“Andare per restare”, sono “il recto e il verso di un radicamento «in cammino»”. Programma semplice, ma in apparenza. Da un posto da cui “tutti” fuggono, Teti decide di restare. È una scelta che merita il neologismo. Da antropologo emerito, lo studioso indaga però il fenomeno, che vede nuovo, non come deposito residuo, ma come ipotesi, di apertura di un “nuovo processo”, dinamico e creativo.
Una
riflessione avviata da tempo, “su un aspetto apparentemente controintuitivo: il
viaggio da fermo di chi resta e, contemporaneamente, sul radicamento
archetipico ad un luogo di chi parte”. Col sussidio - o forse con la memoria
storica, comunitaria - personale. Quando gli emigranti eravamo noi, “restavano”
la moglie e madre, e i figli. Avvenne anche col padre di Teti. Nel lockdown imposto dal covid, con
“l’elogio del piccolo borgo … dal quale lavorare a distanza”, senza la fatica
del pendolarismo e in sicurezza, l’esigenza si è imposta di un progetto più
sostanzioso, “riabitare i paesi interni, riabitare la montagna, guardare al
centro dalla prospettiva inedita e umanissima della periferia”. Non “un invito
all’immobilismo” dunque, né un rigurgito di nostalgia, ma il progetto di
identificare “il rimanere come nucleo fondativo di nuovi progetti, di nuove
aspirazioni, di nuove rivendicazioni”.
Si
parte dall’antico, e quindi dal pane. Anche dalla “retorica delle rovine”, ma
il pane è di tutti. “La civiltà contadina tradizionale, definita «civiltà del
pane», descrive, nella sua fenomenologia conservativa, un culto fondativo ed
ideologico del pane della restanza”. Del padre in Canada Teti ricorda che la
sua abitazione, un edificio “in cui vivevano trentatré paesani”, veniva
chiamata “la casa dei trentatré pani”, quanti ne lasciava alla soglia il
panettiere ogni mattina. Si viaggiava e si viaggia, a milioni, per “cercare pane”.
Ma il pane, come a dire il bisogno? Il pane è cumpanis, compagno, ma è anche, in una storia diagrammatica, nella
storia, il necessario, il bisogno elementare. E quindi, bisogna stare al pane o
bisogna liberarsene? L’uno e l’altro: “Restare come principio di libertà, non
per isolarsi, ma per inscrivere la propria piccola patria nel cuore del mondo”.
Il senso, semplice, è nella dedicatoria finale: “Ricerca costante e attiva di
nuovo senso e di nuove possibilità di appaesamento”..
Di
grande lettura il capitolo centrale – malgrado il titolo: “La metafisica
distrazione dell’oltre”. Con una trattazione approfondita della nostalgia.
Termine recente, introdotto da un Andreas Hofer, “giovane studente alsaziano di
medicina”, presentando il 22 giugno 1688 una “Dissertatio medica de nostalgia”,
parola che aveva creato er crasi tra l’omerico nostos, il ritorno degli Achei, e algos, dolore, tristezza. Una doppia connotazione negativa, dunque,
in origine, poi elaborata come memoria grata. E con una trattazione originale –
anche se con riferimenti a riflessioni specifiche, di Magris, Jankélévitch,
Prete - di Ulisse, della sua odissea: “Il termine nostos non significa soltanto ritrorno, ma allude anche all’idea di
andare. Ulisse, allora, eroe del ritorno, non smette mai di tornare, ma, in un
certo senso non smette mai di arrivare”. O anche – Jankélévitch: la sua è una
strategia per “non tornare”, per non arrivare mai, non finire.
Un’analisi
in più passaggi radicale, di un sogno, incerto, più che di una prospettiva. A
cavaliere tra la “casa vuota” e la casa “popolata”, nelle new town dell’arte
borbonica di ricostruire dopo i terremoti, o nei piani comunali di
ripopolamento con la cessione “a un euro” di case abbandonate, Testi scegli il
rifiuto. “Un’idea devastante” dice quella delle case abbandonate – le new town probabilmente rifiutando per il
sentore di affarismo che accompagna le ricostruzioni. Sotto un duplice profilo.
“Restituisce l’idea che la casa venduta al prezzo di un euro valga esattamente
un euro”. Mentre, “sotto un profilo simbolico, è come svendere la memoria
comunitaria”.
Come
progetto è intricato – Teti si obbliga a ritornare spesso sul già detto. In
epoca di nuove migrazioni, e in Italia per la prima volta dopo secoli di vasta
immigrazione, le due esigenze vanno conciliate – e si conciliano, malgrado
tutto, lo spirito di comunità è oggi più vivo di prima grazie ai nuovi apporti.
Nello sport, nelle arti, nella letteratura, nei social naturalmente, e anche
nei quartieri e nei borghi.
Teti
è anche contro i progetti di ripopolamento, specie a ridosso delle aree urbane.
In Abruzzo, per dire, satellite di Roma con l’autostrada, in Terra di Lavoro di
Napoli, in Cilento dell’asse Battipaglia-Salerno. Che invece sono realtà vive e
vifviicanti: lo sviluppo è troppo facilmente dimenticato e anzi vilificato,
mentre è il motore di ogni cosa – l’evoluzione, il miglioramento, la creazione
di ricchezza: si può fare finta di deprezzarlo, il concetto e la pratica, ma a
che fine? Le case dei padri e dei nonni rivivono, tornano a respirare, l’aria
di oggi certo, non quella di due e tre generazioni fa. Perché non sarebbe
valido, anzi entusiasmante, il progetto di rivitalizzare i centri classici come
Riace con africani e asiatici – sia pure solo per entrare nel business dell’accoglienza?
Con
rimandi a Benjamin, Hillman, Heidegger. Teti arriva subito alla conclusione che
“l’anima del luogo dev’essere scoperta allo stesso modo dell’anima di una
persona”. Ma non a condizione che i luoghi abbiano un’anima? Per esempio in
Calabria, dove Teti vive: c’è una società tradizionale, un’anima, ancora in
Calabria? Teti la trova nel culto mariano, nella sacralizzazione comune al
Mediterraneo: “Nella società tradizionale calabrese, come in altre aree del
Mediterraneo, esiste un legame indissolubile tra luoghi, santi, madonne,
paesi, individui”. Sì, ma la società tradizionale c’è ancora?
Con
una bibliografia aperta sulla letteratura. E una panoramica degli scrittori
contemporanei della “restanza”: Di Pietrantonio, Marco Balzano, Franco Arminio,
Sonia Serazzi, Maurizio Fiorino, Gianmarco Di Biase, sorella Chiara, la badessa
delle Sorelle Povere di Santa Chiara – fose a Scigliano (Cosenza). Ma il tema,
Teti giustamente avverte, è già tra i più trattati, da Omero in poi: i “luoghi”
– nascita, vita, morte – sono sacri.
Resta
da dissodare l’atto pratico della restanza, fuori dall’orgoglio di chi, malgrado
tutto, è rimasto. La casa di famiglia – eh sì, di questo stiamo parlando – è da
qualche tempo fiscalmente “seconda casa”, nell’Italia che con la Repubblica si
è distinta per la forte, forsennata, migrazione interna. E quindi un onere,
anche pesante. Il futuro, anche prossimo, non è il ritorno al paese, il
lockdown è solo una pausa, ma l’abbandono del paese. L’Italia che si
distingueva per il fortissimo decentramento, con il putto o la sirena alla fontana
e una piazza anche nel borgo più remoto, si avvia a estinzione, lo spirito
comunitario vecchio, o nazionale o identitario, si è già dissolto in quello
condominiale, l’iperubanizzazione si accentua e non si restringe, non abbiamo
le banlieu e i ghetti etnici, non
ancora, ma sono il futuro che si vede.
Vito
Teti, La restanza, Einaudi, pp. 158
€ 13
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