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Una vita in attesa, della morte assistita
Una vita scandita nell’arco di quattro generazioni
– qual è l’aspettativa di vita. Il primo amore che che si ricorda tutta la vita
- con i genitori in baruffa continua, è la loro forma di intesa. L’uscita di
casa, con la sorella che si annega e il fratello che dà in escandescenza al
chiuso in aereo – i genitori sempre in baruffa. La maturità, fra lo studio da
oculista, la bambina a scuola, la moglie isterica che per gelosia se la fa con
chi capita, la separazione, e il padre condotto a “morte assistita”, cioè indotta.
Una breve vecchiaia, con la figlia che muore in una scalata in montagna, dopo
aver partorito una bambina generata con uno sconosciuto africano, la vita con la nipote,
le notti al circolo, e una rapida morte, anche questa indotta, con tutti gli amici e parenti
che vengono ad assisterlo, nella “casa di famiglia”, al mare in Sardegna. Il tutto accompagnato
da ritorni in parallelo al primo amore.
Un soggetto a cinque mani, che dal romanzo di
Veronesi mutua il titolo e poco più. Un
montaggio affastellato, a tratti perfino incomprensibile. Solo raccordata da un
ruolo improbabile di Nanni Moretti (già protagonista di un altro fallimento
tratto da un romanzo di Veronesi, “Caos calmo”) , psicoterapeuta-psicopompo.
Forse un film di produttori, con troppi primi ruoli, Favino, Moretti, Smutniak,
Béjo, Ceccherini e altri. E molto
promozionato, ai festival di Toronto e Roma fuori concorso, e il giorno dopo in
tutti i cinema. Ma i pezzi di bravura degli interpreti, raccordati da un Favino
sempre più camaleontico (la sua versatilità è stupefacente, in questo film dà faccia a quattro o cinque persone diverse nello stesso personaggio), non bastano.
Sarebbe la storia di un uomo che come tutti fa il
colibrì, sempre in moto per stare fermo. Colibrì è però anche “l’uomo nuovo” in
giapponese, viene spiegato. E allora sarà un manifesto in favore della morte
indotta. Alla maniera flebile come viene assunta da certa borghesia
intellettuale – un film lungo due ore in cui incredibilmente non ci sono altri
che borghesi abbienti, nemmeno un tassista, un cameriere. Una corsa mesta verso
la morte, senza nemmeno il riso sardonico – quello accertato da Vladimir Propp,
“Teoria e storia del folklore”: “Tra
l’antichissima popolazione di Sardegna, i sardi o sardoni, vigeva l’uso di
uccidere i vecchi. E mentre uccidevano i vecchi, ridevano sonori”.
Il tema è semplice ma non politico, di leggi, di anime in pena. È frequentato dagli utopisti, p. es. da Thomas More, un santo, quando il dolore è insopportabile, e dalle persone semplici nel loro privato. Ma è melenso, prima che malinconico, eretto a bandiera di chissà quale progresso.
Francesca Archibugi, Il colibrì
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