Prose inverosimili, invereconde, di Proust, non più agli esordi, del 1903, 1904,1905, e fino al 1907, quando di anni ne aveva 36. Per lo più su “Le Figaro”. Al quale collaborava già dal 1900, e con la più ampia disponibilità del direttore Gaston Calmette. Firmate “Dominique”, “Horatio”, “Écho”, come “echi” mondani, ma ben lunghe, anche di una pagina di giornale, che è comunque troppo.
Primeggia il
ritratto della principessa Mathilde, che più di ogni altra emoziona Proust,
otto o nonagenaria, figlia di Girolamo Bonaparte, “re di Vestfalia”, la
“comandante” di tutti i Bonaparte. Grande pittrice è Madeleine Lemaire, per
il semplice fatto che frequenta uno dei salotti. La poetessa del secolo è Anna
de Noailles. Con un profluvio di “nomi”, da impenitente name dropper, il
lato più faticoso dello snobismo - mostrare di conoscere le eccellenze.
Si potrà dire che
ci vuole genio per scrivere molto senza dire nulla, eccetto i nomi, e allora
Proust è geniale, ma per ridere. Sono paginette, oggi, documentarie, di Fine
Secolo, di chi c’era e di come si era o diventava personaggi. Nella Francia
iperrepubblicana: tutti in qualche modo titolati. Prose quindi come documenti d’ambiente.
Ma c’è poco, oltre i nomi.
Proust se ne fa
perfino una teoria, non balorda. Confortato da un testo di Renan, il discorso
di ricezione all’Accademia: “Quando una nazione avrà prodotto ciò che noi abbiamo
fatto con la nostra frivolità, una nobiltà più coltivata della nostra nel
sedicesimo e diciassettesimo secolo, delle donne più affascinanti di quelle che
hanno sorriso alla nostra filosofia…. una società più attraente e più
spirituale di quela dei nostri padri, allora saremo vinti”. Con qualche dubbio,
però: “Lo charme delle maniere, la cortesia e la grazia, lo stesso spirito,
hanno veramente un valore assoluto?”, chiede Proust a Renan: “Lo si crede
difficilmente oggi”. Questo non lo dissuade.
Marcel Proust, I
salotti di Parigi, Passigli, pp. 128 € 12,50
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