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La Trinità disvelata
“Dall’avere un
unico Dio all’avere un’unica idea di Dio” si fa presto, ma non bene.
L’incontro, in un negozio, della riproduzione della Trinità di Rublëv risolve a
Michela Murgia, credente praticante, il suo problema di una Trinità che è
difficile da concepire di suo, e peggio per come viene rappresentata, con un
Padre barbuto e accigliato, un Figlio bel giovane biondo con la croce addosso,
e una colomba svolazzante non si sa per dove. Col problema succedaneo, di un
“Credo” onnipotente. E ce ne fa partecipi, in una disamina che sarebbe
teologica, ma è un racconto che dire appassionante è dire poco. Le letture queer dei testi sacri della cristianità abbondano, ma Murgia ne una a sua volta di lettura, non di erudizione o esegesi. In brevi
capitoli che si leggono d’un fiato – malgrado le fastidiose terminazioni queer
in un 3 che risospinge verso gli insopportabili social (ma si può
pensarla una ε greca rigirata, che si pronuncia breve, indistinta). Gesù bel
giovane biondo in effetti è un mistero, copia di un Apollo dipinto visto in
Grecia (mistero relativo: la posa è da sole divinizzzato, in età tarda - Dio padre barbuto e la Trinità sono rappresentazioni recenti) ma qui non si fa pesare, non è questa la questione che pone Murgia.
“È possibile
essere credenti, femminist3 e queer allo stesso tempo?” La risposta per Murgia
è sì. Qui si è tentati di dire: embé? Non lo è possibile, senza problemi, non lo è stato per millenni, per innumerevoli
persone, in campagna ma anche in città, specie al Sud ma anche a Parigi, a
Londra non ne parliamo, ma poi in tutte le metropoli? Mary Shelley per dire, o Emily Dickinson, Virginia Woolf naturalmente. Con il beguinismo. E le monache di casa. Si è più spesso soli e
solitari, senza essere per questo queer, cioè strani – prima che Judith
Butler ingigantisse (imbastardisse) la parola.
“Catechismo
femminista” si vuole la trattazione in sottotitolo, ma in senso proprio.
Marinella Perroni, la teologa emerita degli atenei pontifici romani, ne fa l’expertise
in postfazione: la femminista “Murgia è una credente che interpella i
credenti”. Eliminando i sottintesi ovvi: “Murgia non si rivolge ai non
credenti, né è un’atea devota che fa sfoggio delle sue reminiscenze
dottrinarie”.
Murgia è contro il
“Padre nostro” e per il “Credo”. Ma il Dio “onnipotente” del “Credo” la lascia
per più ragioni perplessa. È un concetto problematico - non solo per la
questione “unde malum” – che Murgia ripercorre con l’esperienza
personale, il racconto di sé. E su una faglia dell’onnipotenza, che, scopre
sorpresa, il “Genesi” ha certificato, 2, 18-20, quando lo stesso Signore
dice: “Non è bene che l’uomo sia solo”. E fabbrica la donna.
Soprattutto la
disturbano le “Trinità” che si rappresentano in chiesa e nelle immaginette, con
due uomini, un vecchio e un giovane, e un uccello in volo, “rappresentazione di
Dio piatta, abbrutente e intrinsecamente violenta” – una Trinità, si direbbe,
che è un po’ il Trinità dei western di Sergio Leone. L’icona di Rublëv
la dice invece possibile e sensata. “Dio non è banalmente una «Persona», ma una
comunione indivisibile di persone”, la materializzazione del mistero Trinità. In una triangolazione fluida e ricca,
ferace. Murgia ci vede “un vertiginoso crescendo di scambi reciproci”:
“Ciascuna persona della Trinità riceve l’amore da due Persone distinte e non è
lo stesso amore, sono due amori diversi che mutano”. Che sembra ovvio, ogni
amore è diverso, ma Murgia ne fa una tipizzazione, la triangolazione. Come
opposta alla “coppia chiusa, patriarcale”, al sacramento del matrimonio,
“inventato di sana pianta fuori tempo massimo”. Ancora: “Un tavolo trinitario
apparecchiato per quattro, con un posto vuoto proprio davanti a me, come un
invito a sedermi”, “un cerchio aperto e inclusivo”, “un Dio così fortemente
relazionale”, senza paragone con quello astratto del catechismo.
Una trattazione
felicemente conclusiva ma veloce. A volte aforistica. Su fede e logica, fede e
speranza, cristiani e cristianizzati, emozioni e frasi fatte sulle emozioni. E
alcune constatazioni: le incongruenze del catechismo, i “padri” nel “Credo” e i
padri in chiesa, assenti, nella pratica religiosa. Cristo, “l’idea di un Dio con la con
la carne e i suoi limiti è così folle in chiave narrativa che non può non
essere vera”. Il § “Il Messia queer” è, in poche parole, una storia. Temi
desueti, tanto più dal punto di vista femminista. Anzi della queerness –
che potrebbe anche essere anti-femminista. Insomma, da un punto di vista
originale, in vario modo. Con qualche
questione aperta.
I sensi sono “la
cosa più limitata di cui disponiamo per farsi un’idea della realtà”. Perché,
cosa c’è d’altro? Non c’è la “realtà oggettiva”, chi lo dice? Ma la capacità
critica sì. L’“immaginazione immersiva” è nella pubblicità, nel “tracciamento”
di se stessi a fini di consumo, cavie e vittime per il commercio. Lo Spirito
Santo è queer “nel senso etimologico della parola”, dove? E “il sexting
di una domenica pomeriggio con uno sconosciuto” non è una delectatio?
quindi nemmeno nuovo.
C’è, a parte, anche
un disinvolto adattamento di una categoria sociologica in materia di Meridione
e di mafia, il familismo amorale, sbagliato perché la famiglia si vuole in
crisi. Mentre questo familismo è ben il tribalismo, un residuo incontestato
tanto quanto persistente, nelle faide, nelle combinazioni matrimoniali, nelle denominazioni,
cinematografiche, soprannominali. Altro aspetto problematico incidentale è il
rapporto madre\figlia. Risolto nello stereotipo “le donne si odiano fra di
loro”. Che però non è solo (di origine) maschile, né patriarcale: il rapporto
conflittuale madre\figlia, ancorché ignorato dalla psicoanalisi, è un fatto
perturbante, molto.
E c’è la questione
del titolo a disturbare la trattazione, la queerness – non solo per la
terminazione barbarica. Che Murgia non risolve con la “Trinità” di Rüblev, non
può. Una “questione” derivata dall’anglosassone, mentre è documentata, piana, non problematica, dalla realtà di ognuno, familiare, di zie e zii, fratelli e sorelle, amici e
amiche, che vivono senza pulsioni sessuali, non terminali, di fratelli e
sorelle che convivono senza turbamenti anche nelle arti, i fratelli Goncourt, i
fratelli Grimm, le sorelle Brontë, i fratelli “Delly”, gli Svedomskij o i
Rizzoni, russi animatori della scena romana a fine Ottocento, i tanti fratelli
del cinema. Per non dire delle infinite sfaccettature dell’amicizia,
relazione forse anch’essa tabù in ambito anglosassone – ma non da Chaucer e
fino a Shakespeare. Nonché dalla lunga e consistente tradizione cristiana della
verginità, che da alcuni decenni si trascura (Freud non ne ha nemmeno il
sospetto), ma è stata ed è importante, e anche affascinante. Di santi e sante, beghini
e beghine, di operosità amorevole, dentro e fuori della parrocchia, nel vasto
mondo. E anche di chi santo non vuole esserlo. Certo, la queer question è
il vero fuoco infernale della divisione psicologica e sociale in America, ben
più della violenza sessuale, e del razzismo, del #metoo e del #blacklivesmatter.
Ma è un fatto storico e politico.
Il “queer” del
titolo richiederebbe una trattazione a parte – non è nuovo ma è nuovo il genere
nella grafica, qui segnalato da un 3, come nella Trinità al centro della
trattazione, che è una cosa un po’ inutile - e anche blasfema. Anche perché il
concetto rinvia al discorso critico, di libertà, ma nella pratica, nelle varie
importazioni dall’indistinto inglese, via Arbasino, finisce in una “diversità”
che invece è normalità. Perlomeno in Italia – a Londra, quando Arbasino valicò
Chiasso, sospettavano degli italiani, degli italiani maschi, e un po’ anche
delle femmine, perché camminavano per strada tenendosi a braccetto: tutti hanno
avuto uno zio, una zia, un amico, un’amica “non interessata”, semplicemente. E non
è vero che l’impulso sessuale sia pervasivo, onnipresente, anch’esso
onnipotente, questa è sfuggita ai Padri del “Credo” – e a Freud: sarà Freud un
patrista mascherato? Questo ridurrebbe queer a asessuale, il che la queerness,
ammesso che se ne possa costruire una, non vuole. Ma rileggere il Dio onnipotente,
che è probabilmente il più grande problema del credente, e in parte la Trinità,
non è molto più (meglio) del 3?
Ha una
connotazione diminutiva, il mondo dei diritti, quella di essere una dittatura
culturale, quella anglosassone, linguistica e ora inevitabilmente mentale,
cresciuta veloce nel secondo Novecento, dominatrice nel Millennio - in una con
la globalizzazione economica, col trentennio del mondo as business.
Un’acculturazione (inculturazione?) che non solo egualizza ogni differenza
culturale, ma ne elimina anche le radici, il passato, la storia, come se il
mondo nascesse ora, e pensasse, o comunque parlasse, americano. Ora per esempio
si può essere non interessati per essere queer, e si può anche andare
sottobraccio con gli amici perché la pratica è stata battezzata, bromance. Murgia
non è provinciale, ma molte differenze restano factice, direbbe il
francese, artificiose più che fittizie, fredde, di imitazione.
Murgia sfugge al
vezzo di categorizzare i mondi lgbtqia - di categorizzarsi - come automartirio.
Ma fa la “scoperta della queerness”, pur non essendo anglosassone.
Contrastando il “femminismo della differenza”, che riduce a “femminismo (o
religione) del corpo”, sintetizza la “prospettiva queer” come “quella pratica
della soglia in cui la sessualità non solo non concorda con l’identità, ma può
addirittura limitarla”. Come se il cristianesimo, quindi una storia e una
pratica di duemila anni, non fosse la religione del corpo, mistico e fisico, a
fronte degli altri monoteismi. E la più grave trascuratezza della Chiesa,
almeno nell’Ottocento, e ancora nel Novecento, non è stata l’elevazione del
corpo a suo tabù, col conseguente suo sprofondamento all’inferno – all’inferno
psicologico in vita, con la sua maglia di rimozioni, bugie, autoviolenze e
violenze?
Curioso, ma non
marginale, è anche l’assurdo contrasto che Murgia vuole fra “analogici” e
“digitali”. Come un divide epocale, ben più che generazionale, e
radicale. Il digitale intendendo come social. Che sono il vecchio bar
Sport, delle chiacchiere. Peraltro, dov’è il digitale? Nel Russiagate, un
dossier inglese, con gli hacker russi, e i Cambridge Analytica, roba di servizi
segreti, vecchia (la disinformacija), solo aggiornata negli strumenti?
Nella messaggistica istantanea, privata e di piazza, whatsapp e twitter, ora
sostituiti, anche in chiave più narcisista, esibizionista, dai video, tiktok,
instagram, meta. Nell’ondata, già spenta, del “da remoto”? Nelle fake news?
Lo storytelling è già di più, ma non è nuovo, da Svetonio in poi, anzi
da Tucidide, e compreso Erodoto. Rivoluzionaria è solo la velocità, il consumo
del tempo nell’istante. Mentre la sottovalutazione è perfino assurda del big
tech, che ha creato le piazze-social per vendere pubblicità e consumi – e
non lo nasconde, ricchissima solo di soldi e nient’altro, avendo saputo
allargare il marketing a ogni minimo gesto quotidiano, dove compriamo le
sigarette o prendiamo il caffè, che libro leggiamo (insomma, abbiamo comprato),
come ci vestiamo (non ci dice la chiesa in cui siamo entrati, non finché non
troverà come appropriarsi delle elemosine). Con buona pace della privacy,
altro falso mito. Viviamo allo stadio avanzato di quello che si chiamava neo
capitalismo, senza la costrizione e con la partecipazione convinta e anzi
entusiasta. Il Mondo Nuovo di Aldous Huxley, il Grande Fratello di Orwell, sono
oggi il mercato. Libero, liberale, democratico, aperto dalla e nella
tecnologia.
La
verginità è lo stato queer per eccellenza. Lo stato quintessenziale,
anche, della religiosità. Sant’Ambrogio la lega
alla fede: “Castis fides refrigerans”
recita nell’inno “Ad horam incensi”, fede refrigerio dei casti. Non patriarcale,
né matriarcale, è la queerness, lo stato panico per eccellenza. Concetto
problematico, peraltro.
La lotta dei sessi riproduce vecchi modelli (si ripete
periodicamente?). Lo nota Lafargue, “Le Matriarcat”, 1889, e si rileva nella
pubblicistica di un secolo dopo. Alla donna che cancella la paternità, con la
madre vergine, si contrappose in antico Giove che concepiva e figliava di suo,
Minerva dalla testa, Dioniso dalla gamba. Un neo patriarcato deve ancora
ricorrere all’utero in affitto, ma fino a quando? Che senso ha la lotta dei
sessi, se non come passatempo (fatte salve le salvaguardie giuridiche)?
La verginità è come la presenta la chiesa dei Padri,
legata al romitaggio e al deserto: è una desertificazione. Lo è nei fatti –
nelle vite in convento – e nella dottrina: chiudersi alle passioni.
Eliminare
le passioni è anticristiano, Gesù Cristo è Dio di passione. Per non dire che
interrompendo l’ordine della creazione interrompe la salvezza. La salvezza è la
promessa dei creati. Le verginità premia la salvezza a meno della creazione? Ma
piace, in poesia e tra i religiosi, perché intrisa di eros. Non sconta
secchezze e fragilità, bensì prolunga lo stato adolescenziale, denso di
sensualità (affetti “terminali”, ideali, fantasie, colori), nel bombardamento
ormonale cui è sottoposto. Nella religione è proposta peraltro come unione con
Dio.
E
d’altra parte il sesso (sessualità) è durissimo livellatore. Toglie senso e
sapore a molta storia: infanzia, vecchiaia, famiglia, verginità appunto (sia
essa sublimazione o sia erotizzazione). Toglie anche il piacere della carne,
nel mentre che la moltiplica in immagine. È una ritenzione che propone,
un’immensa cupola del desiderio, nel mentre che annulla le diverse esperienze
della vita.
Un viaggio nella
fede ortodosso e piano, leggibile, perfino avvincente. Convincente. Ma di un
Dio rivoltato, volto e specchio del femminismo, quindi sempre divisivo. Se non
che a un certo punto l’umanità è detta “la specie più fallita di tutte, l’unica
capace di causare da sé i presupposti della sua distruzione”. Ma Dio non è in
parallelo con questa umanità? Sono “due estremi inconciliabili” (p. 51) il
Creatore e le creature? Creatura non è creat3, è qualcosa in evoluzione – è il
vangelo secondo Murgia. E non può avere torto, sennò che si vivrebbe a fare?
Si pubblica
meritatamente come un classico, con postfazione, nota al testo, bibliografia.
Michela Murgia, God
Save the Queer, Einaudi, pp. 142 € 14,50
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