Il gioielliere Haffmann deve lasciare Parigi durante l’occupazione tedesca e passare al Sud quando si ha la prima notizia del “censimento” degli ebrei. Affida l’attività al suo lavorante, compresa la casa di abitazione, con tanto di atto di vendita e “pagamento in contanti”, con l’intesa che dopo la guerra il lavorante gli restituirà il tutto. Ma il passaggio al Midi riesce a metà, solo la moglie e i figli ce la fanno. Haffmann si rifugia nella cantina, in attesa di un nuovo passaggio. Intensificandosi la persecuzione, quando se ne occupano i tedeschi invece dei francesi, il rifugio diventa stabile. Mentre l’oreficeria entra nel gradimento di un ufficiale tedesco, il “comandante Jünger, e il lavorante prospera – con i gioielli di mano di Haffmann.
Sarà una discesa
all’inferno. La coabitazione, già rischiosa, si aggrava di un altro problema. L’ex
lavorante, reputandosi sterile e volendo assolutamente un figlio, chiede alla
moglie e ad Haffmann di avere rapporti sessuali a questo scopo. In cambio, s’impegna
a impostare le lettere che Haffmann scrive alla moglie in salvo nel Midi, atto
che ritiene rischioso. Tutti i rapporti, lavoro, denaro, rispetto, affetti,
finiscono per ribaltarsi.
Due ore di suspense
create su una piattaforma piatta: pause, attese, grigiore, claustralità. Il
film adatta un dramma teatrale di successo dallo stesso titolo, autore
Jean-Philippe Daguerre, andato in scena nel 2017. Con un finale sornione – a rischio
politicamente scorretto.
Il ritmo e la
bravura dei due ruoli maschili, Auteuil-Haffmann e Lellouche-lavorante, questi
soprattutto. non lasciano un momento di pausa. Mentre al piano terra a livello strada
la presenza tedesca si aggira quieta ma minacciosa. A un andamento lento, guardingo,
nella prima lunga parte, una serie di capovolgimenti si sussegue con rapidità
nella seconda. Sotto l’apparente ordine
dell’occupante.
Un apologo anche
su bene e male così intrecciati, così indipendenti dalla volontà dei singoli.
Fred Cavayé, Addio,
signor Haffmann, Sky Cinema 2
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