In contrasto con la critical race theory, storicamente la tratta atlantica degli schiavi africani viene per numeri in terza posizione, nel Sei e Settecento, dietro quella araboislamica, e le guerre tribali interne all’Africa – in base alla documentazione reperita e ricostruita dallo storico marxista americano Lovejoy.
“La schiavitù in Africa”, scrive
Lovejoy, “e il relativo commercio degli esseri umani ebbero la loro maggiore
espansione in almeno tre periodi, dal 1350 al 1600, dal 1600 al 1800, e dal
1800 al 1900”.
Lo schiavismo moderno è nato con l’islam. “Per più di 700 anni prima del 1450
il mondo islamico praticamente costituì l’unica influenza esterna sull’economia
dell’Africa”. I jihad fecero subito
molti schiavi, europei soprattutto e russi delle steppe meridionali, con
qualche africano. Poi, cessata l’espansione attraverso il Mediterraneo, il
serbatoio del lavoro servile divenne l’Africa. I primi commercianti europei di
schiavi, i portoghesi, operavano per mercati islamici, in Nord Africa, più che
per le piantagioni di canna da zucchero che si venivano creando nelle isole
dell’Atlantico, Madeira, Canarie e Capo Verde.
La conquista coloniale fu facile
– ancora Lovejoy – perché le istituzioni africane non c’erano più. Eccetto che
in Etiopia, stato cristiano, non schiavista.
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