Giuseppe Leuzzi
Il nostos,
il ritorno, tema eminentemente meridionale, tale e tanta è stata ed è l’emigrazione,
il poeta Franco Arminio da Bisaccia, in provincia di Avellino, spiega fattuale:
“Vivo nella casa dove sono nato e da cui non sono mai andato via”, benché abbia
vissuto a lungo lontano: “Ma il paese non mi dà più niente. E devo essere onesto:
ci sono molti luoghi, come il mio, sfiatati e stanchi”.
Il nonno “non
lasciò mia madre iscriversi al ginnasio”, Andrea Carandini ricorda del nonno
Luigi Albertini, il proprietario e direttore del “Corriere della sera”: “Allora le
ragazze andavano educate solo in casa”. Allora, invece, in Calabria le zie si
diplomavano maestrte, studiando fuori casa, poiché le scuole non erano diffuse.
E dopo il diploma lavoravano.
Albertini, reduce
dal fallimento della banca e della reputazione di famiglia, si avvia alla direzione
del “Corriere della sera”, di cui ha fatto un grande giornale nei vent’anni
fino a Mussolini, su impulso e manleva di Luigi Luzzatti, l’economista e
banchiere. Ma al giornalismo era stato indirizzato da Francesco Saverio Nitti,
radicale, meridionale, meridionalista.
Un’indagine
Mediobanca-Unioncamere-Centro Studi Tagliacarne scopre che al Sud ci sono
molte imprese medie (familiari), competitive, anche sui mercati internazionali.
Malgrado le “inefficienze di sistema” (infrastrutture, accesso ai mercati,
promozione). Il Sud difetta di capitali, non d’intraprendenza – molti manager,
al Nord e altrove, sono meridionali. E della coltre criminale che gli viene
sovrapposta, micidiale – che un apparato repressivo (Procure, polizie) solo
poco efficiente avrebbe debellato da decenni.
Si assiste con un indefinibile
disagio al film Sky “The hanging sun- Il sole di mezzanotte”, sulla violenza di
un certo mondo nordico, qui l’estremo Nord della Norvegia, religioso (settario),
familistico. Un Nord senza luce: violento e triste. Che sono la materia del
romanzo dal titolo analogo dello scrittore norvegese Jo Nesbǿ. Ma il film è
italiano, con regista italiano, e protagonista italiano: un caso rarissimo di
Sud che critica il Nord.
La mafia accademica
“La Gazzetta dello
Sport” fa Capodanno con una storia delle mafie: Cosa Nostra, Riina, Buscetta, la ‘ndrangheta, la camorra, etc.. Tanti volumi,
ognuno curato da uno “specialista”. La mafia è dunque una disciplina storica. Come
c’era la Storia dei Partiti Politici, per esempio, o la Storia d’Europa, c’è
ora la Storia delle Mafie – il prof. Pinco Pallino, Ordinario di Storia delle Mafie
all’università di Vattelapesca? Con pubblicazioni, impact factor, abilitazioni,
concorsi.
Disciplina diffusa
peraltro, “La Gazzetta dello Sport” regala il primo volume della collana. Un
insegnamento popolare, o da università popolare, per i patiti di sport, nel
tempo libero dalle partite.
Non si saprebbe
non complimentarsi, se c’è un ritorno delle scienze storiche - dopo l’abbandono
decretato venticinque anni fa dall’ultimo Berlinguer, ultimo ministro del partito
Comunista, benché defunto da qualche anno. Non è molto, ma è un segnale.
Non si fa una storia
dell’Italia repubblicana, per esempio. O del terrorismo. Nemmeno del partito Comunista
– una storia vera. O del leghismo. Ma si fa delle mafie. Del Sud, naturalmente,
che è mafioso. Significa che tira sul mercato, ma certo, poveri futuri scolari.
È un regalo che dobbiamo all’antimafia: l’antimafia genera mafia. In senso figurato, certo, negli studi. Ma anche di fatto. Prima non c’erano mafiosi di seconda generazione, non si ereditava, non c’erano dinastie, c’erano malfattori che prima o poi finivano male. Con l’antimafia è venuta la sociologia, e ora la storia. E non è più come pensava ancora Falcone, li mettiamo dentro e finiscono di fare danno. Ora la mafia si fa soggetto. Si fa personaggio, predica, eredita. Crea; crea carriere, ora anche cattedre.
Il mafioso testimone
di giustizia era inimmaginabile, ma anche a questo l’antimafia ha provveduto. Abbiamo
già il mafioso maestro di morale, con Biagi, Bellocchio, i giudici palermitani,
ora l’avremo ideologo, filosofo, professore - la storiografia è disciplina
insidiosa. Ci avevano già spiegato, gli orfani della rivoluzione di Mosca, che mafioso
è lo Stato, ora finalmente sapremo la verità, che mafiosi siamo noi, tutti gli
altri? Limitatamente alle regioni meridionali, ovvio.
Lockdown
giudiziario al Sud
Troppa – troppo invadente
– e indirizzata male, l’antimafia ha più critici che sostenitori, malgrado sia
materia non opinabile, non criticabile.
Il ministro della
Giustizia Nordio, che è stato un giudice, non cessa di ripetere che l’Italia è
oberata da una “enorme quantità” di leggi, “dieci volte più elevata che nella
media dei Paesi europei”, che la corruzione si annida nelle pieghe di questa normative
farraginosa, e che essa è “una
pesante palla al piede per il sistema economico e sociale e per la vita civile”.
Nordio, un socialista che la giustizia ha portato a ministro di un governo di destra,
è normalmente criticato su tutto, ma non lo è stato su questo.
All’affollata presentazione all’Auditorium di Roma al Parco
della Musica dell’ultimo libro di Alessandro Barbano, l’ex direttore del
“Mattino”, “L’inganno”, una sola voce si è levata a difendere gli attuali assetti
della giustizia, Giovanni Melillo, il Procuratore Nazionale Antimafia - che
peraltro ha operato a Napoli “in concorso” con Barbano per una migliore
giustizia. Solo critiche, aspre.
Giuliano Amato, presidente
uscente della Corte Costituzionale, che ha varato trent’anni fa le prime leggi
speciali contro la mafia, se ne è pentito. Ne è nato un apparato burocratico, politico
e affaristico fuori da ogni giusta finalità, al riparo dai controlli di
legalità e di merito. “Da giurista negli anni Sessanta”, ha detto, “ho firmato
un libro nel quale proclamavo l’insostenibilità delle misure di prevenzione, da
Presidente del Consiglio trent’anni dopo ho firmato le leggi speciali seguite all’omicidio Borsellino. Portando
dentro di me tanto le ragioni che ostano alla pena del sospetto quanto quelle
che ritengono prioritaria la lotta alla mafia, io condivido quello che scrive
l’autore del libro, e cioè che qui abbiamo passato il segno”.
Paolo Mieli, che da
direttore del “Corriere della sera” condivise alcune delle più efferate
intimidazioni del Procuratore di Milano Borrelli, denuncia ora un “lockdown
giudiziario”: “Tiene in una morsa la democrazia italiana e scatena retate
contro innocenti nell’indifferenza generale”. In particolare al Sud – Mieli,
ora storico a tempo perso, ha più tempo per alzare lo sguardo: “Come mai”, ha
chiesto, “abbiamo consegnato il Sud a questo stato di cose, senza avere neanche
un senso di colpa? Come mai”, rivolgendosi a Melillo, il Procuratore Antimafia,
“la scuola dell’illuminismo napoletano oggi si affanna a contestare il libro di
Barbano?”
Dettagliata la replica
di Barbano, che il Procuratore Melillo ha detto “un estremista”: “Sono un
estremista perché vorrei che le sentenze di assoluzione non divergessero dalle
sentenze di confisca? Perché ho criticato l’estensione del codice antimafia ai
reati contro la pubblica amministrazione, l’estensione della pericolosità dalle
persone alle cose, dai defunti agli eredi? Sono un estremista perché chiedo che
il concorso esterno sia definito da una legge dello Stato e non cucito dalle
sensibilità delle diverse sezioni della Cassazione, e poi ricucito nella prassi
attraverso le sentenze dei tribunali fondate sul sospetto? Sono un estremista
perché ricordo che la confisca senza condanna non esiste in quasi nessun paese
d’Europa, e dove pure esiste è ancorata alle garanzie del processo penale e
all’accertamento di un reato? Sono ancora un estremista perché chiedo che la
legge Rognoni-La Torre venga ricalibrata per tornare a colpire la mafia?” Per
concludere: “Non mi sento un estremista quando chiedo che la ricerca doverosa
degli autori delle stragi porti a giudizio prove verificate, o quando rivendico
che la giustizia non sia la sede della lotta alla mafia, ma il luogo sacro ed
estremo dove si accerta la colpevolezza o piuttosto l’innocenza”.
E si è parlato solo della
giustizia, non dell’amministrazione. Che ha superato gli arbitri del fascismo,
il confino senza condanna, la residenza obbligata, la perdita dei diritti. Per
esempio con lo scioglimento dei consigli comunali, la grande occupazione
(moltiplicatrice di commissariamenti e prebende) delle Prefetture. Con le
interdittive antimafia – non c’è bisogno di giustificarle. Con indagini mirate
sui propri personali nemici, di giudici e investigatori, o degli informatori, estenuanti,
a strascico, per anni, alla ricerca dello scoop, una frasetta, un’imprecazione
- come si fa nei social.
Shakespeare in Calabria
“La Lettura”
celebra Saverio La Ruina, commediante di Castrovillari, autore, attore e regista
di molte pièces calabro-qualcosa, Shakespeare, la tragedia greca, la
Bibbia, don Sturzo.
È diffusa la tendenza
fra gli artisti calabresi di riportare tutto alla Calabria, non solo Shakespeare
– che forse era calabrese, se era Florio, di Bagnara. Il teatro Nō cino-giapponese,
i manga giapponesi, il folk, come è giusto, da Otello Profazio, un
genio, al Parto delle Nuvole Pesanti, Voltarelli, Mellace, ma anche la world music,
Paolo Sofia e I Quarta Aumentata, o il jazz, Cammeriere – non sentiva questo
bisogno il grande cugino di Cammeriere, Rino Gaetano. È una identificazione forte, come un senso di colpa, ma sterile. Non apporta, cioè,
niente alla scena calabrese: si vive a distanza, a Bologna, a Roma, a Milano, con
qualche difficoltà, si suppone, più che curiosità, e si avalla o sopporta, per
la bravura degli interpreti, per l’entusiasmo, la bizzarria, l’inventività, per
qualcosa che comunque attira. Ma sterile: la Calabria non cambia né si muove di
un centimetro per queste pur lusinghiere identificazioni. Che restano
come celebrazioni, degli autori in fuga – delle vie di fuga e non di ritorno.
Un innesto non
riuscito? Un’impermeabilità del ceppo? Più probabile un desiderio di “saltare”
l’Italia, di collegarsi – di legare il futuro, il passato essendo irredimibile –
di collegare le origini a mondi “superni”, grandi, fantasiosi, mirabolanti,
prestigiosi. Sicuramente un segno d’insoddisfazione, dell’Italia più che delle
origini, per quanto modeste.
Napoli
Ha trepidato come tutti per Elisabetta d’Inghilterra,
mentre ha una regina santa in casa di cui non si cura, Maria Sofia Wittelsbach Borbone,
l’ultima regina di Napoli. Non ancora santa, ma beata da quasi dieci anni. E sepolta
al cuore di Napoli, in Santa Chiara. Sorella di Sissi, l’imperatrice, altra
strappalacrime.
Di Maria Sofia si occupò
Amedeo Tosti, che wikipedia definisce “il gigante della storiografia militare”,
ma un secolo fa. Ne scrisse d’Annunzio. Se ne occupò Proust. Napoli era città
di studi, nel Sette-Ottocento, ora di chiacchiere?
“A Napoli c’è sempre posto per tutti”, chiosa Marino Niola spiegando
paesaggi e figure del Presepe – del Presepe napoletano. Come dire di una condizione
metropolitana naturale, spontanea. Se non che Napoli è probabilmente la città
che più è se stessa, checché essa sia – più simile a se stessa, riproducibile
più che variabile.
“Ma jatevenne a farvi fottere”, il vescovo di Napoli, che è cardinale,
Crescenzio Sepe dice a un certo punto al giornalista di “Report”, Rai 3. La trasmissione
gli faceva lezioni di moralità sull’uso anche non sacro, commerciale, delle tante
chiese di Napoli ormai chiuse al culto – non monumentali e non parrocchiali.
“I miei cari
napoletani” sono (fra) le ultime parole che Rosario Romeo, il dimenticato grade
storico di Catania, attribuisce a Cavour nella sua biografia. Se non che Cavour
non ebbe mai di Napoli e dei napoletani buona opinione. I meridionali avrebbero voluto, e vogliono, una buona e bella unità d’Italia.
Garante dei detenuti
a Poggioreale è – era, è stato arrestato per traffico di droga e di cellulari –
un ex condannato per traffico di droga a 22 anni. Non un trafficante di
“canne”, un industriale della droga. L’aveva nominato il sindaco De Magistris,
un giudice, “come occasione di riscatto”. Napoli sempre si supera in immaginazione,
come fosse in gara con se stessa, a chi le spara più grosse di chi le ha
sparate grosse – De Magistris non è nemmeno uno corrotto o un camorrista in petto.
I Borbone realizzarono
a Santo Stefano, l’isolotto davanti a Ventotene, per mano di Vanvitelli a fine Settecento un edificio circolare,
visibile in ogni punto da un osservatore posto al centro, del grande cortile
circolare. Era un carcere – ora chiuso, dal 1965. Erano arretrati? Per l’epoca
era una specie di edilizia utopica: era il Panopticon di Fourier e Bentham, a
fine Settecento, l’utopia dell’illuminismo – Fourier emozionava ancora Italo Calvino.
leuzzi@antiit.eu
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