L’Iran khomeinista fa torto agli ayatollah, oltre che all’Iran. Erano di grande cultura, massimamente tolleranti, si sono ridotti a sbirri: bastonano, assassinano, condannano, con processi perfino assurdi nella loro stessa perversa natura di processi politici. Per questo probabilmente ora un’escrescenza, in un paese che non vuole rinunciare al vivere civile maturato in millenni di storia. Benché la religione al comando sia radicata e feroce.
Assistere a un processo politico a Teheran è uno
“spettacolo” sorprendente e deprimente, in un paese di tanta civiltà. I
processi politici sono tutti offensivi, ma quelli di Evin, il carcere di
Teheran elevato a tribunale politico, doppiamente tali: sono orchestrati come
una commediola. Videoripresa perché si sappia: l’imputato è un condannato.
L’imputato non ha avvocati e nessun’altra protezione. Il
giudice non fa riferimento a nessuna legge. Il tribunale siede in una stanza
come tante, anonima, che si fa affollare da sostenitori del regime, donne
coperte di nero e giovani barbutissimi perlopiù. La sentenza di morte si pronuncia
con indifferenza.
L’ayatollah Behesti, uomo formato a Parigi e Amburgo, in
qualità di mullah dell’emigrazione iraniana, ne era cosciente, che era il
ministro della Giustizia del primo gruppo khomeinista succeduto allo scià. Era
cosciente di tanta barbarie. Ma fu fatto saltare da un gruppo di mujahiddin
avversari di Khomeiny – così fu detto.
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