Un volumone
farcito di cose, eccetto che di senso. Se non come ritratto di un’epoca, gli
anni 1970 nella California del Sud. Non ci sono storie: begli inizi e poi
divagazioni. Si parla di tutto, profusamente, dei temi più diversi. Suicidi,
reincarnazioni, predestinazioni, e scoperte di Dio: letture sacre, da bibbia,
vangeli, veda, con una spruzzata di buddismo e molta gnosi, rinfocolata dalle
scoperte dell’epoca, i rotoli di Qumran, o del Mar Morto, Nag Hammadi, la
divinità femminile. Intervallati da incontri con Dio stesso. Il sottotitolo,
editoriale?, è la cosa più giusta: “Impazzire è talvolta la cosa più
appropriata alla realtà”.
L’approccio è
ironico, anzi comico, di tutt’e tre i racconti o romanzi. Sui vari tipi e
ragionamenti che si incontravano a Berkeley e dintorni. Nelle pause, se non per
effetto, delle droghe. A partire da un ristorante Bad Luck nella “zona
pianeggiante” di Berkeley, probabile sobborgo o borgata, aperto da un “Fred
Hill”, supposto agente sovietico delegato a sopprimere in qualche modo i
compagni non in linea, socialisti, comunisti, anarchici. Si scherza anche sulla
Bibbia e i testi sacri, sugli spiriti maligni cacciati da Gesù in un branco di
maiali. Ci si inerpica, tra uno spinello e una birra, oltre che per i rotoli
del Mar Morto, fissa questa costante, per san Paolo, la Bibbia di re Giacomo e
quella di Gerusalemme, la tradizione rabbinica, gli zadochiti – gli zadochiti a
più riprese. Ma poi ci si prova a scalare, interminabilmente, sentieri impervi.
Specie quelli esoterici, come sempre inconcludenti: gli Amici di Dio, Meister
Eckhart, i Dogon del Mali, Ikhnaton, Jung, Paracelso, Osiris e Seth, il libro
di Giobbe, con Vishnù e Shiva, e Zoroastro, e Eraclito, la costante di
Fibonacci, la Cabala, affastellati per maggior peso, più spesso in una pagina.
Da compulsatore assiduo della Enciclopedia Britannica. Per ridere?
Valga per tutti il plot del
terzo racconto, “La trasmigrazione di Timothy Archer”. Il vescovo Tim Archer,
vecchio avvocato, è sotto inchiesta per eresia perché nelle prediche “non trova
la minima traccia dello Spirito Santo dal tempo degli apostoli” – e in privato
aggiunge: “La concezione apostolica dello Spirito Santo si basa sula ruah ebraica,
lo spirito di Dio”. Che sembra da ridere. Ma seguono digressioni su Whitehead,
Böhme, Hegel, sant’Agostino, e la sinteticità del latino. Mentre si saprà –
anche lui è vittima di Fred Hill, la spia – che il vescovo non solo convive,
vedovo, con una norvegese molto volitiva, ma che questa è in qualche modo
diabolica, e che entrambi abusano dell’“obolo episcopale”.
Il secondo racconto della trilogia,
“Divina invasione“, è di parole in libertà. C’è perfino una chiesa
cristiano-islamica. Con i Lakers e i Giants del baseball. E molta
filosofia, da sant’Anselmo e la prova ontologica dell’esistenza di Dio, fino a
Russell (Bertrand?). Feti di donne vergini. Un Elias che è stato Beethoven.
Questi “rozzo e impetuoso, appassionatamente dedito alla causa della libertà
umana”, dopo avere “camminato mano nella mano col suo amico Goethe, per creare con
lui la nuova vita dell’illuminismo tedesco” – rozzo? amico Goethe? Illuminista
precoce? E poi Tom Paine, il solito Böhme, e Martin Buber. Carlo Pagetti
intrepido prova a dare un filo alla trilogia, ma con poco costrutto - a parte
le informazioni sulla vita, sempre semplice e complicata, di Dick quando
progettò e scrisse la trilogia, con estratti corposi da “Exegesis“ che
avrebbe dovuto essere la Grande Opera di Dick: “una tragicommedia sulla
vita in America negli anni Settanta“.
Bizzarramente, rispetto agli altri
suoi numerosissimi racconti, Dick ha qui però anche narrazioni molto fattuali.
Del business spiritualista, tra psicoterapeuti pazzi o furbi, professori
all’università, revenants. Di vecchie amicizie riscoperte. Di
vecchie letture, rivisitate in dettaglio, di Dante soprattutto, il “Paradiso”,
e di Schiller, “I masnadieri”. Di molti dischi cult, da gestore di
negozio di dischi. Con un anticipo di “nuovi
filosofi”. Dell’ideale, che è il Rinascimento, “l’uomo poliedrico del
Rinascimento” – che era però il mondo di Dante, la rilettura è sofisticata: “Il
Rinascimento non era il trionfo del vecchio mondo pagano sulla fede, ma
piuttosto l’estremo e più pieno fiorire della fede, in particolare della fede
cristiana”. Di Santa Barbara, il “giardino” dell’università di California,
popolata di spiritisti. E soprattutto di Berkeley, l’università e la città. Con
i “realisti medievali”, delle “parole come cose reali”. E altri riferimenti non
avventurosi. Tra essi la nostalgia di come avrebbe potuto essere: l’arcangelo
(ermafrodita?) del terzo romanzo, Angel Archer, di sé può dire: “Non è stato
l’ultimo canto della ‘Divina Commedia’ a formare la mia identità, il giorno che
lo lessi la prima volta a scuola?…. Quella notte ho letto la ‘Commedia’ sino
alla fine, e non sono più stata la stessa. Non sono più tornata a essere quella
che ero prima”.
Con alcune
novità, anzi, poi correnti. Il segno cristiano del pesce che è la doppia elica
del dna. “Valis”, Vast Active Living Intelligence System, il
sistema di controllo satellitare, attuato negli anni di Obama, che tutti ora
sperimentiamo, nel nostro piccolo (sei stato al gabinetto?) sul cellulare. C’è
anche un presidente Fremont dove c’era Nixon, che ha un’armata civica, i
Fapper, Friends of the American People, come poi l’armata brancaleone di Trump
all’assalto del Congresso. E ci sono le morti per sfida, da dark
web – quella di Sylvia Plath pure crudele: “una gara a chi riesce a
tenere la testa nel forno più a lungo”. Con qualche incongruneza. Il
protagonista di “Valis”, Fat, all’agenzia di viaggi parla con la signora al
banco e il suo “terminale di computer” – negli anni 1970? è anch’essa una
pre-visione?
L'effetto è però
di confusione. A meno che la vena di Dick fosse, più che la fantascienza,
l’umorismo, anche feroce. Tutt’e tre i “romanzi” della trilogia potrebbero
essere infatti comici. Di sfigati, o fumati, o svitati, che si perdono in
chiacchiere, nel mentre che si svuotano, si stroncano, benché volenterosi.
“Valis” comincia con Philip K. Dick che anagramma il suo nome in greco, philippos,
amante dei cavalli, e in tedesco, dich, grasso, e si nomina
conseguentemente Horselove Fat. Sdoppiandosi con uno sparring partner,
il Narratore, in dialoghi a volte esilaranti. Nel terzo romanzo, “La
trasmigrazione di Timothy Archer”, il narratore Dick si traveste da donna,
Angel Archer, una sorta di Arcangelo, una che è laureata in lettere e vende
dischi, come già Dick, e fa da parafulmine, o spalla d’appoggio, ai suicidi –
che qui diventano maschi, mentre quelli di Horselove Fat erano femmine. Ma poi,
specie nel secondo volet della trilogia, “Divina invasione”,
la vena lieve si perde.
La comicità in filigrana rende la
fatica completa della lettura meno gravosa. Da non sottovalutare questa vena
surreale, che vira sul comico – questo non si rileva di Dick come a suo tempo
di Gogol’, fatte le proporzioni, un altro che finì per parlare con
Dio. L’impressione è che Dick abbia provato a rientrare con questi romanzi
nel mainstream, liberandosi dell’etichetta ingloriosa di scrittore
di genere. Di cui a lungo ha sofferto - come Vonnegut, che però malgrado le lamentele si era imposto. L’avvio del terzo romanzo è promettente: è il giorno dell’assassinio
di John Lennon, la narratrice si reca da un Richard Barefoot, a Sausalito, in
una casa galleggiante, per un seminario sulla spiritualità sufi, dopo avere
pagato in anticpo cento dollari: “In California l’illuminazione si compra come
si comprano i piselli al supermercato, a peso”. Riflettendo: “Daterò questo
seminario dalla morte di John Lennon”. E poi: “Che maniera di avviarsi sul
sentiero della comprensione. Vai a casa e fumati uno spinello”.
A tratti l’ironia si direbbe
pirandelliana, bonaria e insieme distruttiva – ma non si disdegnano le
barzellette. A tratti arbasiniana, da social scientist: di uno che
annota la storia mentre la vive, con occhio cinico.
Philip K. Dick, La trilogia
di Valis, Fanucci, remainders, pp. 678 € 10
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