Il primo volume di poesia marinettiana futurista, del giovane Palazzeschi, ventiquattrenne, già irregolare della poesia e della rosa con la plaquette “I cavalli bianchi” a vent’anni e il romanzo “:riflessi” a ventitré – due libri “Edizioni Cesare Blanc”, cioè l’autore - e ai ventiquattro appena compiuti dei “Poemi di Aldo Palazzeschi a cura di Cesare Blanc”. Plaudito, e letto, solo da Marino Moretti, amico di scuola e di sempre. Subito poi nello stesso anno Palazzeschi punta con questa raccolta, che intitolava ”Sole mio”, a Milano, su Marinetti. Che ne resta folgorato: Palazzeschi sarà intruppato, a partire dal 12 gennaio 1910, dalla “memorabile serata futurista al politeama Rossetti di Trieste”. “L’incendiario”, titolo di Marinetti, uscirà in primavera per le Edizioni Futuriste, “preceduto da un ingombrante Rapporto sulla vittoria futurista di Trieste e dedicato «A F.T. Marinetti anima della nostra fiamma”.
Perché
tutto questo contesto? Perché “L’incendiario”, in sé, è poca cosa. Molto sole,
molto rosso, del poeta nella sua stanza, delle suore nell’isola del Sole, il colore
dell’amore, non del diavolo?, e molti morti – a tratti è una “Spoon River” al rovescio:
niente sentimento, molta ragazzesca ironia.
È
la raccolta della “canzonetta” “E lasciatemi divertire!”, uno della ventina di
poemetti che la compongono. Dirompente sui canoni del 1909, pascoliani,
post-carducciani, dannunziani, una poesia senz’altro controcorrente, o
innovatrice. Ma niente di più. L’“incendiario da poesia” mette le suore alla
regola del sole, quante assonanze, e le chiama “Antonietta Solare\ Aurora
Del Sole\ Giuseppina Solamone\ Alba Raggi\ Isola Meriggi\ Meridiana Tornasole”,
etc.. C’è anche il “cugino americano”, si chiama mister Chaff e dice: “io possedere Amereca\ terreno molto
più grande”. E c’è il Palazzeschi cattivello, che tiene “una scimmia\ al posto
della moglie” – “Gli uomini come va,\ nella buona società\, usan tenere, per il
buon umore, una moglie\ al posto della scimmia,\ io, tanto di modeste voglie,\
lontano da ogni buona società,\ tengo una scimmia\ al posto della moglie”. Con
molto tratto fiorentino, la Titì, la bubù, e il noooo. E una insistita “Ciociara
in lutto”, il quadro appeso nel tinello con questo cartiglio, di chi sarà mai,
per 150 versi – le modelle dei pittori a Roma a lungo sono state ciociare.
È
la chiave forse dell’enigma Palazzeschi. Tanto appartato, perfino umbratile, e iperattivo.
Scrittore di molti testi. Dissacratore. Gentile ma insistente. Applicato all’opera
– la biobibliografia è lunga – e presto non più interessato. Così come fu abile
acquirente di case, benché vagabondo. Sempre in sostanza, ebbe casa contemporaneamente
a Firenze, Venezia e Roma. Qui dedica un poemetto al padre che intitola “Al
mio bel castello”, semplice: “Un poeta quando è stanco\ cambia castello”.
Socievolissimo,
con i Bellonci (premio Strega) a Roma, a Venezia giurato alla Mostra del Cinema (presidente nel 1948,
poi membro attivo più volte negli anni 1950). Scrittore di molti testi, di prima
stesura si direbbe – “e lasciatemi divertire” sempre.
Un’edizione
senza il “Rapporto sulla vittoria futurista”. Con uno studio concettoso di
Giuseppe Nicoletti, che ha curato la riedizione, una breve cronologia di Adele
Dei, e una corposa bibliografia di Simone Magherini.
Aldo
Palazzeschi, L’incendiario, Oscar,
pp. LVIII + 126 € 14
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