Amelio prosegue in quello che è ormai il suo filone più persuavivo e accattivante, la narrazione-revisione della storia recente. Il terrorismo, Panisperna, la pena di morte (il fascismo), l’immigrazione, il rapporto padri-figli, le solitudini, la disabilità, la delocalizzazione, Craxi. Qui, da gay infine dichiarato, l’omosessualità proibita, anzi condannata, in tribunale, col “caso Braibanti”, al crinale di un’epoca, il 1968: un intellettuale e artista, musicolo, teatrante, poeta, fu processato per “plagio”,
Un film
Amelio fa del genere “legale”, pur senza le apparenze: concentra l’uomo, Aldo
Braibanti, un artista multidisciplinare che ha avuto una lunga vita, prima e
dopo il processo, e ha avviato o attraversato esperienze molteplici, sul
processo che gli fu intentato per plagio nel 1964. Un reato introdotto dal codice
Rocco nel 1930, su pressione di Mussolini, contro la libertà di espressione. Su
azione della famiglia di un ventitreenne, che Braibanti avrebbe circuito
subdolo. Una storia sordida, vissuta dall’opinione in Italia con curiosità, ma
più con smarrimento. Avendo provato gli attori del processo, la famiglia del giovane,
padre in testa, qui rappresentata invece dalla madre e dal fratello maggiore, a
ridurlo allo stato vegetativo con gli elettroshock e poi col ricovero forzato
in manicomio. A Piacenza dove abitavano. Piuttosto che saperlo, benché adulto e
in tutta intelligenza, in rapporto intimo con Braibanti.
Peggio
andò col dibattimento e le condanne. Che l’iniziativa familiare avesse trovato
il supporto della Pubblica Accusa, e poi dei giudici: del Tribunale (14 luglio
1968, decisione della giuria), con la condanna a nove anni, della corte d’Appello
(28 novembre 1969), presidente La Bua, con riduzione della pena a quattro anni,
confermati il 21 ottobre 1971 in Cassazione (presidente P. Rosso, estensore
Mazza, pubblico ministero Vincenzo Mauceri). La cosa sarà risolta nel 1973,
dal secondo governo Andreotti, ministro della Giustizia il vecchio Gonella, col
condono della pena residua, due anni, per meriti acquisiti da Braibanti nella
Resistenza.
Su questi
eventi, la famiglia, il processo, la distruzione del giovane, e una sorta di atonia,
quasi atarassia filosofica più che caratteriale, di Braibanti nel processo, si
concentra Amelio. Con una rappresentazione forte, come suole, del suo tema: un
racconto che lascia traccia. È così la rappresentazione di un mondo parafascista.
Della famiglia e più ancora della giustizia - come questa al fondo probabilmente
ancora si ritiene, con gli ermellini, le eccellenze, e i tentativi reiterati di
svicolare dal blocco delle retribuzioni massime ai 240 mila euro (l’appannaggio
del presidente della Repubblica).
Con
qualche errore. Amelio fa colpa all’“Unità”, il giornale del Pci, cui Braibanti
era iscritto, di non averlo difeso, per paura dello scandalo. Con un direttore,
allora Maurizio Ferrara, che tiene al decoro e ai buoni rapporti con i sovietici,
e si cura poco dell’affare. Mentre è noto l’articolo durissimo con cui Ferarra
bollò la decisione del Tribunale romano.
Anche Braibanti è un altro. Ha avuto una lunga e
densa vita prima del processo. E poi dopo. Ma il metodo di Amelio è narrativamente
centrato: si rappresenta un mondo con una persona in un momento partcolare –
qui Lo Cascio fa l’exploit, quasi sempre in scena - , e un fatto specifico.
Gianni
Amelio, Il signore delle formiche
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