L’odissea montanara della morte – o la fatica del vivere
Una giovane madre
il cui primo parto è di una bambina che nasce morta, in una spiaggia povera di
pescatori a fine Ottocento-Primo Novecento, di fronte al rifiuto del parroco di
battezzare la salma, decide d’intraprendere un “viaggio del respiro”, verso un
remoto santuario al confine con l’Austria, per avere il miracolo dei pochi
secondi di resurrezione del cadaverino che ne consentano il battesimo.
Il film è del
viaggio, lento, lungo, a piedi, col fardello della figlia morta in una cassetta
di legno. Dalle marane della laguna di Marano al cuore della Carnia, una val Dolais,
un abitato chiamato Trava, in prossimità di un lago. Un’odissea dentro una montagna
inospitale, con l’aiuto-guida di un ragazzo che è una ragazza, Lince – che per
prima cosa ha tentato di venderla a servizio come balia. Dentro un mondo sempre
arcaico, per essere povero, ignorante, isolato. In un friulano appena accennato,
e pieno di forestierismi (tedesco, slavo). Di banditi di passo, streghe avide,
padri che ripudiano i figli – Lince. La morte è infine bella, come soave,
provata o intravista o sognata, nelle acque del lago di approccio, come un
ritorno all’elemento liquido primordiale: la prova della resurrezione - Mar
sarà battezzata la creaturina al momentaneo risveglio. La morte definitiva,
dopo l’accidentata odissea montanara, è infine pacificante, con sepoltura nel
cimitero del minuto santuario.
Un’opera al
femminile. Di donne buone e cattive, tutte determinate – l’unico personaggio maschile,
Lince, è una vergine di proposito. Sul tema della maternità, che privilegia e
asservisce la donna, ma sembra non domarla. In ogni caso senza alcun bisogno
del maschio.
Un’opera visiva.
Di senso forse simbolico, più che narrativo: il viaggio della vita, la vita
come sequenza casuale, compresa la resurrezione come illusione. Il senso
finale, per lo spettatore ingenuo, è la stanchezza del vivere, malgrado la
fede, l’estrema fiducia.
Un apologo che
finisce per essere religioso. Della fede che non può non essere indiscutibile,
indistruttibile. In fattezze però di fatica, bruschezza, brutalità, Avversità
di ogni tipo in ogni momento, per lo più umane.
Un’opera
apprezzata in molti festival che però non ha trovato distribuzione: di ardua
ricezione. Recuperata a Roma da Nanni Moretti nel suo cinema. Una narrazione faticosa,
di senso incerto. Forse non abbastanza significante come sequenza di immagini,
al montaggio, malgrado la poeticità dell’aneddoto.
Laura Samani, Piccolo
corpo
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