Discrezione – Ritorna sempre con Shakespeare, “The better part of
valour is discretion”, dall’“Enrico IV, parte 1”, che però non la intendeva
veramente come discrezione, riservatezza, ma nel senso contrario come furbizia, ingannevole, progettata. Se la professa, verso al fine del dramma, Falstaff
decidendo di fingersi morto per non rischiare nella battaglia – e parlandosi da
sé a sé aggiunge che è stato lui a uccidere il nemico temibile Hotspur, che era
morto di suo.
Non era dunque una
virtù al tempo di Shakespeare. “Discrezioni” Mary de Rachewiltz, la figlia di
Ezra Pound ha intitolato il racconto dei suoi primi anni, di vita e di
formazione, in Alto Adige, come di una vita segreta – era figlia non
riconosciuta, in affido ai montanari – ed è un racconto di gratitudini. Discretion, discretions, suona in anglo-americano più come indiscrezione, seppure non offensiva.
Come riservatezza
sarà stata una virtù, ma non lo è da tempo immemorabile – almeno in letteratura,
quella storica compresa: non si è se non si dice, e più che dire, non si
impone - non ci si impone. Nonché non essere esercitata, si direbbe che non esiste.
Sembrerebbe virtù
religiosa, ma non è tra quelle cardinali (si può farla rientrare nella temperanza?)
né teologali.
Una parola di poca
fortuna?
Entelechia – Concetto complesso che però si può identificare (tradurre) nell’avatar ora ricorrente: un modello più che un copia, di funzionamento e anche di aspetto. Nella formulazione di Goethe, per esempio, come archetipo della pianta, di ogni specie vegetale, che rimane se stessa attraverso le differenti condizioni (ambientali, climatiche) che attraversa. O di Leibniz, della monade “centro di energia” autonomo, che pur collegandosi a tutte le altre monadi nell’armonia celeste, divina (non diversa dall’“anima del mondo” di Campanella, meta comune di tutti i viventi, ognuno animato a un proprio fine), rimane e ritrova sempre se stessa.
Filosofia-Occidente – “La filosofia è il linguaggio dell’Occidente”, Massimo
Cacciari, intervista con Candida Morvillo, “Corriere della sera”, 19 aprile 2029:
“Costituisce la forma del suo sapere e del suo agire, fornisce i concetti
fondamentali per intenderne l’inquietudine, le tragedie e la stessa follia”.
Semplice.
Il “logos
incarnato” si può dire l’Occidente? “È il pensiero che s’incarna, il pensiero è
azione, è la prima e fondamentale delle forme del nostro fare”, ancora
Cacciari: “Nulla è producibile che non sia pensato. Se nella civiltà europea si
è sviluppato un pensiero scientifico di un certo tipo è anche perché, nella sua
tradizione, rimane fondamentale quel prologo del vangelo di Giovanni in cui è
detto che il Logos si fa carne. Lì è una rivelazione religiosa, ma lo stesso
principio vale anche per la filosofia dell’Occidente”.
Nostalgia – “Un paradosso”, Vito Teti, “Restanza”, 76-77: “Il nostalgico
che per addizione etimologica (nostos,
il ritorno omerico, e algos, dolore,
n.d.r.) sta fermo e non riesce ad andare avanti, non è chi resta ma chi si
mette in viaggio, il migrante, l’esule. Restare, paradossalmente, sembra una
condizione desiderabile, tranquilla, pacificata, in un mondo in dispersione e
in dissoluzione. La nostalgia degli emigranti, dei partiti e dei rimasti svela
che il desiderio che nutre il sentimento del nostalgico non è il ritorno al
luogo lasciato o perduto, ma la riappropriazione del sé inveratosi nel tempo
passato”. Una sorta di auto-cresima, di consacrazione. Si è nostalgici però a
tempo perso.
Stato – Nietzsche lo condanna in “Così parlò Zarathustra”, parte
prima, al §”Del nuovo idolo”, in termini anarchici – meno vaneggianti rispetto
agli altri profetici “così parlo Zarathustra”. Ma è vero che non si saprebbe
finora definirlo. Se non, probabilmente, solo al modo di Max Weber, come quello
che ha il monopolio legale della forza. La definizione giuridica di Jelinek è
solo negativa, dice le condizioni per avere uno Stato, ma non la sua natura (entelechia,
finalità) e il suo funzionamento: un territorio dai confini determinati, una
popolazione stanziata su questo territorio, un’autorità in grado di governare
popolo e territorio – e la lingua, la storia o cultura, il patrimonio etico-religioso
condiviso?
È nozione recente,
si dice anche, creata in Eiropa, a partire dal Duecento, attraverso la
demolizione-scomparsa dei regimi feudali, con l’autonomia urbana, delle “città-stato”,
e poi con l’emergere delle famiglie di ottimati, quindi principati. Fino a
Machiavelli, che ne accenna nel “Principe” come “dominio”. E a Bodin, che ne
delinea i contorni di potere assoluto – delinea i contorni della parola “Stato”.
Mentre nel Duecento i Normanni nel regno
del Sud creavano feudatari, proprio perché erano una famiglia regnante,
con l’autorità derivata dalla vecchia impalcatura
imperiale, seppure sempre più evanescente a petto della feudalità che essa
aveva creata. Lo Stato per eccellenza essendo stato in Occidente l’impero
romano. Alla pari degli imperi asiatici, ma fin dai tempi angusti dei re di
Roma, e forse di Romolo e Remo, i fratelli coltelli.
Lo Stato è una derivazione della condizione tribale. E dello spirito tribale, ancora più forte
della condizione. A cui può sopravvivere ancora a lungo. Uno spirito vivo anche
se non più in condizione d’identificarsi, non giuridicamente o politicamente.
Si vede dalla difficoltà che ha l’Europa di federarsi, malgrado gli enormi benefici che ne deriverebbe, dopo secoli di nazioni-Stato
indipendenti e armate l’una contro l’altra. O della Federazione Russa, risentita
ovunque, nelle aree di confine e anche in molte aree al suo interno, come un
impero conquistatore e devastatore – di spiriti tribali ancora resistenti, pur
dopo secoli di dominio russo.
Tribalismo – In fondo, le storie più largamente diffuse e comprese,
e anche amate, sono quelle di Omero, che sono – Erik Havelock –
“un’enciclopedia tribale”, di più tribù.
A suo modo ne fa la teorizzazione antropologica Vito Teti in “Restanza”, là dove dice casa quella in cui si è nati, si è cresciuti - fino ai riti di iniziazione, di maturità, sottinteso, ma sempre come condizione personale.
Viaggio – “Siamo tutti altrove. Siamo tutti esuli”,
l’antropologo Teti conclude così un excursus letterario sul tema del partire e
del tornare, o restare: “In esilio da un tempo che più non ci appartiene, da luoghi
che ci sono stati sottratti o da cui ci siamo allontanati”.
Il più affascinante
è del rimosso, nel noto o nel vissuto. Per proprie occorrenze, anche solo di vagheggiamento,
di passatempo, non per necessità di polizia o per protocollo di terapeuta. È il
tema di Claudio Magris, de “L’infinito viaggiare”: “ll noto e il familiare,
continuamente scoperti e arricchiti, sono la premessa dell’incontro e
dell’avventura”. Da qui il nomadismo, non di necessità – di Ulisse: “Il viaggio
più affascinante è un ritorno, un’odissea”.
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