Lo straniero si racconta. Straniero alla vita, uno che si fa fare, dagli eventi. Preciso, annotatore, ma passivo – una sorta di scrittore che non scrive, non “racconta”, non mette in quadro, se le racconta per se stesso: è questo il suo “quadro”, un orizzonte basso. Dialogante spesso, con amanti anche occasionali, con colleghi in ufficio, poiché ogni giorno va in ufficio, e a uncerto punto è anche rmosso, da Algeri a Parigi, con commesali occasionali all’osteria, con vicini di casa, chi ha perso il cane, chi ha cacciato la compagna araba. Ma in silenzio, in un teatrino personale, passivamente tutto accettando. Fino alla cancellazione finale.
Mersault è stanco. È nato stanco
– quello che si dice(va) così. La mamma si annoiava con lui – la mamma del
famoso incipit: “La mamma è morta”, all’ospizio. Mersault è sbadato. È
indolente, abulico. Accetta al suo tavolo al ristorante chiunque si proponga. Fa
entrare chiunque a casa. Un vecchio col cane. Il vicino di pianerottolo, in
lite con la convivente araba. Fa l’amore con chi capita. Non ama. Ma si
sposerebbe, perché no, il matrimonio gli è indifferente. Per la mamma morta
prende due gironi di permesso all’ufficio, ma solo per dovere. Con meraviglia
registra il cordoglio del personale che è stato vicino alla mamma, il
direttore, il portiere, l’amica, l’amico, l’infermiera, e niente, non sa che
fare. Ha occhi per il paesaggio, questo sì, l’ospizio è in campagna, e la
campagna è nella. Finale della cerimonia è “la mia gioia
quando l’autobus è entrato nel nido
di luci di Algeri e ho pensato che sarei andato a letto e avrei dormito dodici
ore”.
Il giorno dopo è
sabato, e quindi, con i due giorni di permesso per la mamma, Mersault ha
rimediato quattro giorni di ferie. Va al mare a nuotare. Vi incontra Marie
Cardona, una giovane dattilografa già al suo ufficio, con la quale erano soliti
guardarsi con intenzione. Prendono il sole insieme, vanno a vedere un film di
Fernandel, fanno un po’ di petting e
la ragazza va a casa sua. L’indomani mattina
Marie è già uscita, doveva andare da una zia. La eccezionalità accoppiata alla domesticità. Mersault passa la domenica
al balcone, della casa di mamma. Poi ricorda di aver detto al suo avvocato, a difesa: “Tutte le
persone normali, gli ho detto, hanno una volta o l’altro desiderato la morte di
coloro che amano”.
Lunedì riprende
il lavoro. Compatito da tutti, e non capisce perché. Seguono frequentazioni
strane, e molto mare. In una di queste giornate di mare, caldissime, sudate,
quando Mersault ha sparato a un arabo nemico del suo nuovo amico Raymond, il vicino
di pianerottolo, con la pistola di Raymond, si dice: “Mi sono
scrollato via il sudore e il sole. Ho capito che avevo distrutto l’equilibrio
del giorno, lo straordinario silenzio di una spiaggia dove ero stato felice.
Allora ho sparato quattro volte su un corpo inerte dove i proiettili si
insaccavano senza lasciare traccia. E furono come quattro colpi secchi che
battevo sulla porta della sventura”.
In prigione non sa che dire all’avvocato, che vorrebbe sapere. Viene visitato da Marie, molto emozionata, il che lo lascia perplesso. Del processo in Assise racconta i dettagli, come se non lo riguardassero. Ma il racconto è al meglio del legal thriller, scorre rapido, in una serie di innuendo e “sarà”. Dell’arringa finale dice: “Mi ricordo soltanto che dalla strada, attraverso tutte le sale e le aule, mentre il mio avvocato continuava a parlare, ha risuonato fino a me la trombetta di un venditore di panna. Mi hanno assalito i ricordi di una vita che non mi apparteneva più, ma in cui avevo trovato le gioie più povere e più tenaci: odori d’estate, il quartiere che amavo, un certo cielo di sera, il riso e gli abiti di Maria. Allora tutta l’inutilità di ciò che facevo in quel luogo mi è rimontata alla gola e ho avuto una fretta soltanto, di farla finita presto e di ritrovare la mia cella e il sonno”. Condannato, non si scompone. Solo riflette, al momento di chiedere la grazia, se chiederla: “Ma tutti sanno che la vita non vale la pena di essere vissuta”.
Il racconto di
un Buonannulla, senza preziosismi, malgrado la concettosità – circoscritta. Che
si rilegge come nuovo. In filigrana - il racconto è del 1946 - un saggio contro
la pena di morte: se c’è qualcuno che la meritava è proprio Mersault, senza
attenuanti, e dunque, se il caso limite è irresponsabile….
La vigilia Mersault
tratta male il prete. Ricorda la madre felice nel suo nuovo amore in ospizio. E
si consola: “Come se quella grande ira”, contro il prete e il Crocefisso, “mi
avesse purgato dal male, liberato dalla speranza, davanti a quella notte carica
di segni e di stelle, mi aprivo per la prima volta alla dolce indifferenza del
mondo. Nel trovarlo così simile a me, finalmente così fraterno, ho sentito che
ero stato felice, e che lo ero ancora. Perché tutto sia consumato, perché io
sia meno solo, mi resta da augurarmi che ci siano molti spettatori il giorno
della mia esecuzione e che mi accolgano con grida di odio”.
Gran
finale, di un personaggio formidabile, memorabile. Un racconto molto letto
ovunque nel mondo - Visconti ne ha tratto anche un film, non memorabile, con
Mastroianni. Di cui non si capisce però che sia diventato una pietra d’inciampo
filosofica, tra Camus e Simone de Beauvoir, che scrisse un libro contro, lungo
il doppio, e altri scrittori e pensatori del dopoguerra a Parigi. L’esistenzialismo
sarà stato buona scrittura – e nient’altro?
Albert
Camus, Lo straniero, Bompiani, pp. 157 € 13
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