Il caso di Thomas More, lo sceriffo di Londra assurto a cancelliere (primo ministro) del capriccioso Enrico VIII, rispettato a corte e in tutta Europa, celebre inventore di “Utopia”, amico da sempre di Erasmo di Rotterdam, fatto decapitare dallo stesso re perché si opponeva al divorzio e al successivo matrimonio con Anna Bolena, “una condanna che sconcertò il mondo” (Nadia Fusini – cioè l’Europa, occidentale), visto dalla parte della vittima – ora santo della chiesa. Un dramma a più mani, Anthony Munday, ideatore, Henry Chettle, Thomas Dekker, Thomas Heywood, e da ultimo Shakespeare, di fine Cinquecento-primi Seicento, regnante Elisabetta, la figlia di Enrico VIII. More ne esce “affabile, geniale, divertente, oltre che fine studioso e umile servitore dello stato” (Nadia Fusini). Segno di grande libertà di espressione, malgrado i sospetti perduranti di “papismo” tra i cattolici, o le posizioni in qualche modo assimilabili a quelle dei cattolici.
Il
dramma non andò mai in scena. Per le ripetute richieste di modifiche del Master of the Revels, il maestro delle feste, di fatto
il censore, documentate nel manoscritto superstite dell’opera, e poi per il fallimento
della compagnia che lo aveva in repertorio. Le censure sono singolarmente senza
cattiveria: vertono non tanto sulla persona di Thomas Moore, sull’apologia che
il dramma ne fa, quanto sul suo ruolo nel primo atto, di pacificatore, in
qualità di sceriffo, della rivolta popolare londinese detta “Malo
Calendimaggio”, “Ill May-Day”, del 1517, contro gli stranieri. Un migliaio di persone,
folla allora considerevole, protestò contro gli stranieri, gli immigrati
diremmo oggi, saccheggiandone fondaci e abitazioni. More domò la rivolta
parlando, così vuole il dramma (in realtà tredici rivoltosi furono impiccati, e
400 processati, poi perdonati): ascoltando i rivoltosi, spiegando loro le ragioni
morali e di convenienza di non assaltare i negozi e le abitazioni degli stranieri.
Solo l’anno prima aveva pubblicato, in latino, dopo lunga riflessione, la sua
celebre “Utopia”. Il metodo More piaceva naturalmente al censore, ma la rivolta
del 1517 lo turbava, avrebbe preferito che non se ne parlasse. Era meglio, a
suo parere, non farla rivivere: ogni rivolta è contro l’autorità – la corte, il
re, il regno.
Il
dramma segue Thomas More dall’Ill May-Day
all’ascesa al potere, alla disgrazia, con rispetto sempre della persona, anzi
con ammirazione: un’agiografia. Oggetto di molta filologia (anche in Italia,
con una prima traduzione che questa edizione apprezza molto, nel 1981, a opera
degli anglisti Vittorio Gabrieli e Giorgio
Melchiori), è stato scarsamente rappresentato.
La
lettura è piana. Sorprendente appunto in quanto rivaluta il cancelliere
decapitato, saggio qui in tutte le occasioni, a corte come in famiglia, anche
nella disgrazia finale, chiuso nella Torre, come già nella rivolta del Calendimaggio.
È una dramma storico. Sorprendente in questa edizione più per il paratesto, delle
curarici e traduttrici Nadia Fusini e Iolanda Plescia.
L’introduzione
di Nadia Fusini, che intitola il suo saggio “Il puro folle”, di Thomas More che
incarna il “puro folle” di Erasmo (una sottolineatura che egli stesso fa in una
lettera familiare, ricordando che il suo nome in greco, moros, significa folle), fa emergere la storia sorprendente della rivolta
contro gli stranieri, per gli stessi motivi che oggi si agitano contro gli
immigrati: hanno abitudini strane, anche nel mangiare, rubano il lavoro, violentano
le donne. Spiega i tortuosi procedimenti del Master of the Revels, del censore – che si ritiene anche autore,
comunque partecipe del business
teatrale, che non è opera d’autore isolato quanto industria, commercio culturale. A un certo punto
consiglia – il censore qui sempre “consiglia” – di dire gli stranieri del 1517
“tutti lombardi”, evitando di dirli cioè “lombardi e francesi”, perché ora la
politica regale è di avvicinamento alla Francia. Tutte sottigliezze di questo genere,
mentre resta indiscussa l’apologia di Thomas More.
Fusini
dà un’identità agli autori. Munday, “il miglior plotter” dell’epoca, ideatore di trame, a cui altri autori si rivolgevano
per avere un intreccio su cui lavorare, era un mangiacattolici. Fusini lo dice ”un
elisabettiano a Roma”, tratteggiandolo personaggio da romanzo: “”Londinese nato
nel 1560”, con More morto da venticinque anni, a scuola “sotto la direzione di
un ugonotto francese rifugiato a Londra, aveva compiuto un viaggio a Roma con
Thomas Nowell, di simpatie cattoliche, soggiornando presso il cattolico English
College nella capitale, per poi tornare in Inghilterra e scriverne una satira
feroce, The English Roman Life, nel
1582. E sempre lui diventerà una spia del governo inglese e renderà testimonianza contro il gesuita Edmund
Campion, scrivendo una serie di pamphlet
contro i martiri cattolici”. Resta la curiosità: scrisse la trama di “Sir
Thomas More” su richiesta di un autore papista, magari solo in petto? In altri tempi si sarebbe
detto di sì, anzi si sarebbe detto che il papista nascosto era Shakespeare, ma
gli studiosi di Shakespeare da qualche tempo sono cauti – è perfino finito il
gioco “Shakespeare era un altro”.
La
parte di Shakespeare è stata identificata nell’argomentazione di More ai
rivoltosi dell’ll MayDay, la scena 6, 155 versi su 265 –
aggiunta al copione in appendice, l’app. 2. Che rimanda Iolanda Plescia a
Lampedusa, agli sbarchi oggi: “Imagine,
dice More: «Immaginate di vedere gli stranieri disgraziati,\ coi bambini sulle
spalle, i loro miseri bagagli,\ che arrancano verso le coste e i porti per
imbarcarsi…»”. Più altri 21 versi alla scena 8, sulla verità del potere. Una
riflessione, nota Plescia, analoga a quella di Ulisse in “Troilo e Cressida”, cui
Shakespeare si applicava nello stesso arco di tempo. Al discorso di Ulisse che
anticipa Hobbes, sul “lupo universale”, il potere che finisce per divorare se
stesso, avendo divorato ogni preda possibile - o non rinvia piuttosto alle
argomentazioni oratorie di Antonio nel “Giulio Cesare”, dove anche c’è da
venire a capo di una sommossa popolare? Un’argomentazione tutta secentesca, del
disordine che chiama disordine: “Secondo questo metodo\ nessuno di voi arriverà
alla vecchiaia:\ altri furfanti, in balia delle loro fantasie,\ con quello
stesso pugno, le medesime ragioni, lo stesso diritto,\ come squali vi attaccheranno,
e gli uomini come pesci famelici\ si ciberanno gli uni degli altri”.
Un
histyory play, spiega Fusini, “un «dramma
storico», un genere essenzialmente elisabettiano”. Che la studiosa fa derivare da
Boccaccio, dalla “tradizione del De casibus virorum illustrium”, di cui girava una libera traduzione di John Lydgate
dal titolo “The Fall of Princes” – libera in quanto tradotta da una traduzione francese.
Iolanda Plescia spiega la preziosità del testo in quanto è “uno dei pochi
drammi” elisabettiani “che ci sia giunto in forma manoscritta”.
Un’edizione
in inglese e in traduzione, con molte note di contesto, una nota al testo, di come
si presenta nel manoscritto, e da che mani è redatto, una nota bibliografica
del dramma, dettagliata, comprese le rappresentazioni, una bibliografia
essenziale altrettanto dettagliata degli studi ultimi su Shakespeare, e dei
cenni biografici. Brevi questi ultimi, ma abbastanza per far capire che
Shakespeare è Shakespeare, non uno del centinaio di altre impersonificazioni
che se ne sono fatte.
L’unica
rappresentazione italiana, a Verona nel 1994, ha avuto Raf Vallone nel ruolo.
William
Shakespeare, et al., Sir Thomas More, Feltrinelli, pp.319 €
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