Poesia e morte in Persia
Un tardivo romanzo
storico, dal vero, che si divora. Molto ben scritto. Da un formalista emerito (coautore
con Roman Jakobson delle toste “Tesi sul linguaggio”, 1928, che rivoluzionano
la linguistica e anticipano lo strutturalismo, e in proprio di “Arcaisti e
innovatori” – tradotto in parte come “Avanguardia e tradizione”), che però è
anche narratore semplice (di una “Giovinezza di Puškin” dopo questo “Vasir
Mukhtar”), e si fa leggere con avidità. Benché dipani una storia multistrato,
non sempre esplicitata, più spesso allusa. Dell’indefinitezza del reale: il
destino brillante, caustico, legato alla migliore Russia, degli insorti liberali
del 1825 (“decabristi”) e di Puškin, coartati e liberi allo stesso tempo, e
creativi – protagonisti di una Russia ben viva, benché la fascetta editoriale
la faccia già marcia, come un secolo dopo.
È la storia di
Griboedov, letterato di talento, già di successo con la commedia “Che disgrazia,
l’ingegno!”, la disgrazia di capire che le cose non vanno, sospetto a corte per
le simpatie liberali, e inviato a Teheran invece che al confino, a estendervi l’influenza
russa, in competizione con l’Inghilterra. Ne ritorna con un Trattato di
Turkmanchay, che adombrerebbe, spiega, l’accettazione di un protettorato russo.
Rimandato a Teheran dopo questo successo con l’incarico ufficiale di vazir mukhtar,
ministro plenipotenziario, lungo la strada trova a Tiflis l’occasione di
sposare una giovane la metà dei suoi anni, la sedicenne principessa georgiana
Nina Čavčavadze. Con la quale prosegue per Tabriz,
all’incontro degli emissari dello scià per l’applicazione del trattato di pace.
Che secondo Griboedov riconosceva una indennità di guerra e la liberazione dei
prigionieri cristiani. In particolare delle donne “circasse”, le giovani armene
e georgiane chiuse negli harem persiani. I colloqui essendo infruttuosi, Griboedov
decide che lo scià, Fath Alì, personalmente gli avrebbe dato ragione. Ma Teheran
gli fu fatale: accusato di aver dato asilo a un eunuco di un harem e a due
spose armene, fu assaltato nell’ambasciata da una folla tradizionalista e
trucidato.
Lo
scià s’impegnò a restituire la salma, dopo il difficile riconoscimento – al
passaggio sarà omaggiata da Puškin, in Armenia con un corpo di spedizione
russo.
Ma il finale non
conta – se non per la ferocia delle folle, quando si tratta di fondamentalismo “religioso”:
non è un thriller. È la storia di un giovane, ottimo letterato, secondo Puškin uno dei più colti della
loro generazione, molto cosmopolita, benché non viaggiasse, giacché leggeva in
italiano, francese, inglese, arabo, tedesco e farsì. Di Pietroburgo, tra
giovani liberali e intrighi di corte. Della Persia. Della ferocia popolare. Che
sfilano come al cinema, bene individuati e come vivi, pur nelle tante
diversità, anche contrastanti. Una sorta di pittura dal vivo - non un’estemporanea,
un figurativo ben delineato, studiato nell’apparente semplice, spesso. Appassionante
come l’altro biopic di Tynyanov, non tradotto, il tardo e incompiuto “La gioventù
di Puškin”.
Yury Tynyanov, La
morte del vasil-mukhtar, Settecolori, pp. 600 € 26.
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