Romanzo d’avventure tra le foreste e gli acquitrini dell’Indocina francese, un secolo fa, di tre contrabbandieri di reperti archeologici e trafficanti di armi. Costruito, anche troppo, contro le regole del genere – l’illusione del selvaggio primitivo, l’ossessione della morte (che è l’ultima cosa cui pensa l’esploratore – che si addebita al tipo), in idea, i discorsi delle iniziazioni, d’obbligo nelle narrazioni coloniali, il brutto del bello, etc.: molte parole e poca azione. Nel quadro di un progetto di carriera “letteraria” del futuro ministro di De Gaulle, anche se farà sempre i conti con l’attualità, la politica.
È il terzo romanzo
del giovane Malraux, quattro anni dopo il primo, “I conquistatori”, del 1926. E
dopo una condanna due anni prima, nel luglio 1924, a tre anni di carcere per traffico
di reperti archeologici in Indocina, con la moglie Clara Goldschimdt – una ereditiera
di ricca famiglia ebraica tedesca, sposata a vent’anni, nel 1921, di quattro
anni più grande, le cui fortune erano precipitate dopo il matrimonio. Clara riuscì
a rientrare in Francia, e a Parigi, mobilitando gli intellettuali, a far
scarcerare il marito già a novembre dello stesso anno. André avvia al ritorno un’attività
diversa, la scrittura, e nel 1930 romanza la sua avventura. Col quarto libro tre
anni dopo, nel 1933, “La condizione umana”, sarà scrittore premiato e
affermato.
Come romanzo d’avventure
non funziona – la storia vera dietro il romanzo è più vivace nel racconto
autobiografico della (ex) moglie Clara, “I nostri vent’anni”. Riacquista fascino
come avventura cieca, di uomini che vagano, anche nel tanto argomentare, in
dialoghi e riflessioni.
André Malraux, La
via dei re, Adelphi, pp. 207 € 18
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