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Constant – È il commercio e non la guerra che fa la libertà delle nazioni, e la loro ricchezza? Tra gli antichi e i moderni, il liberale insuperato Benjamin Constant rifletteva due secoli fa che è il commercio che connota le società moderne, e non la guerra degli antichi, e che il commercio vale meglio della guerra – fa gli interessi dei più, del popolo, della massa. Nel suo liberalismo storicizzato, non ideologico, Constant spiegava anche l’evidenza: la libertà dei moderni si fonda sulle libertà civili, sulla legge, sulla moderazione dello Stato, cui è delegato l’uso della forza. Ma con una partecipazione limitata dei cittadini ai fatti pubblici, per due evidenti motivi: la taglia enorme assunta dagli Stati moderni – questo detto due secoli fa, prima dello Stato sociale e delle politiche economiche – e l’organizzazione “commerciale” (economica) della società, senza più schiavi, di cittadini lavoratori. Semplice, inattaccabile anche.
Una democrazia
come commercio, all’interno e all’esterno degli Stati, che sembrava inverata
dalla globalizzazione: “mai stai così bene”, avrebbe detto il vecchio statista
britannico MacMillan, allargando lo sguardo a tutta l’umanità, compresi i suoi cinque
sesti relegati ancora trent’anni fa in un paludoso Terzo Mondo. Ma così non è,
nota Sabino Cassese, nel breve saggio “I leader di tutto il mondo e la difficile
arte della pace”, pubblicato ieri sul “Corriere della sera”: tutti incontrano
tutti, i capi di Stato, e si stringono accordi, per il commercio, per i
diritti, per il benessere, ma un disegno di pace non c’è, anzi le guerre si
moltiplicano.
Cassese
non lo ricorda, ma si sono fatte, si fanno, guerre “umanitarie”, nella ex Jugoslavia,
in Afghanistan, in Iraq, in Libia, in Siria. Di fatto per sperimentare bombe all’uranio,
per quanto “impoverito”, bombardamenti aerei d’alta quota “di precisione”, uso tattico
dei missili, sul campo di battaglia. Con centinaia di migliaia di morti, e decine
di milioni di profughi negli ultimi trent’anni, quelli della globalizzazione economica.
Ma ne ha presenti i limiti, anzi le negatività: “La ricerca di un mondo più democratico è entrata in
conflitto con l’inviolabilità dei confini (non solo con quelli territoriali),
con il rispetto della sovranità degli Stati e con il principio di autodeterminazione
dei popoli”. Di cui è difensore il presidente della Repubblica Popolare di
Cina, Xi Jinping, Cassese nota perplesso.
Diritti – La “società dei diritti” cancella più che
affermare? Jonathan Bazzi – “sono uno scrittore e una persona queer” - trova che
“l’enfasi sui traumi vissuti intrappola le voci queer in stereotipi a uso social”.
La sua condizione, spiega, di scrittore e persona queer, “sempre più spesso mi
spinge ad interrogarmi sul rapporto tra trauma e immaginazione”. Che si
penserebbe alimentata dai traumi. Se non che i social, imponendo “loro regole
del gioco”, appiattiscono tutto nella ripetitività: Così l’esperienza
dell’essere vittima e il racconto del trauma subiscono una mutazione: da
marginali diventano, ce ne si (? ci se ne) renda conto o no, una specie di nuovo
canone”. E diversificarsi non si può:
“Di fatto significa rischiare la più grande vergogna contemporanea, quella di
non essere visti”.
Si
sapeva della rete che fosse una grande piazza. Anzi, un mercato. Di imbonitori
e vaiasse. E da prima di internet si sapeva che al mercato in quantità più
si propone della stessa merce, più i prezzi declinano. È colpa dei social se i
“diritti” fanno meno impressione, oppure ce ne sono troppi sul mercato, e fuori
stagione?
I social,
cioè la grande rete dei “diritti”.
Eresia – “Nella storia delle divisioni
ecclesiali è sempre scaturita dalle violenze di un aut-aut. Decidere da
che parte stare è sempre un atto disumano, perché gli esseri umani sono sia da
una parte sia dall’altra. Per la Chiesa il sigillo delle fede si ritrova molto
più riconoscibilmente nella pratica dell’et-et, che spesso tiene insieme
verità in apparenza contradittorie”. Michela Murgia, “God seve the queer”, 5-6.
“Spesso” forse sì, o per la Chiesa. Se vuole essere comunità piuttosto che
maestra di verità e di vita, nel solco del Vangelo frainteso del porgere la
guancia.
Un altro scrittore, il tedesco Günter Grass, curiosamente ha argomentato
il contrario, a proposito della psicologia del suo popolo. Una voce grossa, discordante, quella di Günter Grass, ma
incontrovertibile, che “aspiro”, scrive, “a farvi scettici, aspiro a strappare
le radici di questo idealismo tedesco che continua a sbocciare”, che cresce
come la gramigna, e non ha voglia di libertà, causidico: l’amata formula
“dall’una parte e dall’altra”, dice lo scrittore, si vuole precisa ma è
indecisione. O l’aveva detto Jünger: i tedeschi non sono un popolo dell’aut-aut ma del
tanto-quanto. O già Rivière: i tedeschi non sono il popolo dell’“o…o”, bensì
del “non solo…ma anche”, de “l’uno e l’altro insieme”, Occidente e Oriente,
amore e morte. Da cui la nota immagine, che i tedeschi, come certi vini, vanno
tagliati.
Filosofia - Deve
difendere Gianni Vattimo Franco Debenedetti, che non è un filosofo, nemmeno un
letterato, solo un amico. Nemmeno autorevole, se il giornale lo confina alle
lettere al direttore. Deve difendere il filosofo ottantaseienne dai discepoli e
colleghi e altri filosofi e letterati,
che lo vogliono incapace d’intendere e di volere, e da paio d’anni gli
avvelenano la vita con una causa. Bisogna sempre diffidare della filosofia – che
tanto presume di sé, pretendendosi ultimativa? Anche nei confronti di un mite, che
ha filosofato il “pensiero debole”.
Anzi, tanto più facinorosa in quanto Vattimo è un mite: l’accusa, da cui
indirettamente deve difendersi in tribunale, è di non essere più prodigale,
come soleva – si processa il suo ultimo collaboratore-assistente-badante, che ha
chiuso i rubinetti. Da qui l’assurda accusa: si difenda Vattimo che non
dilapida più i suoi averi. Avallata da un giudice.
Si è sempre detto
la “Repubblica” di Platone utopistica – cioè un qualcosa troppo perfetto o bello
per essere realizzato. In realtà non si realizza, anzi non si insegna e di
fatto non si auspica, perché i suoi profeti e interpreti tendono a fare male –
come lo stesso Platone del resto fece, quando provò a a farsi maestro dello sperimentato
tiranno di Siracusa.
Heidegger – Se ne continua a parlare, a quasi cinquant’anni dalla morte, dopo essere
stato invasivo di ogni aspetto della filosofia, solo
per l’antisemitismo, se non c’era, se c’era, e di che natura. La pubblicazione
dei “Quaderni neri”, accortamente studiata sul piano editoriale-commerciale, ha
avuto fortuna solo per questo aspetto. Il Filosofo Bino (dopo Platone) è tenuto
in vita proprio da quel Judentum che lui in qualche modo disprezzava,
teoretico, ontologico, o anche solo facciale – benché amante focoso e avventuroso
nello stesso Judentum. Avviene per lui come per
Wagner: sono un problema per l’antisemitismo, o del semitismo?
Idealismo – Ha tendenze integraliste. Una volta conduceva al terrorismo.
Se connesso alla tolleranza, come dovrebbe, è
piuttosto pragmatismo – un vedere che succede.
zeulig@antiit.eu
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