L’etere è avvelenato, già in questo racconto del 1913. Il professor Challenger ha comportamenti strani: si nasconde sotto i tavoli, morde al polpaccio la governante. E strani sono diventati i suoi compagni di altre imprese da lui convocati per affrontare il mistero. La natura è offesa, il Grande Giardiniere, con un “disinfettante” daturon (dalla datura), dà una lezione all’umanità. Per lo meno, si suppone. Il resto non si può dire, ma l’indice reca, al cap. 5, “Il mondo morto”, e al 6 “Il grande risveglio”.
Un
racconto profetico, 110 anni fa: “La nostra razza umana è debole davanti alle
infinite forze latenti che ci circondano”. Il finale anticipa perfino il “postumano”:
“Non è la prima volta che il mondo resta vuoto”, filosofeggia il professor
Challenger, “si è popolato grazie a leggi il cui inizio è al di fuori o al di
sopra della nostra portata. Perché non dovrebbe verificarsi di nuovo lo stesso
processo?”.
Un
racconto, non un romanzo. Breve, cioè semplice, malgrado il rigaggio diffuso, e
più un apologo, a difesa della e dalla natura. Di un Friday for Future conservatore – l’ambientalismo è
nato conservatore, e anzi reazionario: “Gli effetti velenosi cominciano con un’eccitazione
mentale; a Parigi”, come al solito, “i disordini sono stati molto violenti, e i minatori gallesi”, come
al solito, “sono in tumulto” – uno “stadio di eccitazione che varia da razza a
razza”.
Il
“risolutore” professor Challenger, col quale Conan Doyle voleva sfidare
l’antipatizzante Sherlock Holmes, non è però simpatico: “Nessun tacchino del creato
avrebbe potuto batterlo”. Ed è anche autoritario – si direbbe spicciativo, come
se Doyle raccontasse questi “risolutori”, ai quali pure tanto doveva, con
fastidio. Insomma, l’ironia non manca neanche nel fosco dramma. E questo forse
è la parte più attraente della lettura, più del salvataggio del pianeta: il combattimento
dello scrittore con i suoi personaggi.
Arthur
Conan Doyle, La nube avvelenata,
SugarCo, pp. 123 € 4,50
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