La visita della Speaker della House of Representatives del Congresso americano, ufficiale e in pompa, la prima visita ufficiale americana dopo venticinque anni, si è rivelata essere un atto di politica estera dell’amministrazione Biden, calcolato. Dagli scopi non dichiarati, ma probabilmente intesa a ricordare alla Cina “assertiva” del presidente Xi, un altro presidente a lunga vita, che Taiwan, seppure non sia considerata una “seconda Cina”, è tuttavia sotto protezione americana.
Nelle capitali europee, non
preavvisate di questa iniziativa, l’opinione è ovunque perplessa sui suoi
esiti, se non sui suoi moventi. È un rivolgimento della politica americana ormai
cinquantennale, avviata da Kissinger con i viaggi segreti a Pechino, seguiti
dalla visita di Nixon nel 1972, improntati alla collaborazione con la Cina
comunista, in tutti i campi. La visita è anche servita al rilancio del militarismo
cinese, da molti decenni tenuto fuori dalla politica di Pechino. E si allontana
ogni possibilità di mediazione cinese nella guerra della Russia all’Ucraina –
nella quale anzi Pechino potrebbe ora assumere perfino un ruolo di sostegno a
Putin, anche se solo a fini negoziali - qualche diplomatico in vena di facezie
si spinge perfino a dire la visita di Pelosi “la piccola Ucraina americana”, a
ruoli invertiti. I rapporti economici (globalizzazione, catene di valore cinesi)
non dovrebbero risentirne, ma potrebbero: non si esclude che Biden, che finora
ha evitato l’incontro diretto con Xi, se non per videoconferenza, abbia un
disegno di ridimensionare la potenza economica cinese, che alla vigilia della
sua elezione si voleva la maggiore al mondo.
Questo secondo logica. Ma non si esclude che la cosa non sia una rivalsa tra vecchieti - la rotoccatissima Pelosi ha qualche anno in più del presidente anziano Biden. In fondo, Biden aveva assicurato che l visita non si sarebbe fatta, lo aveva detto pubblicamente - che la visita non si sarebbe fatta su suggerimento del Pentagono.
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