Giuseppe Leuzzi
La Lega vuole assolutamente il Ponte sullo
Stretto. Di Venezia? Di Udine? Di Ponte di Legno? No, di Messina. Per affondare
meglio la Sicilia, e la Calabria insieme?
Però. Conte, il succedaneo di Grillo ai 5 Stelle, che ha a cuore i giovani, il Sud, il reddito di cittadinanza, e nel mirino la Lega, che si ribellò al suo governo, perché non organizza una gita obbligatoria degli italiani allo Stretto di Messina che la Lega vuole abbrutire? Anche una gita di corsa, una giornata, con arrivo all’alba e partenza al buio, quando lo Stretto si circonda di luminarie, sfavillanti sulle omeriche acque – che con la stagione viene già alle quattro, le cinque.
È una proposta modesta, ma Salvini ne
uscirebbe con le ossa rotte – si dice per dire (che vorrà dire?).
La Fabbrica del Ponte – o il miracolo della moltiplicazione
“Santo Cipriano mio dell’Aspromonte, come
guardasti il monte guarda il ponte”. Nella bibbia mitica (1.300 pagine, di 40
righe, di 80 battute) che Giuseppe Occhiato ha lasciato e ora si pubblica, “Oga
Magoga”, l’eroina Brandoria, sotto minaccia, prende a “recitare
precipitosamente formule su formule, carmi e ciarmi, uno scongiuro appresso
all’altro”. Culminando con l’invito: “Santo Cipriano mio dell’Aspromonte, come
guardasti il monte guarda il ponte”. Ed è un guaio, perché ora come ora san
Cipriano dell’Aspromonte, seppure è esistito, non esiste più, mentre il ponte,
che tanto avrebbe bisogno di uno sguardo salvifico, miracoloso, sì. Perlomeno,
si dice che sì, il Ponte c’è.
È però anche vero che qualche miracolo,
anche in assenza di santi, si è già prodotto, a opera del Ponte stesso. Che
dunque è da dire miracoloso?
Attorno all’Opera o Fabbrica del Ponte,
quali sono in uso per i miracoli dell’architettura: il manufatto è ancora di là
da venire, ma l’Opera del Ponte è attiva e industriosa, da quasi mezzo secolo
ormai. Ritoccando e rifacendo, in assenza del manufatto, studi, disegni e
progetti, del Ponte sopra il mare, sotto il mare, sospeso, su piloni, a campata
unica, con tiranti, con mare forza 9, e terremoto magnitudo 10 – perché no,
sulla carta tutto è possibile. Solo il traffico non è stato calcolato: non si
sa quanti siciliani decideranno di passare il week-end in Calabria, poiché di
questo si tratta, oppure di farsi un viaggetto di qualche migliaio di
chilometri in macchina fino a Roma o addirittura a Milano, a Chiasso, al Brennero
– a Ventimiglia no, la Francia non permette.
Da quando Pietro Ciucci, il suo primo e massimo fautore nei vent’anni da direttore generale dell’Iri e poi presidente della Stretto di Messina Co., se ne è occupato, fino a dieci anni fa, un miliardo e due il Ponte l’ha già generato. Non sprecato, si sa che la grazia divina è generosa, non del tutto: molti architetti, ingegneri, geometri, e persone d’affari se ne sono giovati – si continua a dire uomini d’affari, ma non ce n’è più motivo. E i primi appaltatori, che ora vogliono la metà di quella somma, 600 milioni, come indennizzo con penale, per non aver fatto nulla.
Gioia Tauro no, il Ponte sì
Il governo tedesco ha ceduto una quota del
terminale container di Amburgo alla società statale cinese Cosco. Contro le
pressioni, anche vigorose, degli Stati Uniti. Le ragioni di sicurezza
accantonando all’esigenza del porto di sostenere la concorrenza di Rotterdam e
Anversa. In Italia si tenta in tutti i modi di cortocircuitare il
portocontainer di Gioia Tauro, che è in concorrenza con Barcellona e Marsiglia.
Tenta di boicottarlo il governo – almeno nell’edizione Draghi. Per quale motivo?
Per nessun motivo – non è che boicottando Gioia Tauro si avvantaggia Genova, o
Trieste, o Livorno, o La Spezia, o Napoli. Semplicemente, così: per non collegarlo
all’autostrada e alla ferrovia – collegarlo decentemente, non con le “bretelle”
attuali. Una spesa minima.
In compenso, si offre alla Calabria il ponte
sullo Stretto. Di cui la Calabria non ha nessuna necessità, e semmai molto da
temere, per il paesaggio, che è un patrimonio, e per l’inquinamento. Forse ne
hanno bisogno i siciliani, ma non ne sono convinti: non ci tengono
specialmente, se non come un lusso in più fra i tanti di cui l’isola è
depositaria - tanto più che il danno al paesaggio lo farebbe alla Calabria,
seppellendola nella migliore delle ipotesi sotto le polveri, da luogo delle
sirene trasformandola in luogo mefitico di passaggio. Quello che, si parva licet,
l’Austria cara al cuore della Lega si rimprovera dopo avere accettato l’autostrada
del Brennero, un incubo che ha desertificato la valle, e ha fatto del Tirolo il
luogo di passaggio dello spazio comune industriale Lombardo\Veneto-Baviera.
Questo nell’ipotesi che il Ponte non solo
si cominci ma si finisca. Cosa impossibile: allo stato attuale delle opere
pubbliche in Italia non basta una legislatura per avviare un progetto e poi
completarlo. Sono più le opere non finite e abbandonate a metà, montagne di
euro spese per avere deturpazioni, scheletri di acciaio e cemento armato -
per esempio dentro e attorno a Roma. Si inizia, e poi non si finisce. Si inizia
distruggendo, si prendono i primi soldi, e si scappa, al coperto di varianti e
di tribunali amministrativi. Lo Stretto, che oggi si guarda come un mi’rāg del profeta Maometto, una
visione, un paradiso, sarà ridotto a una discarica. Forse per questo la Lega lo
vuole assolutamente.
Sicilia
“Un milione di siciliani lontani dall’isola”,
“Il cuore freddo di Catania”, verso l’ennesimo sbarco di ong tedesche. Non c’è
giorno in cui l’isola non meriti titoli killer. Non autocritici o a fin di
bene, poiché si ripetono sempre cuopi e anzi neri, ma un un approccio, una forma
mentis. Di buono nell’isola ci sono solo gli spettacoli e le arti –
compresa ultimamente la cucina d’autore – ma solo se di amici e compagni di
cordata, o di avvedute pr.
Non si saprebbe non apprezzare
l’autocritica. Se non è denigrazione – o anche solo un complesso, l’ex
complesso di inferiorità.
Per l’apertura della stagione lirica al Massimo di Palermo si pubblica la foto del sindaco Lagalla con l’ex direttore artistico Marco Betta e il sovrintendente Francesco Giambrone. Lagalla sovrasta gli alti due di tutta la testa: ci sono giganti anche in Sicilia.
Lagalla è un medico, Dc, portato da Dell’Utri e Cuffaro, due condannati per mafia. Anche Giambrone è medico. Non si può dire che l’isola non abbia continuità – resilienza?
Ha tradizioni recenti di rispetto, per la stagione d’oro dei “leoni di Sicilia”, come ora si vuole chiamarli, ma poi per tutto il primo Novecento. Un conservatorio che era un laboratorio musicale di prim’ordine, in Italia e fuori. Un’accademia di belle arti che attirava giovani da tutta Europa. Un’interlocuzione costante dei letterati con Roma e con Milano. È nel dopoguerra che si è imbastardita, fino a infognarsi nella mafia e le “sicilitudini”.
Sciascia, che è grande scrittore, e anche ricercatore storico, non è quello che più di tutti ha ridotto la Sicilia a “un caso” - si è fatto un monumento sulla Sicilia? La Sicilia di Pirandello e di De Roberto, che pure era molto più overa, e forse altrettanto mafiosa, era molto più ricca di quella che Sciascia ha configurato.
Cateno De Luca
ha subito una decina d’inchieste giudiziarie, due arresti, e da sindaco di
Messina un processo con la richiesta di tre anni di carcere, ma non è mai stato
condananto. Errori giudiziari non possono essere, sono troppi.
Ma la città di De Luca, Messina, quella sì, ha cambiato natura. Aveva un’università ricca di bei nomi. Serviva la Calabria, per l’università e i commerci – a partire dalle “bagnarote” che contrabbandavano il sale sui ferry-boat. Aveva un porto attivo, per il Nord Europa e per le marinerie Nato. Era una piccola metropoli. Ora non più, è una provincia qualunque, e senza carattere – una provincia “babba” si sarebbe detto un tempo in siciliano. Era governata dalle grandi famiglie, Aldisio, Stagno D’Alcontres, Bonaccorsi, Pulejo. Ora De Luca, Pd anomalo – come il De Luca campano: sarà il nome?
Si trovano nella “lingua” di Camilleri alcune
parole che non usano in siciliano ma sì in calabrese – catoju, basso,
etc. . Non è meraviglia, la Calabria è stata latinizzata via Sicilia, e i
dialetti neolatini di entrambe le regioni dunque si somigliano. Ma è un caso
raro, probabilmente unico, nella letteratura siciliana, un’insorgenza
calabrese, per un qualsiasi motivo: al là dallo Stretto c’è “il continente”.
Camilleri ha anche, tra le comparse e le location non isolane, ricorrenti riferimenti alla Calabria: Gioia Tauro, Cosenza, amici vecchi e nuovi di Montalbano, calabresi finiti male in Sicilia. È un caso unico fra i narratori isolani: la distanza tra Calabria e Sicilia è curiosamente considerevole. Un tempo Messina era l’università della Calabria, e conseguentemente la casa dei tanti, prolungati, fuori corso. Da qualche decennio non più, l’estraneità è totale.
Attorno allo Stretto, un tempo mare comune, resta tra i paesi dei Peloritani, le montagne di Messina, il miraggio in autunno dei porcini dell’Aspromonte, e d’inverno per gli sciatori a Messina delle piste di Gambarie invece che dell’Etna. Niente di più. Messina è pure stata per secoli fedele praticante del santuario di Polsi, all’interno dell’Aspromonte, della Madonna della Montagna – il luogo di culto di più antica continuità in Europa.
Jünger ne fa la
terra dell’eroico e del tirannico, sfacciata, un po’ – “Terra sarda”, 151-2. Al
termine di una vacanza in Sardegna, maggio 1954, annotando: “Malgrado la
molteplicità delle testimonianze, trovo che qui la storia mostri il suo volto
con maggiore discrezione che in Sicilia, dove l’eroico e il tirannico lasciano
di sé possenti tracce”. Nei luoghi e nelle persone: “La differenza è
inconfondibile, anche nel carattere delle persone. Paragonata alla Sicilia, la
Sardegna è una retrovia, un teatro di provincia”.
Trecentomila siciliani, su una popolazione di cinque milioni, non sanno leggere né scrivere. La Sicilia è anche all’ultimo posto per percentuale di laureati sulla popolazione attiva, tra i 25 e i 64 anni, non arrivano al 15 per cento. Praticando la Sicilia, invece, non si direbbe.
È la primavera per antonomasia per Proust, colorata (azzurro) e profumata. Proust se lo dice a Parigi, al passaggio della stagione, che non può tardare (alle prime righe di “Vacanze di Pasqua”, “Le Figaro”, 25 marzo 1913): “Siamo a Parigi, è inverno, e tuttavia, mentre si dorme ancora a metà, si sente che comincia una mattinata primaverile e siciliana”.
leuzzi@antiit.eu
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