È il racconto dei primi anni della scrittrice in Normandia, in un paese di campagna tra Le Havre e Rouen, nella campagna sulla riva destra della Senna detta “il paese di Caux”. Del padre che cucina e cura la bambina, della madre che fa il commercio e tiene i conti, della loro attività di droghieri-merciai-baristi, della scuola religiosa, del paese, della prima formazione della scrittrice, autodidatta, per limiti sociali e anche di formazione, in un orizzonte limitato. Con un curioso effetto boomerang, non voluto o all’opposto del senso del racconto: dell’ininfluenza dell’ambiente, familiare e sociale, nella crescita, nella formazione - non in senso deterministico, e anzi, più spesso, incidente come molla al cambiamento.
Nel romanzo, del
1997, Ernaux, autrice ormai affermata dopo il successo de “Gli anni”, prova
anche a definire il suo metodo di scrittura: “Essere etnologa di me stessa”.
Evitando, sembrerebbe, l’invenzione, seppure come gioco di memoria:
“Naturalmente niente racconto, che produrrebbe una realtà invece di cercarla.
Non accontentarmi neanche di fissare e trascrivere le immagini del ricordo ma
trattarle come documenti che si spiegheranno sottoponendoli ad approcci
differenti”.
Il racconto gioca
in realtà con la memoria, che evoca nel fulminante incipit: “Mio padre voleva
uccidere mia madre una domenica di giugno, all’inizio del pomeriggio”. Anche se
la confida ai reperti: cartoline illustrate, fotografie, copertine di
“Confidenze” e riviste femminili, i luoghi, che rivisita, il quotidiano “Paris
Normandie”, il messale portatile o libro di preghiere che ogni buona donna, le
ragazze comprese, dovevano avere la domenica in chiesa. Anche la scuola in
collegio dalle suore, che frequenta da esterna, un privilegio, il capitolo più
“etnologico”, riprende e spiega da un punto di vista preciso, del rifiuto – in
nota, l’unica del racconto, spiega come si fa il segno della croce, come si
faceva in un mondo o in un tempo dimenticati. E non sa, apparentemente, che è
quella che era – non è una scrittrice parigina, per esempio, i suoi fatti
privati, per esempio, le sue malattie, le sue parentele, racconta al modo
campagnolo.
Resta un manuale
della vita in provincia a metà Novecento – in Nomandia come, per dire, in
Calabria. Che Ernaux vuole negativa, di “inafferrabile pesantezza, impressione
di chiusura”, tale che ne appesantisce tuttora i sogni: “Le parole che io
ritrovo sono opache, pietre impossibili da spostare”. L’aneddoto del padre
casalingo e servizievole d’improvviso minaccioso serve a fissare un anno,
un’età, 12 anni, e il mondo attorno. “A giugno del 1952”, il giorno
dell’incipit, a dodici anni, “non ero mai uscita dal territorio che si nomina
in modo vago ma compreso da tutti, là da noi, il paese di Caux”. Ma Rouen,
dove pure la futura scrittrice si è recata qualche volta con la madre per gli
acquisti, non è, non era, una sonnolenta cittadina di provincia - è uno dei luoghi
che hanno formato Ruskin, il grande esteta inglese delle cattedrali (e di
Venezia) (“per tutta la mia vita, il mio pensiero ha gravitato attorno a tre centri,
Rouen, Ginevra e Pisa…. Rouen, Ginevra e Pisa hanno formato la mia vita”, etc.). Una Normandia controcorrente, contro le cartoline illustrate che se ne fanno dopo Proust?
Annie Ernaux, La
vergogna, L’Orma, pp. 128 € 15
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