mercoledì 7 dicembre 2022

Secondi pensieri - 499

zeulig

Constant – È il commercio e non la guerra che fa la libertà delle nazioni, e la loro ricchezza? Tra gli antichi e i moderni, il liberale insuperato Benjamin Constant rifletteva due secoli fa che è il commercio che connota le società moderne, e non la guerra degli antichi, e che il commercio vale meglio della guerra – fa gli interessi dei più, del popolo, della massa. Nel suo liberalismo storicizzato, non ideologico, Constant spiegava anche l’evidenza: la libertà dei moderni si fonda sulle libertà civili, sulla legge, sulla moderazione dello Stato, cui è delegato l’uso della forza. Ma con una partecipazione limitata dei cittadini ai fatti pubblici, per due evidenti motivi: la taglia enorme assunta dagli Stati moderni – questo detto due secoli fa, prima dello Stato sociale e delle politiche economiche – e l’organizzazione “commerciale” (economica) della società, senza più schiavi, di cittadini lavoratori. Semplice, inattaccabile anche.

Una democrazia come commercio, all’interno e all’esterno degli Stati, che sembrava inverata dalla globalizzazione: “mai stai così bene”, avrebbe detto il vecchio statista britannico MacMillan, allargando lo sguardo a tutta l’umanità, compresi i suoi cinque sesti relegati ancora trent’anni fa in un paludoso Terzo Mondo. Ma così non è, nota Sabino Cassese, nel breve saggio “I leader di tutto il mondo e la difficile arte della pace”, pubblicato ieri sul “Corriere della sera”: tutti incontrano tutti, i capi di Stato, e si stringono accordi, per il commercio, per i diritti, per il benessere, ma un disegno di pace non c’è, anzi le guerre si moltiplicano.
Cassese non lo ricorda, ma si sono fatte, si fanno, guerre “umanitarie”, nella ex Jugoslavia, in Afghanistan, in Iraq, in Libia, in Siria. Di fatto per sperimentare bombe all’uranio, per quanto “impoverito”, bombardamenti aerei d’alta quota “di precisione”, uso tattico dei missili, sul campo di battaglia. Con centinaia di migliaia di morti, e decine di milioni di profughi negli ultimi trent’anni, quelli della globalizzazione economica. Ma ne ha presenti i limiti, anzi le negatività: “La ricerca di un mondo più democratico è entrata in conflitto con l’inviolabilità dei confini (non solo con quelli territoriali), con il rispetto della sovranità degli Stati e con il principio di autodeterminazione dei popoli”. Di cui è difensore il presidente della Repubblica Popolare di Cina, Xi Jinping, Cassese nota perplesso.
 
Diritti – La “società dei diritti” cancella più che affermare? Jonathan Bazzi – “sono uno scrittore e una persona queer” - trova che “l’enfasi sui traumi vissuti intrappola le voci queer in stereotipi a uso social”. La sua condizione, spiega, di scrittore e persona queer, “sempre più spesso mi spinge ad interrogarmi sul rapporto tra trauma e immaginazione”. Che si penserebbe alimentata dai traumi. Se non che i social, imponendo “loro regole del gioco”, appiattiscono tutto nella ripetitività: Così l’esperienza dell’essere vittima e il racconto del trauma subiscono una mutazione: da marginali diventano, ce ne si (? ci se ne) renda conto o no, una specie di nuovo canone”.  E diversificarsi non si può: “Di fatto significa rischiare la più grande vergogna contemporanea, quella di non essere visti”.
Si sapeva della rete che fosse una grande piazza. Anzi, un mercato. Di imbonitori e vaiasse. E da prima di internet si sapeva che al mercato in quantità più si propone della stessa merce, più i prezzi declinano. È colpa dei social se i “diritti” fanno meno impressione, oppure ce ne sono troppi sul mercato, e fuori stagione?
 
I social, cioè la grande rete dei “diritti”.

Eresia – “Nella storia delle divisioni ecclesiali è sempre scaturita dalle violenze di un aut-aut. Decidere da che parte stare è sempre un atto disumano, perché gli esseri umani sono sia da una parte sia dall’altra. Per la Chiesa il sigillo delle fede si ritrova molto più riconoscibilmente nella pratica dell’et-et, che spesso tiene insieme verità in apparenza contradittorie”. Michela Murgia, “God seve the queer”, 5-6. “Spesso” forse sì, o per la Chiesa. Se vuole essere comunità piuttosto che maestra di verità e di vita, nel solco del Vangelo frainteso del porgere la guancia.
Un altro scrittore, il tedesco Günter Grass, curiosamente ha argomentato il contrario, a proposito della psicologia del suo popolo. Una voce grossa, discordante, quella di Günter Grass, ma incontrovertibile, che “aspiro”, scrive, “a farvi scettici, aspiro a strappare le radici di questo idealismo tedesco che continua a sbocciare”, che cresce come la gramigna, e non ha voglia di libertà, causidico: l’amata formula “dall’una parte e dall’altra”, dice lo scrittore, si vuole precisa ma è indecisione. O l’aveva detto Jünger: i tedeschi non sono un popolo dell’aut-aut ma del tanto-quanto. O già Rivière: i tedeschi non sono il popolo dell’“o…o”, bensì del “non solo…ma anche”, de “l’uno e l’altro insieme”, Occidente e Oriente, amore e morte. Da cui la nota immagine, che i tedeschi, come certi vini, vanno tagliati.


Filosofia - Deve difendere Gianni Vattimo Franco Debenedetti, che non è un filosofo, nemmeno un letterato, solo un amico. Nemmeno autorevole, se il giornale lo confina alle lettere al direttore. Deve difendere il filosofo ottantaseienne dai discepoli e colleghi e altri  filosofi e letterati, che lo vogliono incapace d’intendere e di volere, e da paio d’anni gli avvelenano la vita con una causa. Bisogna sempre diffidare della filosofia – che tanto presume di sé, pretendendosi ultimativa? Anche nei confronti di un mite, che ha filosofato il “pensiero debole”.  Anzi, tanto più facinorosa in quanto Vattimo è un mite: l’accusa, da cui indirettamente deve difendersi in tribunale, è di non essere più prodigale, come soleva – si processa il suo ultimo collaboratore-assistente-badante, che ha chiuso i rubinetti. Da qui l’assurda accusa: si difenda Vattimo che non dilapida più i suoi averi. Avallata da un giudice.
Si è sempre detto la “Repubblica” di Platone utopistica – cioè un qualcosa troppo perfetto o bello per essere realizzato. In realtà non si realizza, anzi non si insegna e di fatto non si auspica, perché i suoi profeti e interpreti tendono a fare male – come lo stesso Platone del resto fece, quando provò a a farsi maestro dello sperimentato tiranno di Siracusa.
 
Heidegger
– Se ne continua a parlare, a quasi cinquant’anni dalla morte, dopo essere stato invasivo di ogni aspetto della filosofia, solo per l’antisemitismo, se non c’era, se c’era, e di che natura. La pubblicazione dei “Quaderni neri”, accortamente studiata sul piano editoriale-commerciale, ha avuto fortuna solo per questo aspetto. Il Filosofo Bino (dopo Platone) è tenuto in vita proprio da quel Judentum che lui in qualche modo disprezzava, teoretico, ontologico, o anche solo facciale – benché amante focoso e avventuroso nello stesso Judentum. Avviene per lui come per Wagner: sono un problema per l’antisemitismo, o del semitismo?
 
Idealismo – Ha tendenze integraliste. Una volta conduceva al terrorismo.
Se connesso alla tolleranza, come dovrebbe, è piuttosto pragmatismo – un vedere che succede.

zeulig@antiit.eu

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