lunedì 19 dicembre 2022

Poesia e morte in Persia

Un tardivo romanzo storico, dal vero, che si divora. Molto ben scritto. Da un formalista emerito (coautore con Roman Jakobson delle toste “Tesi sul linguaggio”, 1928, che rivoluzionano la linguistica e anticipano lo strutturalismo, e in proprio di “Arcaisti e innovatori” – tradotto in parte come “Avanguardia e tradizione”), che però è anche narratore semplice (di una “Giovinezza di Puškin” dopo questo “Vasir Mukhtar”), e si fa leggere con avidità. Benché dipani una storia multistrato, non sempre esplicitata, più spesso allusa. Dell’indefinitezza del reale: il destino brillante, caustico, legato alla migliore Russia, degli insorti liberali del 1825 (“decabristi”) e di Puškin, coartati e liberi allo stesso tempo, e creativi – protagonisti di una Russia ben viva, benché la fascetta editoriale la faccia già marcia, come un secolo dopo.
È la storia di Griboedov, letterato di talento, già di successo con la commedia “Che disgrazia, l’ingegno!”, la disgrazia di capire che le cose non vanno, sospetto a corte per le simpatie liberali, e inviato a Teheran invece che al confino, a estendervi l’influenza russa, in competizione con l’Inghilterra. Ne ritorna con un Trattato di Turkmanchay, che adombrerebbe, spiega, l’accettazione di un protettorato russo. Rimandato a Teheran dopo questo successo con l’incarico ufficiale di vazir mukhtar, ministro plenipotenziario, lungo la strada trova a Tiflis
 l’occasione di sposare una giovane la metà dei suoi anni, la sedicenne principessa georgiana Nina Čavčavadze. Con la quale prosegue per Tabriz, all’incontro degli emissari dello scià per l’applicazione del trattato di pace. Che secondo Griboedov riconosceva una indennità di guerra e la liberazione dei prigionieri cristiani. In particolare delle donne “circasse”, le giovani armene e georgiane chiuse negli harem persiani. I colloqui essendo infruttuosi, Griboedov decide che lo scià, Fath Alì, personalmente gli avrebbe dato ragione. Ma Teheran gli fu fatale: accusato di aver dato asilo a un eunuco di un harem e a due spose armene, fu assaltato nell’ambasciata da una folla tradizionalista e trucidato.

Lo scià s’impegnò a restituire la salma, dopo il difficile riconoscimento – al passaggio sarà omaggiata da Puškin, in Armenia con un corpo di spedizione russo.
Ma il finale non conta – se non per la ferocia delle folle, quando si tratta di fondamentalismo “religioso”: non è un thriller. È la storia di un giovane, ottimo letterato, secondo Puškin uno dei più colti della loro generazione, molto cosmopolita, benché non viaggiasse, giacché leggeva in italiano, francese, inglese, arabo, tedesco e farsì. Di Pietroburgo, tra giovani liberali e intrighi di corte. Della Persia. Della ferocia popolare. Che sfilano come al cinema, bene individuati e come vivi, pur nelle tante diversità, anche contrastanti. Una sorta di pittura dal vivo - non un’estemporanea, un figurativo ben delineato, studiato nell’apparente semplice, spesso. Appassionante come l’altro biopic di Tynyanov, non tradotto, il tardo e incompiuto “La gioventù di Puškin”.
Yury Tynyanov, La morte del vasil-mukhtar, Settecolori, pp. 600 € 26.

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