giovedì 4 agosto 2022

Il realismo di Pasolini è fiabesco

La fascetta editoriale propone il libro come “Monteverde nella vita e nell’opera di Pasolini”. E questo c’è, anche nella documentazione fotografica che arricchisce il libro: Pasolini ci ha vissuto alcuni anni, ci ha ambientato il suo primo romanzo, “Ragazzi di vita”, ci ha intessuto rapporti stretti con altri letterati che sentiva vicini e abitavano il quartiere, i Bertolucci, suoi condomini, e Giorgio Caproni, di sfuggita anche Gadda. Con scambi antologici ottimi, che Capitolo documenta, fra i tre monterverdini di più lungo periodo, Caproni, Bertolucci e Pasolini. Con le amabilità del luogo, villa Sciarra soprattutto, e il parco del Gianicolo. Ammirate, ma non a occhi chiusi, da queste eccellenze intellettuali immigrate: “La «spina della nostalgia» che tormenta Caproni accomuna gli amici scrittori di Monteverde. Roma è per tutti amore e disamore”.

Tutti sono immigrati a Roma, quelli di Monteverde – compreso Rodari, che non fa parte della cerchia: di loro volontà, ma con inevitabili riserve. Forse così è sempre stato, Roma è città di meteci, anche intellettuali. Capitolo richiama Catullo e Virgilio, ma quanti a Roma non lo sono stati? E la città vivono gradevole, ma dall’esterno, come osservatori. A Monteverde (peggio ancora, per Pasolini, all’Eur) più che altrove. Per esempio i Parise, Arbasino, Malerba, La Capria, Citati, lo stesso Calvino, del Centro Storico o dei Parioli, invece non se ne fanno problemi.

E dunque? Ma prima di venire al dunque, bisogna dare atto a Capitolo di una lettura fra le più pregne, anche invoglianti, fra le tantissime in circolazione su Pasolini, nella seconda parte del libro: “L’ossessione del sacro e della morte”, e ci si potrebbe fermare qui, ma d’obbligo sono anche “La Nuova Preistoria”, del radicale deluso, e “Spes contra spem” - che è la fede, malgrado tutto, nel futuro…

Capitolo ritesse la favola di Monteverde Vecchio, forse veritiera in chiave storica, negli anni 1950: ma allora non è quella di “Una vita violenta”. Quartiere ibrido, di provenienze, generazioni, linguaggi, che una certa vulgata vuole resistenziale, forse nella memoria della Repubblica Romana che qui ebbe l’estrema difesa. Ancora popolare, specie settant’anni fa, sempre secondo la vulgata, nella sua parte nuova, quella del romanzo di Pasolini, attorno a via di Donna Olimpia. Nonché robustamente antifascista per essere stato luogo di deportazione di Mussolini quando abbatté “i borghi”, attorno a san Pietro, per costruire via della Conciliazione - e, va aggiunto, chissà perché questo si trascura, per “risanare” Trastevere liberandolo dei “ladroni”, di cui cementava le porte. Impresa impossibile, sia detto, quest’ultima. Ma non è questo che importa qui, il fascismo e l’antifascismo. Sia Donna Olimpia sia Garbatella, altro quartiere cresciuto con le “deportazioni”, erano soluzioni urbanistiche: studiate, con asilo, scuola, ospedale, e case d’architetto: ancora oggi le “case popolari” dei Quattro Venti e Donna Olimpia a Monteverde sono tra quelle che fanno migliore figura e più quotate.

Il quartiere nell’insieme era ed è modesto, il Nuovo e il Vecchio, di piccola borghesia si direbbe. Un tempo ben governato, e ben servito. Mentre oggi, seppure magnificato, si presenta sporco e afflitto, trascurato, da tempo, si cammina sui marciapiedi rotti tra cartacce, ortiche e deiezioni animali, e isolato: non ha più praticamente mezzi pubblici con la città, con la quale invece era molto ben collegato, il Nuovo e il  Vecchio, col famoso 75 di Gianni Rodari, filovie, tramvie e ottime corrispondenze, ma da tempo non lo è più - a opera di una giunta di sinistra, se serve saperlo, assessore all’Urbanistica uno del quartiere…. E senza carattere, altro che Resistenza, solo bell’aria, coi grandi parchi, Pamphili, Gianicolo, Sciarra , che però non si amano e poco si curano – la grande Accademia Americana, e molte grandi residenza diplomatiche, .

Non era così nel 1960, ecco il dunque. E nemmeno nel 1950: la Donna Olimpia di Pasolini è un’invenzione, un luogo immaginario dove ambientare il picarismo dei “ragazzi di vita”. Capitolo lo sa: “Un mondo, quello della borgata, amato dallo scrittore, ma estraneo alla sua condizione borghese” – che Pasolini ha costruito anzi con cipiglio. Per cui “i suoi sentimenti si confondono in una contraddizione che non avrà mai fine”. Che oggi si può anche dire, non è più tabù. Capitolo vi accenna, facendo propria la definizione immediata di Contini, che non subiva censure, di “Ragazzi di vita” come di una “una dichiarazione d’amore” – o come, censorio,  disse Salinari: “Pasolini sceglie apparentemente come argomento il mondo del sottoproletariato romano ma ha come contenuto reale del suo interese il gusto morboso dello sporco, dell’abietto, dello scomposto e del torbido”..

I pischelli, i regazzini, sono i personaggi di tutte le narrative romane di Pasolini – un’ossessione, si direbbe, fino a “Petrolio”, ma conviene non allargare l’obiettivo. E Donna Olimpia un luogo che “Una vita violenta” sostituirà con altri, forse con maggiore veridicità, non si saprebbe dire. Ma Donna Olimpia come set dei “Ragazzi di vita” è di Pasolini. Questo è importante perché è una  favola che Pasolini racconta, sotto il realismo inteso come deiezione. E come tale oggi solo si può rileggere, come “Uccellacci e Uccellini” e le tante altre fantasie filmiche . con una dose di buona volontà. Come “documento” è poco (niente) e troppo, indigeribile.

In parallelo va la funzione e l’esercizio del romanesco: Pasolini parla romanesco da straniero, dopo averlo studiato e anzi sempre studiandolo nel mentre che vi si esercita. C’è una strana dissimiglianza fra il romanesco di Gadda, Ingegnere ben milanese, ben signorile, che è popolare,  romano, naturale e quello irto, puntuto, di Pasolini, anche nelle tante poesie. Perché Gadda è come Belli, si è calato nella Roma romanesca, per quanto da lui lontana, con l’ironia bonaria (che è il proprio del romanesco…). Mentre Pasolini ha continuato a studiarlo fino, si può dire, agli ultimi suoi momenti, a scovarlo, appuntarselo in enormi repertori, mai autonomizzandosi dal suo interprete per eccellenza, Franco Citti, o Ninetto Davoli (romano peraltro meteco): il suo romanesco viene spontaneo come il grammelot che in contemporanea sviluppava Dario Fo, frutto di mestiere ma non propriamente dialetto.

Pasolini è rimasto al di fuori di Roma, benché non abbia fatto che scriverne e rappresentarla, distaccato. Come lo è stato ed è rimasto con tutte le persone e gli ambienti con cui è venuto in contatto, Napoli, l’Africa, l’India, Milano, gli scrittori, i giornalisti, i cinematografari, le tante donne della sua vita – ma questo è un altro problema, biografico. Qui, partendo da Donna Olimpia e dai “ragazzi di vita”, basta sottolineare che sono sue “costruzioni”, ambientali e linguistiche. Morali.  

Luciana Capitolo, Pier Paolo Pasolini. Un giorno nei secoli tornerà aprile, Nova Delphi, pp. 268, ill. € 14

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