lunedì 12 dicembre 2022

Letture - 505

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Baudelaire – Si trascura che “I fiori del male” avrebbe voluto intitolati “Le lesbiche”. “Fiori del male” gli fu suggerito e imposto dall’amico critico d’arte – la “professione” di Baudelaire - Hyppolite Babou.

Brontë – Le inglesissime sorelle scrittrici devono il loro nome a Bronte nel catanese, la città dei pistacchi. Della ducea di Bronte, che in qualche modo si perpetua, era stato insignito da Ferdinando IV di Napoli, poi Ferdinando I delle Due Sicilie, l’ammiraglio Nelson per riconoscenza del riacquistato reame – un riconoscimento non da poco, al titolo era accodato un possedimento di sedicimila ettari. E dell’ammiraglio era grande fan il padre delle future scrittrici, pastore anglicano. Che di suo aveva un nome assonante, Brunty. Quando lo cambiò in Bronte per “nelsonismo”, volle la dieresi perché anche in inglese si pronunciasse com e in italiano.

Dante – C’è qualcuno che non lo apprezzava, Voltaire. Che ne parlava alla milanese: “Il Dante è sicuro di sopravvivere, lo si legge poco”. Lo riferisce Proust alla fine del saggio “A proposito di Baudelaire”, ma facendolo precedere dalla chiosa: “Una frase inesatta, assurda, una fase così divertente benché falsa, che mi dispiace di non citarla con esattezza”. Ma è vero che Voltaire, per anticlericalismo e non solo, non apprezzava Dante. A lui si fa ascendere la lunga eclisse di Dante in Francia, nel Sette-Ottocento.

Di Dante Voltaire solo apprezzò, nel discorso di ricezione all’Accademia, il ruolo che aveva avuto nella “creazione della lingua” - sempre alla lombarda: “Non c’è niente che il Dante non esprimesse, al modo degli Antichi.  Abituò gli italiani a dire tutto”. Il Poema disse, al meglio, “bizzarro” – Voltaire apprezzava Ariosto, “il primo dei poeti italiani e forse del mondo intero”, scrisse a D’Alembert, pari a Omero, e a Madame du Deffand: “La più feconda immaginazione di cui la natura abbia mai fatto dono a nessun uomo”. 

Destra – Hitler affascinò non soltanto Hamsun, Pound e Céline. Molti giovani anche: non solo Fo, ma Albertazzi, Vianello, Tognazzi, Walter Chiari, gli attori più amati, l’architetto Sottsass, marito di Fernanda Pivano, Saverio Vertone, Ingmar Bergman non furono arruolati ma volontari del nazifascismo, Günter Grass e Pio Filippani Ronconi delle SS combattenti, e non era facile, la selezione era severa - Filippani Ronconi che poi seppe tutto dell’Iran, pure i dialetti.

Editori - Diventano sempre i più i protagonisti del giornalismo culturale, più è meglio degli autori, che sono, o rimangono, senza storia. Arturo Ferrari, Ernesto Ferrero, le corrispondenze Mondadori, ora pure con Buzzati, le corrispondenze Einaudi, quelle Garzanti, le giurie o comitati di lettura degli editori, Neri Pozza, gli eterni Alberto Mondadori e Livio Garzanti, i redattori creatori sempre più numerosi, Sgarbi, Andreose, come già Niccolò Gallo o Vittorio Sereni, figure solitarie, mitiche.

Flaubert – Proust non lo ama, perché nuon vuole metafore (“Solo la metafora può dare una specie di eternità allo stile, e non c’è forse in tutto Flaubert una sola metafora”) ma lo difende, in quanto innovatore della lingua, in “À propos du «style» de Flaubert” (in M. Proust, “Chroniques”, ora nelle varie raccolte di saggi) – stile tra virgolette, per dire che Flaubert non ne aveva. Gli aveva anche dedicato in gioventù un pastiche, che è genere ironico ma anche un riconoscimento, un omaggio allo stile. Nel saggio lo appaia a Kant – con ironia doppia: “Un uomo che con l’uso interamente nuovo e personale che ha fatto del passato remoto, dell’imperfetto, del participio presente, di certi pronomi e di certe preposizioni,  ha rinnovato la nostra visione delle cose tanto quanto Kant, con le sue Categorie, le teorie della Conoscenza e della Realtà del mondo esterno”.

Leone – “È noto che solo l’intervento del presidente Giovanni Leoni poté salvare il negativo del film e la reputazione della Repubblica” - Marco Tullio Giordana, ricordando sul “Venerdì di Repubblica” lo scandalo suscitato cinquant’anni fa da “Ultimo tango a Parigi” di Bernardo Bertolucci. “Non è poi cosa così nota”, obietta l’intervistatore, Marco Cicala: “Povero Leone, «meschino calunniato»”. Leone sarà qualche anno dopo costretto alle dimissioni, da una campagna calunniosa de “L’Espresso” e di Camilla Cederna.

Livorno – “Una città di porto, ma non di mare: in Italia lo sono Trieste, Napoli e Genova”, Serena Melani, livornese, comandante di grandi navi, a Stefano Salis, “Il Sole 24 Ore” dell’altra domenica.

Madeleine – Del procedimento della memoria inavvertita Proust fa antesignani Chateaubriand e Nerval, sempre parlando, bene e male, di Flaubert, all’ultima pagina del saggio. Chateaubriand quando nelle “Memoria d’oltretomba” sente a Montboissier cantare un tordo, e il tordo lo riporta alla giovinezza Cobourg, lontano nel tempo e nel luogo. Mentre Nerval potrebbe avere a titolo di tutte le sue opere, insiste, “quello che avevo dato all’inizio a una delle mie: Le intermittenze del cuore”.

La “madeleine” non piaceva a Proust. Il saggio su Flaubert conclude con una filippica contro i critici che lo avevano acculato ai ricordi d’infanzia: “In ‘Dalla parte di Swann’ alcune persone, anche molto letterate (probabile allusione a Gide, n.d.r.), fraintendendo la composizione rigorosa benché velata, (e forse più difficilmente riconoscibile perché era a larga apertura di compasso e il pezzo simmetrico di un primo pezzo, la causa e l’effetto, si trovavano a grande intervallo l’uno dall’altro) credettero che il mio romanzo era una sorta di raccolta di ricordi, concatenati secondo la legge fortuita dell’associazione d’idee. Citarono a sostegno di questa controverità delle pagine dove alcune briciole di «madeleine», bagnate in un’infusione, mi richiamano (o perlomeno richiamano al narratore che dice «io») tutto un tempo della mia vita, dimenticato nella prima parte dell’opera”. Proust rinvia per una corretta lettura all’ultimo libro della “Ricerca”, “non ancora pubblicato”, dove il lettore troverà, dice, “tutta la mia teoria dell’arte”.   

Roma – Profumata la percepì un secolo fa la pittrice russa Anna-Oustrumova Lebedeveva, o così la ricorda, nei tardi “Appunti autobiografici”, del 1974: “Non potevo non entusiasmarmi del fascino della sua lieve aria profumata. Dai recinti delle ville e dei giardini arrivava il profumo del lauro, del cipresso e delle rose”. Nonché animata – il che è ancora vero, a tutte le ore, sembra una città che non lavori: “Mi conquistò la vita delle strade così rumorosa e lucente, anche se nel suo chiarore e movimento non c’era alcuna affinità con le altre capitali europee”.

Russi in Italia – Sono stati soprattutto donne, quelle che più hanno inciso: Anna Kusliscioff, Marìa Bakunina, Angelika Balabanova (russa d’Ucraina) Eva Amendola Kühn, Ol’ga Reznevič Signorelli, Jenny Griziotti Kretschmann, Maria Fišman Di Vestea (Antonella d’Amelia, “La Russia oltreconfine”). Anche perché molte donne venivano in Italia, all’epoca di Giolitti, per frequentarvi l’università, da cui erano escluse in patria - insieme con esponenti socialisti, come Gor’kij, Bogdanov, Lunačarskij, Viktor Černov, Plechanov, German Lopatin, Pëtr Kropotkin.

Sainte-Beuve – Proust ne elogia “il linguaggio parlato, perlato” – “À propos du «style» de Flaubert”. 

Tornei – Quelli letterari sono patriarcali? Tra i dieci autori che “La Lettura” premia come “libri dell’anno” (romanzi), solo due sono donne – e non ai primi posti: Elizabeth Strout è ottava, Hanya Yanagihara nona.  Le donne scrivono meno degli uomini? Non sanno scrivere altrettanto bene? O sono i giurati patriarcali? Tra i 282 giurati, “giornalisti, collaboratori e amici del «Corriere della sera»”, i maschi in effetti a un’occhiata veloce sembrano molto più numerosi. Sono allora i maschi che leggono più romanzi e non le donne? C’è da cambiare i criteri su cui si regge l’editoria.

letterautore@antiit.eu

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