La scoperta dell’amicizia
Una storia di
amicizia, tra un ragazzo di città e uno “montanaro”. E di paternità - un
riconoscimento, tardivo, della paternità. Raccontata come nel libro di
Cognetti, premio Strega e prix Médicis Ètranger, ma con più semplicità. I
registi, una coppia di fiamminghi, del “plat pays” di Jacques Brel, hanno scoperto
il libro durante una vacanza estiva in Valle d’Aosta, e hanno lavorato un anno per
riprodurne le tonalità, sommesse.
Qui le immagini,
di luce incerta, tra dialoghi appena accennati, negli odori della natura forti,
sudori, stalle, mungiture, formaggi, danno nel dramma. In vari drammi che si
susseguono. Li presagiscono, li affievoliscono. A una forma di poesia catturando
con questo dimmering, l’estenuazione della luce e dell’orizzonte. Riposante
più che malinconica, e anzi robusta, per tutta la lunga durata del film.
Trascurando la sentenziosità del titolo, e del libro, peraltro dubbia.
Le “otto montagne”
vengono dal Nepal, dove un monte altissimo si vuole al centro del mondo, il
Sumeru, e attorno al Sumeru, come i raggi di una ruota, otto montagne e otto mari.
Con l’inevitabile quiz di saggezza: impara di più chi fa il giro delle otto
montagne, oppure chi arriva in cima al monte? Chi esplora tutto l’esplorabile
oppure chi si concentra su un solo obiettivo? Quesito per la verità non
pleonastico, giacché l’esito è immorale: l’amico di città, quello che resta per
raccontarla, ha scelto il vagabondaggio, dopo aver dissipato la gioventù, rifiutando
l’amore paterno, familiare, mentre il montanaro, campione d’innocenza e
generosità, le perde tutte.
Una sensazione di
pace emerge così dalle tante asperità. In una “comunità” di cime senza nome – “Qual è il Grenon?”, sopra il villaggio
di Grana, luogo del racconto: “Per noi è la montagna di Grana.
Tutte queste cime insieme? Ma sì. Non diamo
nomi alle cime qui. È questa zona”. E senza indugiare al facile
fascino del monte Rosa, ai cui piedi il villaggio di Grana (Graines, oggi dodici
abitanti, a 1.400 m., nel comune sparso di Brusson) si trova. Cime di accesso
agevole. Viventi nell’abbandono, come è di tutte le Prealpi. Forse per
la malinconia di tutte le fini inevitabili.
L’incantesimo che la
coppia di registi riesce a creare è particolarmente apprezzabile in quest’epoca
di fastidiose elucubrazioni di identità e di genere, restaurando il vecchio senso
dell’amicizia. Di purezza, altro termine e concetto desueto. Un modo di vivere smarrito,
anzi calpestato, nell’onnisessualità - di genere nell’identità, o viceversa. Che
dall’ambito culturale anglosassone, cosiddetto “puritano”, innestato alle montagne
di Freud ossessive, da qualche tempo ci sovrasta, minaccioso, cattivo. Come se queste montagne, benché all’ombra dell’Himalaya
– altro must? -, consentissero di respirare.
Una scoperta probabilmente
per i registi. I quali, benché anche loro implicati nei “diritti” di genere, professionalmente
e personalmente, si danno una pausa. Anzi ci si adagiano, in una lunghissima reverie,
a scapito del ritmo, del plot, della velocità. Un effetto tanto
più apprezzabile in un’opera tutto sommato all male, solitamente da film
d’azione.
Felix van
Groeningen-Charlotte Vandermeersch, Le otto montagne
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