martedì 20 dicembre 2022

A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (511)

Giuseppe Leuzzi

Il nostos, il ritorno, tema eminentemente meridionale, tale e tanta è stata ed è l’emigrazione, il poeta Franco Arminio da Bisaccia, in provincia di Avellino, spiega fattuale: “Vivo nella casa dove sono nato e da cui non sono mai andato via”, benché abbia vissuto a lungo lontano: “Ma il paese non mi dà più niente. E devo essere onesto: ci sono molti luoghi, come il mio, sfiatati e stanchi”.
 
Il nonno “non lasciò mia madre iscriversi al ginnasio”, Andrea Carandini ricorda del nonno Luigi Albertini, il proprietario e direttore del “Corriere della sera”: “Allora le ragazze andavano educate solo in casa”. Allora, invece, in Calabria le zie si diplomavano maestrte, studiando fuori casa, poiché le scuole non erano diffuse. E dopo il diploma lavoravano.
 
Albertini, reduce dal fallimento della banca e della reputazione di famiglia, si avvia alla direzione del “Corriere della sera”, di cui ha fatto un grande giornale nei vent’anni fino a Mussolini, su impulso e manleva di Luigi Luzzatti, l’economista e banchiere. Ma al giornalismo era stato indirizzato da Francesco Saverio Nitti, radicale, meridionale, meridionalista.
 
Un’indagine Mediobanca-Unioncamere-Centro Studi Tagliacarne scopre che al Sud ci sono molte imprese medie (familiari), competitive, anche sui mercati internazionali. Malgrado le “inefficienze di sistema” (infrastrutture, accesso ai mercati, promozione). Il Sud difetta di capitali, non d’intraprendenza – molti manager, al Nord e altrove, sono meridionali. E della coltre criminale che gli viene sovrapposta, micidiale – che un apparato repressivo (Procure, polizie) solo poco efficiente avrebbe debellato da decenni.
 
Si assiste con un indefinibile disagio al film Sky “The hanging sun- Il sole di mezzanotte”, sulla violenza di un certo mondo nordico, qui l’estremo Nord della Norvegia, religioso (settario), familistico. Un Nord senza luce: violento e triste. Che sono la materia del romanzo dal titolo analogo dello scrittore norvegese Jo Nesbǿ. Ma il film è italiano, con regista italiano, e protagonista italiano: un caso rarissimo di Sud che critica il Nord.
 
La mafia accademica
“La Gazzetta dello Sport” fa Capodanno con una storia delle mafie: Cosa Nostra, Riina, Buscetta,  la ‘ndrangheta, la camorra, etc.. Tanti volumi, ognuno curato da uno “specialista”. La mafia è dunque una disciplina storica. Come c’era la Storia dei Partiti Politici, per esempio, o la Storia d’Europa, c’è ora la Storia delle Mafie – il prof. Pinco Pallino, Ordinario di Storia delle Mafie all’università di Vattelapesca? Con pubblicazioni, impact factor, abilitazioni, concorsi.
Disciplina diffusa peraltro, “La Gazzetta dello Sport” regala il primo volume della collana. Un insegnamento popolare, o da università popolare, per i patiti di sport, nel tempo libero dalle partite.
Non si saprebbe non complimentarsi, se c’è un ritorno delle scienze storiche - dopo l’abbandono decretato venticinque anni fa dall’ultimo Berlinguer, ultimo ministro del partito Comunista, benché defunto da qualche anno. Non è molto, ma è un segnale.
Non si fa una storia dell’Italia repubblicana, per esempio. O del terrorismo. Nemmeno del partito Comunista – una storia vera. O del leghismo. Ma si fa delle mafie. Del Sud, naturalmente, che è mafioso. Significa che tira sul mercato, ma certo, poveri futuri scolari. 

È un regalo che dobbiamo all’antimafia: l’antimafia genera mafia. In senso figurato, certo, negli studi. Ma anche di fatto. Prima non c’erano mafiosi di seconda generazione, non si ereditava, non c’erano dinastie, c’erano malfattori che prima o poi finivano male. Con l’antimafia è venuta la sociologia, e ora la storia. E non è più come pensava ancora Falcone, li mettiamo dentro e finiscono di fare danno. Ora la mafia si fa soggetto. Si fa personaggio, predica, eredita. Crea; crea carriere, ora anche cattedre.

Il mafioso testimone di giustizia era inimmaginabile, ma anche a questo l’antimafia ha provveduto. Abbiamo già il mafioso maestro di morale, con Biagi, Bellocchio, i giudici palermitani, ora l’avremo ideologo, filosofo, professore - la storiografia è disciplina insidiosa. Ci avevano già spiegato, gli orfani della rivoluzione di Mosca, che mafioso è lo Stato, ora finalmente sapremo la verità, che mafiosi siamo noi, tutti gli altri? Limitatamente alle regioni meridionali, ovvio.
 
Lockdown giudiziario al Sud
Troppa – troppo invadente – e indirizzata male, l’antimafia ha più critici che sostenitori, malgrado sia materia non opinabile, non criticabile.
Il ministro della Giustizia Nordio, che è stato un giudice, non cessa di ripetere che l’Italia è oberata da una “enorme quantità” di leggi, “dieci volte più elevata che nella media dei Paesi europei”, che la corruzione si annida nelle pieghe di questa normative farraginosa, e che essa è “una pesante palla al piede per il sistema economico e sociale e per la vita civile”. Nordio, un socialista che la giustizia ha portato a ministro di un governo di destra, è normalmente criticato su tutto, ma non lo è stato su questo.
All’affollata presentazione all’Auditorium di Roma al Parco della Musica dell’ultimo libro di Alessandro Barbano, l’ex direttore del “Mattino”, “L’inganno”, una sola voce si è levata a difendere gli attuali assetti della giustizia, Giovanni Melillo, il Procuratore Nazionale Antimafia - che peraltro ha operato a Napoli “in concorso” con Barbano per una migliore giustizia. Solo critiche, aspre.
Giuliano Amato, presidente uscente della Corte Costituzionale, che ha varato trent’anni fa le prime leggi speciali contro la mafia, se ne è pentito. Ne è nato un apparato burocratico, politico e affaristico fuori da ogni giusta finalità, al riparo dai controlli di legalità e di merito. “Da giurista negli anni Sessanta”, ha detto, “ho firmato un libro nel quale proclamavo l’insostenibilità delle misure di prevenzione, da Presidente del Consiglio trent’anni dopo ho firmato le leggi speciali seguite all’omicidio Borsellino. Portando dentro di me tanto le ragioni che ostano alla pena del sospetto quanto quelle che ritengono prioritaria la lotta alla mafia, io condivido quello che scrive l’autore del libro, e cioè che qui abbiamo passato il segno”.
Paolo Mieli, che da direttore del “Corriere della sera” condivise alcune delle più efferate intimidazioni del Procuratore di Milano Borrelli, denuncia ora un “lockdown giudiziario”: “Tiene in una morsa la democrazia italiana e scatena retate contro innocenti nell’indifferenza generale”. In particolare al Sud – Mieli, ora storico a tempo perso, ha più tempo per alzare lo sguardo: “Come mai”, ha chiesto, “abbiamo consegnato il Sud a questo stato di cose, senza avere neanche un senso di colpa? Come mai”, rivolgendosi a Melillo, il Procuratore Antimafia, “la scuola dell’illuminismo napoletano oggi si affanna a contestare il libro di Barbano?”
Dettagliata la replica di Barbano, che il Procuratore Melillo ha detto “un estremista”: “Sono un estremista perché vorrei che le sentenze di assoluzione non divergessero dalle sentenze di confisca? Perché ho criticato l’estensione del codice antimafia ai reati contro la pubblica amministrazione, l’estensione della pericolosità dalle persone alle cose, dai defunti agli eredi? Sono un estremista perché chiedo che il concorso esterno sia definito da una legge dello Stato e non cucito dalle sensibilità delle diverse sezioni della Cassazione, e poi ricucito nella prassi attraverso le sentenze dei tribunali fondate sul sospetto? Sono un estremista perché ricordo che la confisca senza condanna non esiste in quasi nessun paese d’Europa, e dove pure esiste è ancorata alle garanzie del processo penale e all’accertamento di un reato? Sono ancora un estremista perché chiedo che la legge Rognoni-La Torre venga ricalibrata per tornare a colpire la mafia?” Per concludere: “Non mi sento un estremista quando chiedo che la ricerca doverosa degli autori delle stragi porti a giudizio prove verificate, o quando rivendico che la giustizia non sia la sede della lotta alla mafia, ma il luogo sacro ed estremo dove si accerta la colpevolezza o piuttosto l’innocenza
”.

E si è parlato solo della giustizia, non dell’amministrazione. Che ha superato gli arbitri del fascismo, il confino senza condanna, la residenza obbligata, la perdita dei diritti. Per esempio con lo scioglimento dei consigli comunali, la grande occupazione (moltiplicatrice di commissariamenti e prebende) delle Prefetture. Con le interdittive antimafia – non c’è bisogno di giustificarle. Con indagini mirate sui propri personali nemici, di giudici e investigatori, o degli informatori, estenuanti, a strascico, per anni, alla ricerca dello scoop, una frasetta, un’imprecazione - come si fa nei social.
 
Shakespeare in Calabria
“La Lettura” celebra Saverio La Ruina, commediante di Castrovillari, autore, attore e regista di molte pièces calabro-qualcosa, Shakespeare, la tragedia greca, la Bibbia, don Sturzo.
È diffusa la tendenza fra gli artisti calabresi di riportare tutto alla Calabria, non solo Shakespeare – che forse era calabrese, se era Florio, di Bagnara. Il teatro Nō cino-giapponese, i manga giapponesi, il folk, come è giusto, da Otello Profazio, un genio, al Parto delle Nuvole Pesanti, Voltarelli, Mellace, ma anche la world music, Paolo Sofia e I Quarta Aumentata, o il jazz, Cammeriere – non sentiva questo bisogno il grande cugino di Cammeriere, Rino Gaetano. È una identificazione forte, come un senso di colpa, ma sterile. Non apporta, cioè, niente alla scena calabrese: si vive a distanza, a Bologna, a Roma, a Milano, con qualche difficoltà, si suppone, più che curiosità, e si avalla o sopporta, per la bravura degli interpreti, per l’entusiasmo, la bizzarria, l’inventività, per qualcosa che comunque attira. Ma sterile: la Calabria non cambia né si muove di un centimetro per queste pur lusinghiere identificazioni. Che restano come celebrazioni, degli autori in fuga – delle vie di fuga e non di ritorno.
Un innesto non riuscito? Un’impermeabilità del ceppo? Più probabile un desiderio di “saltare” l’Italia, di collegarsi – di legare il futuro, il passato essendo irredimibile – di collegare le origini a mondi “superni”, grandi, fantasiosi, mirabolanti, prestigiosi. Sicuramente un segno d’insoddisfazione, dell’Italia più che delle origini, per quanto modeste.
 
Napoli
Ha trepidato come tutti per Elisabetta d’Inghilterra, mentre ha una regina santa in casa di cui non si cura, Maria Sofia Wittelsbach Borbone, l’ultima regina di Napoli. Non ancora santa, ma beata da quasi dieci anni. E sepolta al cuore di Napoli, in Santa Chiara. Sorella di Sissi, l’imperatrice, altra strappalacrime.


Di Maria Sofia si occupò Amedeo Tosti, che wikipedia definisce “il gigante della storiografia militare”, ma un secolo fa. Ne scrisse d’Annunzio. Se ne occupò Proust. Napoli era città di studi, nel Sette-Ottocento, ora di chiacchiere?
 
“A Napoli c’è sempre posto per tutti”, chiosa Marino Niola spiegando paesaggi e figure del Presepe – del Presepe napoletano. Come dire di una condizione metropolitana naturale, spontanea. Se non che Napoli è probabilmente la città che più è se stessa, checché essa sia – più simile a se stessa, riproducibile più che variabile.
 
“Ma jatevenne a farvi fottere”, il vescovo di Napoli, che è cardinale, Crescenzio Sepe dice a un certo punto al giornalista di “Report”, Rai 3. La trasmissione gli faceva lezioni di moralità sull’uso anche non sacro, commerciale, delle tante chiese di Napoli ormai chiuse al culto – non monumentali e non parrocchiali.
 
“I miei cari napoletani” sono (fra) le ultime parole che Rosario Romeo, il dimenticato grade storico di Catania, attribuisce a Cavour nella sua biografia. Se non che Cavour non ebbe mai di Napoli e dei napoletani buona opinione. I meridionali avrebbero voluto, e vogliono, una buona e bella unità d’Italia.  
 
Garante dei detenuti a Poggioreale è – era, è stato arrestato per traffico di droga e di cellulari – un ex condannato per traffico di droga a 22 anni. Non un trafficante di “canne”, un industriale della droga. L’aveva nominato il sindaco De Magistris, un giudice, “come occasione di riscatto”. Napoli sempre si supera in immaginazione, come fosse in gara con se stessa, a chi le spara più grosse di chi le ha sparate grosse – De Magistris non è nemmeno uno corrotto o un camorrista in petto.
 
I Borbone realizzarono a Santo Stefano, l’isolotto davanti a Ventotene, per mano di Vanvitelli  a fine Settecento un edificio circolare, visibile in ogni punto da un osservatore posto al centro, del grande cortile circolare. Era un carcere – ora chiuso, dal 1965. Erano arretrati? Per l’epoca era una specie di edilizia utopica: era il Panopticon di Fourier e Bentham, a fine Settecento, l’utopia dell’illuminismo – Fourier emozionava ancora Italo Calvino.

leuzzi@antiit.eu

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