sturani”. Una psicologia non senza ombre ma forte, e diretta, non
piagnona, lagnosa.
Le
poesiole, composite, sono anch’esse illuminanti. C’è naturalmente Leopardi,
filtrato da Pascoli. Ma anche la Vispa Teresa, in ottonari svelti. E il Berni.
Con un “Blues delle cicche” di cui Pavese andrà sempre orgoglioso, ripreso in
“Ciau Masino”. Che si adorna anche di un altro paio di poemetti in prosa, “Il
vino triste”, “La maestrina”, “Antenati”, e un secondo blues di cui Pavese fu
orgoglioso, “Il Blues dei blues”: le parole di una canzone jazz affidata però a
“’n Tripôlìn”, un musicista “Napoli”, tutto intriso di canto melodico, e quindi
abortita – il primo tentativo di “canzone d’autore”. Il tutto condito dal
mistilinguismo. Il dialetto (piemontese? torinese?) innerva “Ciau Masino”, ma
anche, nella costruzione, le prime poesie. Il poemetto a Titano (“All’alta rupe
sul mare\ ancora è inchiodato il Titano”), 1928, viene anche in inglese,
fluido.
È
strano come di questo personaggio così vispo si sia fatto una arcigno
professore, scontento della vita. “L’amore darà sempre guai a Pavese”, come ben
predice l’anonimo acuto prefatore – quando a quindici anni prende la pleurite
aspettando sotto la pioggia alla fine dello spettacolo una ballerina del
varietà che invece è già uscita da un’altra porta con “un corteggiatore più
fortunato”. Senza un’educazione agli affetti, da quasi orfano, cresciuto fuori
casa – torinese nato per caso a Santo Stefano Balbo e lì abbandonato. Iniziato
anche in queste cose dal professor Monti al liceo, che agli allievi consigliava
il bordello. Un po’ fissato, se si vuole, ma come allora usava, sui toni della
goliardia.
“Ciau
Masino” è un romanzo, scritto tra l’ottobre del 1931 e il febbraio del 1932, su
due linee narrative, la vita dura, ignorante, perdente dell’operaio, e quella
saputa e svagata degli intellettuali figli di famiglia, dei giovani studenti. “Tommaso
Ferrero, detto Masino”, un altro Pavese, è protagonista di sette racconti
(prodromi de “La bella estate” e altra narrazioni più fortunate di Pavese),
Masin Delmastro è protagonista degli alti sette (tornerà con altro nome in
“Paesi tuoi”). Masino è un giovane meccanico che le sbaglia tutte, da
collaudatore della Fiat volendo cercare fortuna con le scuole serali, poi da
torinese finito a Santo Stefano Belbo, e così via, fino all’abbrutimento,
l’omicidio, il carcere. Masin passeggia con gli amici, chiacchiera, va in
barca, flirta. E ha un dibattito insolito sul “francescanesimo” e sul Cristo di
san Paolo, che attribuisce a Hoffman, “l’ebreo”, il più dotato degli amici – un
dibattito pre Francesco-Bergoglio (e pre Pasolini).
Un
debutto bocciato, non si sa da chi (dall’editore Frassinelli? sicuramente
dall’amico “paterno” Leone Ginzburg), che però non dissuase l’anglista già
notorio Pavese dalla scrittura, come energicamente assicura all’amico di sempre
Mario Sturani, in due lettere allegate alla compilazione. “Il vivaio delle
ambizioni letterarie di Pavese”, lo dice a ragione il prefatore, “un testo
d’inaspettata freschezza e di sorprendente
allegria”.
Da
ultimo il sogno: l’America. Che comincia da Genova, a un Sailor’s Inn. Dove
però Masino-Pavese comincia con una battuta che oggi gli impedirebbe il visto,
di un compagno di bevute, “un negro”, rilevando “una mano nuda, da scimmia”.
Pavese giovane, Einaudi, pp.
170 s.i.p.
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