“La regina dei cuori che ha cambiato Windsor” è il sottotitolo di questa celebrazione della principessa Diana a venticinque anni dalla morte. Come se lei avesse operato le alchimie che consentono a questa casa regnante un po’ vacua un po’ balorda di prosperare, in Gran Bretagna, nel ventunesimo secolo, e anzi di dominare le cronache del mondo. Mentre ne è stata vittima. A cominciare dall’assurda prova di verginità che le fu imposta in prossimità del matrimonio con l’erede al trono – mentre, a distanza di pochi anni, diventerà regina una moglie fedigrafa, madre di due o tre figli, dal marito (si suppone) che poi ha tradito per le grazie del principe ereditario.
Questa
breve ricostruzione della vicenda di Diana non si pone questo problema, anzi sottolinea
la durata dei Windsor, la capacità, l’intelligenza, l’impegno, le buone cause.
Occupandosi soprattutto di mettere in buona luce Carlo, il marito e padre dei
principi ereditari che la tradiva con una donna sposata e in età. E questo è
parte della questione: che un pubblico italiano sia più interessato a dire bravi
ai Windsor invece che a deprecarne la costosa inutilità – quando non è
dannosa.
La
vicenda di Diana questo è: il suo brio di ventenne, la sua delusione, la solitudine,
gli impulsi, gli errori sono la cartina di tornasole di questo assetto
mostruoso, inutile, vacuo, che è la casa regnante inglese, che ammansisce coi
suoi riti e le sue diatribe sessanta milioni di britannici e almeno la metà
degli italiani. Si dice che è una favola, al di sopra per definizione dei sudori
e le bassure della vita quotidiana, ma le favole non sono simpatiche, sono temibili.
Enrica
Doddolo, Diana, venticinque anni dopo,
Corriere della sera, pp. 47 + 49, gratuito col quotidiano
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