“Restare non è facile. Non lo è tornare. Non è facile partire. Non è facile ripartire. Cinquant’anni di vuoto hanno mutato economia, società, antropologia dei paesi”. È la condizione umana (destino) degli inurbati per forza – studi, interessi, occupazione. Doppiata, in Italia, da da un evento millenaristico, apocalittico: l’abbandono delle piccole comunità, i paesi, che ne hanno caratterizzato la storia fino a recente, fino alle grandi migrazioni interne, anni 1960-1970 - il primo lamento sui borghi abbandonati è di Pasolini, “i borghi abbandonati degli Appennini e le Prealpi” - di Pasolini-Orson Welles, “La ricotta”, 1963. Era l’Italia dei borghi, dotati ognuno di vita propria, con la piazza, la fontana e il putto, un’architettura urbana e sociale unica e molto invidiata, della socievolezza estetica. Si dice l’abbandono della montagna, l’abbandono di fatto dell’Appennino, lo scheletro della penisola, ma è molto di più: è l’urbanizzazione centralistica, senza più, che l’Italia, sola in Europa, aveva evitato, policentrica, diffusa.
La
raccolta di saggi, ordinata e curata dai tre autori, si pone in un’ottica opposta.
Partendo dalla supposizione, data per constatazione, che è in atto un ritorno
ai borghi. Difficile però da vedere di fatto. Se non per alcune realtà
“metropolitane”, dei borghi già abbandonati dell’Alto Lazio e del confinante Abruzzo,
tra Avezzano e L’Aquila, in qualche modo pendolarizzabili con Roma – e sono
rifugi peraltro, dormitori, case a basso prezzo, piuttosto che borghi vissuti.
La forza dei borghi era la sussistenza: l’orto, il falegname, l’ebanista, il
fabbro, il meccanico-non-elettronico, gli ortaggi e la frutta locali e di
stagione, le conserve, il pane, etc., un insieme di conoscenze e di arti, arcaiche
ma pur sempre aggiornate. Niente più di tutto questo, anche i borghi sono ora
non-luoghi. O abbandonati, checché se ne dica dopo che sono stati rifugio dal
covid, oppure dormitori, per una vita che si svolge tra pendolarismi faticosi e
centri commerciali, con grossi freezer in cucina.
L’antropologo
Teti, testimone-teorico del dilemma partire-restare di cui sopra nel suo recente
trattato “Restanza”, partecipe qui col racconto “Il mio paese non è un borgo”,
con i suoi “ricordi” da antologia, emotivo ma di lirismo contenuto, e sintetico,
riflette al fondo questa perdita e questa impossibilità. Il ritorno è impossibile
all’antico, come è impossibile tornare all’alveo materno. Che oggi si propone
più angustioso per l’abbandono epocale, va ripetuto, sociale ed economico
insieme, della vecchia disposizione demografica, diffusa sul territorio, e
radicata, cioè caratterizzata, per quanto in dimensione piccola e minima. Ogni paese
aveva una personalità: un’anima, coriacea, persistente. Un linguaggio,
relazioni durature, anche impervie. Memorie e significati sedimentati. Che ora
scompaiono con l’età, con una sorta di “ultima generazione” – non più risorgenti,
rigeneranti, comunque tramandate, ma inerti, anzi neppure, ignorate, svanite.
Un
remainder. Dell’Associazione
Riabitare l’Italia, fondata e presieduta dallo stesso editore, Carmine Donzelli:
“un progetto culturale ed editoriale per cambiare il punto di vista imperante”.
Avrà molto da lavorare. Tanto più ora, da un decennio in qua, che la “seconda casa”,
cioè la realtà dei borghi, serve da cassa per i disservizi pubblici, statali e
comunali. Una ventina di interventi rapidi, di varia natura. Una seconda riflessione
dopo quella che nel 2018 aveva salutato la nascita dell’associazione, che
riunisce persone e competenze di ogni tipo, accomunate dal proposito di
ripopolare la schiena dell’asino. Con molta sapienza, dal significato di
“borgo” all’umorismo pacificato – “Il Borgo a meno e l’Albergo confuso”.
Filippo
Barbera, Domenico Cersosimo e Antonio e Rossi (a cura di), Contro i borghi. Il Belpaese che dimentica i paesi, Donzelli, pp.
208 € 18
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