mercoledì 10 agosto 2022

Secondi pensieri - 490

zeulig

Discrezione – Ritorna sempre con Shakespeare, “The better part of valour is discretion”, dall’“Enrico IV, parte 1”, che però non la intendeva veramente come discrezione, riservatezza, ma nel senso contrario come furbizia, ingannevole, progettata. Se la professa, verso al fine del dramma, Falstaff decidendo di fingersi morto per non rischiare nella battaglia – e parlandosi da sé a sé aggiunge che è stato lui a uccidere il nemico temibile Hotspur, che era morto di suo.

Non era dunque una virtù al tempo di Shakespeare. “Discrezioni” Mary de Rachewiltz, la figlia di Ezra Pound ha intitolato il racconto dei suoi primi anni, di vita e di formazione, in Alto Adige, come di una vita segreta – era figlia non riconosciuta, in affido ai montanari – ed è un racconto di gratitudini. Discretion, discretions, suona in anglo-americano più come indiscrezione, seppure non offensiva.

Come riservatezza sarà stata una virtù, ma non lo è da tempo immemorabile – almeno in letteratura, quella storica compresa: non si è se non si dice, e più che dire, non si impone - non ci si impone. Nonché non essere esercitata, si direbbe che non esiste.

Sembrerebbe virtù religiosa, ma non è tra quelle cardinali (si può farla rientrare nella temperanza?) né teologali.

Una parola di poca fortuna?


Entelechia – Concetto complesso che però si può identificare (tradurre) nell’avatar ora ricorrente: un modello più che un copia, di funzionamento e anche di aspetto. Nella formulazione di Goethe, per esempio, come archetipo della pianta, di ogni specie vegetale, che rimane se stessa attraverso le differenti condizioni (ambientali, climatiche) che attraversa. O di Leibniz, della monade “centro di energia” autonomo, che pur collegandosi a tutte le altre monadi nell’armonia celeste, divina (non diversa dall’“anima del mondo” di Campanella, meta comune di tutti i viventi, ognuno animato a un proprio fine), rimane e ritrova sempre se stessa.

 

Filosofia-Occidente  – “La filosofia è il linguaggio dell’Occidente”, Massimo Cacciari, intervista con Candida Morvillo, “Corriere della sera”, 19 aprile 2029: “Costituisce la forma del suo sapere e del suo agire, fornisce i concetti fondamentali per intenderne l’inquietudine, le tragedie e la stessa follia”. Semplice.

Il “logos incarnato” si può dire l’Occidente? “È il pensiero che s’incarna, il pensiero è azione, è la prima e fondamentale delle forme del nostro fare”, ancora Cacciari: “Nulla è producibile che non sia pensato. Se nella civiltà europea si è sviluppato un pensiero scientifico di un certo tipo è anche perché, nella sua tradizione, rimane fondamentale quel prologo del vangelo di Giovanni in cui è detto che il Logos si fa carne. Lì è una rivelazione religiosa, ma lo stesso principio vale anche per la filosofia dell’Occidente”.

 

Nostalgia – “Un paradosso”, Vito Teti, “Restanza”, 76-77: “Il nostalgico che per addizione etimologica (nostos, il ritorno omerico, e algos, dolore, n.d.r.) sta fermo e non riesce ad andare avanti, non è chi resta ma chi si mette in viaggio, il migrante, l’esule. Restare, paradossalmente, sembra una condizione desiderabile, tranquilla, pacificata, in un mondo in dispersione e in dissoluzione. La nostalgia degli emigranti, dei partiti e dei rimasti svela che il desiderio che nutre il sentimento del nostalgico non è il ritorno al luogo lasciato o perduto, ma la riappropriazione del sé inveratosi nel tempo passato”. Una sorta di auto-cresima, di consacrazione. Si è nostalgici però a tempo perso. 

 

Stato – Nietzsche lo condanna in “Così parlò Zarathustra”, parte prima, al §”Del nuovo idolo”, in termini anarchici – meno vaneggianti rispetto agli altri profetici “così parlo Zarathustra”. Ma è vero che non si saprebbe finora definirlo. Se non, probabilmente, solo al modo di Max Weber, come quello che ha il monopolio legale della forza. La definizione giuridica di Jelinek è solo negativa, dice le condizioni per avere uno Stato, ma non la sua natura (entelechia, finalità) e il suo funzionamento: un territorio dai confini determinati, una popolazione stanziata su questo territorio, un’autorità in grado di governare popolo e territorio – e la lingua, la storia o cultura, il patrimonio etico-religioso condiviso?

È nozione recente, si dice anche, creata in Eiropa, a partire dal Duecento, attraverso la demolizione-scomparsa dei regimi feudali, con l’autonomia urbana, delle “città-stato”, e poi con l’emergere delle famiglie di ottimati, quindi principati. Fino a Machiavelli, che ne accenna nel “Principe” come “dominio”. E a Bodin, che ne delinea i contorni di potere assoluto – delinea i contorni della parola “Stato”. Mentre nel Duecento i Normanni nel regno del Sud creavano feudatari, proprio perché erano una famiglia regnante, con  l’autorità derivata dalla vecchia impalcatura imperiale, seppure sempre più evanescente a petto della feudalità che essa aveva creata. Lo Stato per eccellenza essendo stato in Occidente l’impero romano. Alla pari degli imperi asiatici, ma fin dai tempi angusti dei re di Roma, e forse di Romolo e Remo, i fratelli coltelli.

 

Lo Stato è una derivazione della condizione tribale. E dello spirito tribale, ancora più forte della condizione. A cui può sopravvivere ancora a lungo. Uno spirito vivo anche se non più in condizione d’identificarsi, non giuridicamente o politicamente. Si vede dalla difficoltà che ha l’Europa di federarsi, malgrado gli enormi  benefici che ne deriverebbe, dopo secoli di nazioni-Stato indipendenti e armate l’una contro l’altra. O della Federazione Russa, risentita ovunque, nelle aree di confine e anche in molte aree al suo interno, come un impero conquistatore e devastatore – di spiriti tribali ancora resistenti, pur dopo secoli  di dominio russo.

 

Tribalismo – In fondo, le storie più largamente diffuse e comprese, e anche amate, sono quelle di Omero, che sono – Erik Havelock – “un’enciclopedia tribale”, di più tribù.

A suo modo ne fa la teorizzazione antropologica Vito Teti in “Restanza”, là dove dice casa quella in cui si è nati, si è cresciuti - fino ai riti di iniziazione, di maturità, sottinteso, ma sempre come condizione personale. 

 

Viaggio – “Siamo tutti altrove. Siamo tutti esuli”, l’antropologo Teti conclude così un excursus letterario sul tema del partire e del tornare, o restare: “In esilio da un tempo che più non ci appartiene, da luoghi che ci sono stati sottratti o da cui ci siamo allontanati”.

 

Il più affascinante è del rimosso, nel noto o nel vissuto. Per proprie occorrenze, anche solo di vagheggiamento, di passatempo, non per necessità di polizia o per protocollo di terapeuta. È il tema di Claudio Magris, de “L’infinito viaggiare”: “ll noto e il familiare, continuamente scoperti e arricchiti, sono la premessa dell’incontro e dell’avventura”. Da qui il nomadismo, non di necessità – di Ulisse: “Il viaggio più affascinante è un ritorno, un’odissea”.


zeulig@antiit.eu

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