martedì 12 luglio 2022

Secondi pensieri - 488

zeulig

Credere – “Se è falsa l’idea, chi mi mette l’idea?\ Se non c’è bontà né giustizia\ perché si angustia il cuore nella tenzone\ difendendo i suoi inutili miti?”: se lo chiede, e lo chiede al suo amato Leopardi, Pessoa nella “Ode a Leopardi”. Una serie di argomenti al rovescio: “Se è falso credere in un dio o in un destino\ che sappia quello che è il cuore umano,\ perché c’è il cuore umano e il senso\ che ha del bene, e del male?” Per concludere – ma l’ode è incompiuta: “Quale malvagità, quale …, quale ingiustizia,\ ci fece per credere, se non dobbiamo credere?”.

Dittatura – È delle “minoranze operanti” di Sorel, e poi di Lenin e Mussolini. Il cambiamento (rivoluzione) è sempre opera di una minoranza attiva – ne è la materia e lo scopo – e  a volte vince. Nei due canali, della medietas e della radicalizzazione. Di quando si fa maggioranza, seppure passiva, tiepida, non ideologizzata. Oppure si radicalizza, inevitabilmente avvitandosi su se stessa, a partire da Robespierre.

È il sentiment alla base della radicalizzazione americana di questi anni Duemila: un imporsi delle minoranze di ogni tipo, che destabilizza le maggioranze (di genere, di colore, di posizione sociale), anche le più tolleranti, in quanto tracimano dagli equilibri della tolleranza, per imporsi – quasi una nuova intolleranza: come opinione, trend, mercato, e perfino legge. Con un senso profondo, totalizzante, di essere nel giusto e avere diritto - come un pregiudizio. Si vede un po’ in tutte le rivendicazioni – anche in quelle più giuste (contro un assassinio perpetrato da un poliziotto, contro un detto o un atto di razzismo, contro una sopraffazione nel nome della maggioranza).

Ci sono anche eccessi. Come dire fascista la scrittrice inglese Rowling, perché ha detto che una donna non è solo una persona con le  mestruazioni. Non c’è fastidio, non ci può essere, in un afroamericano che legga oggi Mark Twain, “Huckleberry Finn”, racconto sontuoso e comunque antirazzista, perché incontra più volte detta, non da Twain, dai tanti personaggi, lo spregiativo nigger. Non ci può essere fastidio, non c’è. Ma ci può essere, e c’è, il tentativo di avvantaggiarsene, chiedendo censure e compensazioni. Cioè opportunismo. In una logica che fa dei diritti una tagliola, e un soperchieria.

Eteronimi – Ricorrono di Pessoa - solo di Pessoa - i tanti sosia, proiezioni di se stesso, che Pessoa avrebbe voluto, o temuto, di se stesso. Che non sono però il normale sviluppo di ogni vita, dal vero o immaginaria – desiderata, provata? L’entelechia è un work in progress, tra errori, omissioni, presunzioni, progetti.

Infanzia  È la stagione dorata della psicoanalisi, il suo campo di esercitazione o caccia (“Edipo”, rimozione, fase anale…). E quindi di moltissima letteratura, a partire da Proust. Che pure non manifesta conoscenze o curiosità speciali per la nuova scienza – mentre Svevo, che la praticava dagli albori, evita accuratamente l’infanzia. George Perec, che invece non la trovava, non se ne ricordava, dovette alla fine ricostruirsela (“W ou le souvenir d’Enfance”), affiancando al suo “romanzo d’avventure” infantile il ricordo, poverissimo di eroismo o anche solo di immagini, di briciole, di cose “possibili”: parentesi per lo più, assenze, buchi, dubbi, ipotesi, e una difficoltà insorgente di ricordare – di dare corpo ai lampi di scoperta, casuali, sognati, copiati.

Malinconia – Viene “seduta”, propriamente, sulla sedia, in un piccolo saggio in tema di Tabucchi all’interno della sua ennesima celebrazione di Pessoa (“L’automobile, la nostalgia e l’infinito”, p. 64). Alla base e’è Eugenio D’Ors, “Glosas”: “Per lavorare, e soprattutto per sognare più nobilmente, è necessario stare seduti”. Ma per lo stesso D’Ors la sedia si accompagna al tedio, spiega Tabucchi: “L’«Oceanografia del tedio» è un monumento alla sedia”.

Tabucchi segnala anche un saggio del critico brasiliano Joacquim-Francisco Coelho, “Sulla sedia di Álvaro de Campos”, uno degli eteronimi di Pessoa. E ricorda che la “Melencolia” Dürer ha raffigurato seduta.

O non è viceversa: la malinconia mette seduti? Che potrebbe certo essere la stessa cosa: stando seduti – immobili, inattivi – si diventa malinconici, se già non lo si è. L’uomo è faber. Forse è solo disforia,  uno stato patologico, dei nervi, della circolazione.

Ritorna ciclicamente. E oggi è di nuovo a Burton, il pastore anglicano del Seicento, che trova il “morbo malinconia”, oggi si direbbe depressione, una pandemia da cui nessuno è escluso, per una lunga serie di circostanze. La fine di un amore, o anche solo di una emozione. L’interrotta o impossibile frequentazione di una persona affezionata. L’isolamento, o comunque la mancanza di un gruppo, familiare, sociale. Mancanze varie, di ogni tipo, reali oppure no, ma che comunque insorgono e occupano la mente. E l’insoddisfazione insorge, verso se stessi, verso un’attività o un’opera. E naturalmente, in senso elevato, biblico (“Ecclesiaste”, 3,11), quando non si afferra, o non più, la ragione delle cose, dall’inizio alla fine - la “malattia dell’anima” di Aristotele. Il reverendo Burton si firmava Democritus jr.

Ci sono sempre sorprese a sfogliare questa enciclopedia della malinconia, che produce, dice Burton, follia e genio. La “mélaina cholé” di Ippocrate, in greco la bile nera, o bile dell’umore nero, causa di ansia e di tristezza. Uno stadio morboso, non la normale “malinconia” del vivere, la stanchezza. Un “bipolarismo” che si rappresenta nero nell’incisione “Melencolia” di Dürer e rosso nella coeva ”Melencholia” di Cranach. Con l’ambivalenza, cioè, dell’inquietudine del presente, di voler o comunque aspettarsi un presente promettente, dal futuro prossimo migliore. Baudelaire ne fa famosamente un segno di distinzione, la malinconia dicendo nei “Diari intimi” “la nobile compagna della bellezza, al punto che non so concepire un tipo di bellezza che non abbia in sé il dolore”. Come farà il filosofo Romano Guardini, che nella malinconia trova l’inquietudine di chi avverte l’infinito che non sa o può cogliere, una forma di dolore illuminato dalla speranza. Già Marsilio Ficino, che Burton avrebbe fatto in tempo a inventoriare ma non lo fa, collegava alla malinconia il genio.

Leopardi la dirà il dolore che conclude alla gioia vera (“Zibaldone”, 1691). Mons. Nunzio Galantino, nella sua colonna settimanale sul “Sole 24 Ore Domenica”, ritrova l’infinito malinconico di Guardini nell’arte: “Come nella serie di tele e di xilografie realizzate da Munch a partire dal 1891, intitolate Melankoli”. Starobinski invece è drammatico, la malinconia eaminando come tristezza, disperazione, delirio, furore, suicidio.

Piacere – Può non piacere – senza che si sia masochisti. L’“amare amabam” di sant’Agostino è reso da Pessoa nell’“Ode marittima” in “gostava de gostar de gostar” – che Tabucchi traduce : “Mi piacerebbe che mi piacesse provare piacere”. Che però è una agudeza insensata: un doppio condizionale di un’azione positiva che non ha senso. O ce l’ha in negativo: il piacere non mi piace – che è una soluzione. 

Scienza e fede – “La scienza è per gli occidentali come la Chiesa cattolica per Cortès e Pizarro. Ma loro ancora avevano una qualche idea di cosa fossero i sacramenti”: Calasso, “L’innominabile attuale”, è portato a questa conclusione dalla lettura di Simone Weil su Planck – dai due articoli di Weil, “Compte rendu sur le livre de Planck” e “Á propos d’un livre de Planck” (tradotto come “Libero arbitrio”, il libro di Planck mette assieme una conferenza del 1923 a Berlino, “Legge di causalità e libero arbitrio”, e uno dl 1936 a Lipsia, “Sulla natura del libero arbitrio”). La teoria dei quanti è “straordinaria e sovversiva”, anche se forse è sbagliata in certe applicazioni, ma quando se ne allontana Planck è “banale”: dà per scontato che il mondo si fonderà su una scienza che non può capire, scoperta da un uomo che, al di fuori della scienza, non sa che dire.

zeulig@antiit.eu

 

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