mercoledì 28 dicembre 2022

La scoperta dell’amicizia

Una storia di amicizia, tra un ragazzo di città e uno “montanaro”. E di paternità - un riconoscimento, tardivo, della paternità. Raccontata come nel libro di Cognetti, premio Strega e prix Médicis Ètranger, ma con più semplicità. I registi, una coppia di fiamminghi, del “plat pays” di Jacques Brel, hanno scoperto il libro durante una vacanza estiva in Valle d’Aosta, e hanno lavorato un anno per riprodurne le tonalità, sommesse.
Qui le immagini, di luce incerta, tra dialoghi appena accennati, negli odori della natura forti, sudori, stalle, mungiture, formaggi, danno nel dramma. In vari drammi che si susseguono. Li presagiscono, li affievoliscono. A una forma di poesia catturando con questo dimmering, l’estenuazione della luce e dell’orizzonte. Riposante più che malinconica, e anzi robusta, per tutta la lunga durata del film. Trascurando la sentenziosità del titolo, e del libro, peraltro dubbia.
Le “otto montagne” vengono dal Nepal, dove un monte altissimo si vuole al centro del mondo, il Sumeru, e attorno al Sumeru, come i raggi di una ruota, otto montagne e otto mari. Con l’inevitabile quiz di saggezza: impara di più chi fa il giro delle otto montagne, oppure chi arriva in cima al monte? Chi esplora tutto l’esplorabile oppure chi si concentra su un solo obiettivo? Quesito per la verità non pleonastico, giacché l’esito è immorale: l’amico di città, quello che resta per raccontarla, ha scelto il vagabondaggio, dopo aver dissipato la gioventù, rifiutando l’amore paterno, familiare, mentre il montanaro, campione d’innocenza e generosità, le perde tutte.
Una sensazione di pace emerge così dalle tante asperità. In una “comunità” di cime senza nome – “Qual è il Grenon?”, sopra il villaggio di Grana, luogo del racconto: “Per noi è la montagna di Grana. Tutte queste cime insieme? Ma sì. Non diamo nomi alle cime qui. È questa zona”. E senza indugiare al facile fascino del monte Rosa, ai cui piedi il villaggio di Grana (Graines, oggi dodici abitanti, a 1.400 m., nel comune sparso di Brusson) si trova. Cime di accesso agevole. Viventi nell’abbandono, come è di tutte le Prealpi. Forse per la malinconia di tutte le fini inevitabili.
L’incantesimo che la coppia di registi riesce a creare è particolarmente apprezzabile in quest’epoca di fastidiose elucubrazioni di identità e di genere, restaurando il vecchio senso dell’amicizia. Di purezza, altro termine e concetto desueto. Un modo di vivere smarrito, anzi calpestato, nell’onnisessualità - di genere nell’identità, o viceversa. Che dall’ambito culturale anglosassone, cosiddetto “puritano”, innestato alle montagne di Freud ossessive, da qualche tempo ci sovrasta, minaccioso, cattivo.  Come se queste montagne, benché all’ombra dell’Himalaya – altro must? -, consentissero di respirare.   
Una scoperta probabilmente per i registi. I quali, benché anche loro implicati nei “diritti” di genere, professionalmente e personalmente, si danno una pausa. Anzi ci si adagiano, in una lunghissima reverie, a scapito del ritmo, del plot, della velocità. Un effetto tanto più apprezzabile in un’opera tutto sommato all male, solitamente da film d’azione.
Felix van Groeningen-Charlotte Vandermeersch,
Le otto montagne

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