Alla fine si ritrovano insieme, “la bella e fiera Stefa che da quando era ragazza gli intellettuali cercavano di toccare tramite le loro idee, e il figliolo stordito dell’orologiaio che lei aveva scelto e amato e preferito”, orologiaio anche lui, infine pastore (di pecore) di giorno e matematico di notte di fama mondiale. Ma è una falsa storia a due: Stefa e il figlio dell’orologiaio si sono separati in Polonia quando sono arrivati i tedeschi, e vivono vite separate, lui piccolo sionista a Tiberiade dopo un viaggio omerico, lei a capo di una qualche branca dello spionaggio sovietico.
Un
racconto bizzarro, di cose viste in Israele (il kibbutz, Tiberiade, il Golan) e
immaginate altrove, che l’editore qualifica di fiaba, ed è quello dell’ebreo
errante, fatto da un israeliano. Con ironia, con leggerezza, anche irrispettoso,
qui e là. Con le donne belle, intelligenti e frigide. Con le famiglie – il figlio
dell’orologiaio, se non è un errore di stampa, a un certo punto, a p.17, oltre
che la moglie Stefa ha abbandonato anche una figlia, perché non ci vuole pensare:
“La nostalgia era un’esca tossica, una freccia avvelenata”. Con la Polonia e i
polacchi. Con la “Chiesa cattolica”, di cui mostra di conoscere i riti e le
preghiere, ma non si priva delle “toledoth” su Gesù e Maria, la verginità, il
figlio di, etc. Con gli ebrei naturalmente. E a lungo con il kibbutz – quando
muore Ernest, il segretario del kibbutz, Stefa si riunisce col figlio dell’orologiaio,
e il figlio di Ernest, dato per minorato, trova l’amore.
Una
piccola kermesse dal 1939 al 1967 – il finale è sotto i cannoni siriani dall’alto
del Golan.
Amos
Oz, Tocca l’acqua, tocca il vento,
Feltrinelli, pp.197 € 16
Nessun commento:
Posta un commento