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Storia buffa del fondamentalismo sionista
Una narrativa
composita, di quattro racconti o a quattro strati – e “storica”: fine anni 1950,
nell’Upstate di New York, la grande provincia appena fuori dalla metropoli.
L’ironia di essere “ebreo”, come fuori dal mondo. Le normali follie della vita
accademica, tra settori (le facoltà umanistiche “depredate” da quelle
scientifiche), tra dipartimenti, all’interno dei dipartimenti, e compresa
l’intolleranza odierna dei giovani e giovanissimi “alfieri dei diritti” nelle
aule. Una coppia ebrea con una figlia “pazza”, e con i rispettivi genitori. E i
Netanyahu.
Ogni racconto ha
sua accattivante dinamica – quella dei Netanyahu insistita - ma legano poco
insieme. Se non come un racconto dell’“essere ebreo” in America, quando questo
contava, ancora negli anni di Eisenhower, 1950-1960. Che però cozza con
l’insofferenza dichiarata dell’autore verso questa “identità”, opera ora degli
stessi ebrei, e dei gentili meglio disposti.
Il racconto vero
comincia dalla fine, dai “ringraziamenti”, una dozzina di pagine dense di cose.
Tra esse l’abitudine che l’autore aveva preso di fare compagnia spesso a Harold
Bloom, cui dedica il libro, immobilizzato a casa in carrozzina nei suoi ultimi
tempi, e il piacere che Bloom aveva di rivangare vecchi ricordi. Tra cui
l’incarico dal direttore del dipartimento, a lui primo e giovane professore
ebreo alla sua università, di accogliere Netanyahu padre in cerca di un
incarico accademico – Blum è il nome che Cohen dà al protagonista della sua
narrativa, o meglio al personaggio che lega le quattro storie
raccontandole.
La sensazione è
netta che la lettura si avvantaggia partendo da questi “ringraziamenti”. I
racconti si legano. Il sottotitolo si spiega: “Dove si narra un episodio minore
e in fin dei conti trascurabile della storia di una famiglia illustre”. Di due
famiglie, quella illustre e quella no, “ebree”, caratterizzate per essere
ebree. E si può anche ridere. Che è forse l’effetto che l’autore ha cercato,
disperando del corso impresso a Israele dal Netanyahu primo ministro in
venticinque anni ormai di protagonismo politico, di Stato imperialista senza
limiti. Rovesciando il corso democratico, che Cohen richiama, perseguito dai
socialisti Shimon Peres e Itzak Rabin. Il cui assassinio, ricordano i “ringraziamenti”,
Benjamin aveva mimato in una sua manifestazione elettorale. Pochi mesi dopo
l’assassinio di Rabin, Benjamin Netanyahu era primo ministro e creava lo stato
razziale confessionale. Realizzando la deriva che Israele aveva a lungo
rifiutato, impersonata dal contestatore del sionismo laico Vladimir Žapotinskij
– un integralista di cui Cohen fa grande conto, a più riprese. E del primo Netanyahu,
il nonno di Benjamin, un rabbino itinerante, di origine russo-craina, Mileikowsky.
È il nonno
all’origine del sionismo antisionista, nemico cioè del sionismo laico e
democratico, di Theodor Herzl. Le posizioni diverse e anzi opposte del sionismo
Cohen si fa spiegare in sintesi da una lettera “stropicciatissmia di fattura
straniera” recapitata al narratore prima dello sbarco dei Netanyahu, firmata da
un Peretz Levavi, “lettore in assirologia, arianologia, liguistica e filologia
indoeuropea alla Hebrew University di Gerusalemme”. Che dà una posizione
centrale al rabbino Mileikowsky, quello che prese a farsi chiamare Netan-yahu,
mandato da Dio. Un periatetico, come sarà a lungo il nipote Benjamin. E il
promotore del “sionismo revisionista” di Vladimir “Ze’ev” Žabotisnkij, il
fondatore della Legione ebraica nella Grande Guerra, a fianco dei britannici,
“prima di dichiararsi loro acerrimo nemico” con la formazione terrorista che
chiamerà Irgun, per uno Stato di ebrei in Palestina.
Tanto per lo
sfondo della narrativa. Che però pone almeno tre problemi storici – del tipo
“revisionista” che sulla pagina dileggia. Žapotinskij, ebreo russo di Odessa,
dove aveva animato l’Autodifesa ebraica contro i pogrom, creò l’Irgun per
combattere col terrorismo l’amministrazione britannica in Palestina, dal 1931,
anno della fondazione, al 1948, anno della guerra l’indipendenza. Nello stesso
1931 brigò con Mussolini, nella comune psicosi dell’Inghilterra, e a
Civitavecchia creò un primo nucleo di quella che avrebbe dovuto essere una
marina militare sionista. Era già stato in Italia da russo di Odessa, durante
la Grande Guerra, per studiare diritto alla Sapienza, mentre mandava
corrispondenze giornalistiche da Roma, firmando con lo pseudonimo italiano “Altalena”.
Žapotinskij è il
referente politico dei Netanyahu, questo Cohen lo sottolinea spesso, e ricorda
che fu fu praticamente espulso da Israele, uno Stato che nacque quasi
socialista, per morire, due anni dopo, esule in America. Il “romanzo” è
soprattutto di questo lato storico, documentario, di Israele.
Storia vera
dell’Inquisizione spagnola
“I” Netanyahu sono
i familiari del primo ministro israeliano. Una famiglia terribile nel racconto:
invadente, prevaricatrice, a volte anche antipatica, con i tre figli, tra essi
il neo-primo ministro Benjamin, undicenne nel 1960, ineducati, o educati a
prendersi tutto. Il racconto, che prende una buona metà del libro, è di quando
i Netanyahu approdarono nella piccola università della piccola città dove
insegnava il giovane professore Blum, a casa sua, per l’esame di ammissione del
padre a una cattedra di storia medievale. Cinque persone, ipercaratterizzate,
quasi caricaturali: il padre Ben-Zion, “medievista” dilettante, la madre Tzila,
i tre fratelli.
Nei
“ringraziamenti” c’è la storia successiva, di come i Netanyahu faranno la
storia. Il fratello maggiore Jonathan-Yonatan, “Yoni”, diventerà un eroe
nazionale con questo diminutivo per essere stato l’unico caduto israeliano
nell’azione di forza dei reparti speciali in Uganda, a Entebbe, a fine giugno
1976, che lui comandava, per liberare gli israeliani presi in ostaggio da
dirottatori palestinesi e tedeschi di un areo Air France in volo da Tel Aviv a
Parigi. Paracadutista volontario a 18 anni nel 1964, combattente “con merito”
nella Guerra dei Sei Giorni (1967) e in quella dello Yom Kippur (1974),
Jonathan aveva ottenuto “una posizione di alto grado nell’unità antiterrorista
d’élite nota come Sayeret Matkal” – “l’unità in cui avrebbero prestato
servizio tutt’e tre i fratelli Netanyahu” (che si traduce come Unità di
Ricognizione dello Stato Maggiore, ma è in realtà una unità di intelligence
in territorio ostile, che riferisce direttamente allo Stato Maggiore delle
Forze armate e non al governo, e ha come motto “Chi osa vince”). Il secondo
fratello è Benjamin, “Bibi”, che farà viavai con l’America per studi e vari
incarichi universitari, e anche come ambasciatore israeliano all’Onu, finché
non deciderà per la carriera politica, prendendo il controllo del Likud, il
partito israeliano di destra, col quale governerà Israele, con alcune
interruzioni, per poco meno di trent’anni fino a oggi. Il fratello minore, Iddo,
sarà radiologo a Hornell (New York), e autore di memorie familiari, “con molti
buchi” - non ha voluto partecipare al “romanzo” di Cohen, e ora vive tra
Hornell e Gerusalemme.
Il padre Ben-Zion
era nato Miejkowski a Varsavia, e prese il nuovo nome dal villaggio in
Palestina, Netanya, dove la famiglia si stabilì nel 1920, quando aveva dieci
anni. Il nome originario è una delle “centinaia di variazioni che s’incontrano
nei paesi slavi, Mileykovo, Milikov, etc.”, per dire “villaggio del mulino” -
variazioni della radice proto-europea melh, macinare. Il nuovo nome viene
a significare “inviato da Dio”. Ben-Zion crescerà irrequieto, a Gerusalemme,
collaboratore di Abba Achimeir, altro sionista integralista di origine russa,
ammiratore dei grandi nazionalisti bonapartisti, Lenin, Mussolini, Pilsudski, e
sarà segretario di Žapotinskij in America nel 1949-1950. Dettagli che Cohen
trascura nella narrazione, tutta centrata sulla scena-madre della loro
apparizione nella piccola città dello stato di New York, nella sua piccola
università. Che basta e avanza per incuriosire sui Netanyahu, e non
amarli.
In questo quadro,
l’ingresso dei Netanyahu nel mondo accademico americano, nei tardi 1950, col
padre irruento Ben-Zion, “che dopo una valanga di posizioni di docente a
contratto in tutti gli Stati Uniti divenne professore di Storia medievale alla
Cornell University” (poi vissuto in Israele, dopo la morte di “Yoni”, alla cui
memoria dedicherà la stesura finale delle sue ricerche, scritta in inglese,
fino al 2012) non resta sensa traccia. Il suo opus magnum, “Le origini
dell’Inquisizione nella Spagna del quindicesimo secolo”, 1.384 pagine, svolge –
a leggere Cohen – una tesi persuasiva. L’Inquisizione era nata e lavorava da
secoli contro l’eresia, catara dapprima e poi contro ogni altra. La speciale
Inquisizione voluta da Isabella di Castiglia e Ferdinando d’Aragona nella
Spagna nascente era invece politica: introduceva il razzismo invece della
religione, la “limpieza de sangre”, e dava gli ebrei conversos, i più da
generazioni e ormai cristiani a tutti gli effetti, insieme con i residui mori, in
pasto alla residua feudalità, di corte e di campagna, nel mentre che l’unione
di Caatiglia e Aragona si cementava in Stato Unitario alla francese, con un
solo potere, quello regale. La “limpieza de sangre” si introdusse come
artificio per concludere che gli ebrei, che si erano convertiti in massa
decenni prima, con la Reconquista, si dovevanoconsiderare marranos,
finti convertiti, e quindi da perseguire – insieme con i mori residui nella
penisola (l’Inquisizione spagnola fu anche portoghese).
Notevole teoria,
che l’Inquisizione fosse molteplice. E che, verso la fine del Quattrocento,
poco prima di Colombo, avesse cambiato obiettivo in Spagna e Poetogallo: non
convertirte gli ebrei ma riconvertirli all’ebraismo, impedendone
l’assimilazione.
È su questo sfondo
che la narrazione si fa ironica, molto ebraica, sull’essere ebreo, in generale
e in America. La “presentazione” che Netanyahu padre pronuncia alla piccola
università upstate di New York la sera del benvenuto è grandiosa: la
dissoluzione dell’America. Una conferenza, da gran signore, contro
l’assimilazione. Il Paese non c’era, non c’era nulla a cui assimilarsi, “nessun
centro, nessun cuore innato – non solo per gli ebrei ma per chiunque”: “Ecco
cosa penso dell’America: niente. Ecco cosa penso degli ebrei americani: niente.
La vostra democrazia, la vostra inclusività, il vostro eccezionalismo: niente.
Le vostre chance di sopravvivenza: nessuna”.
Netanyahu padre,
il figlio del rabbino peripatetico, è pure dell’idea che la storia di ogni
popolo è anche la storia della sua pazzia, e più la scienza diventa una
religione più la religione deve far finta di essere una scienza, alla dispeata
ricerca di spiegazioni logiche”. Per cui fanno bene gli ebrei a non credere
alla storia.
Per concludere la
eduardiana “nuttata” ci vuole l’intervento dello sceriffo. Che si lamnenta:
“Che gente del cazzo. Mi scusi, professore Blum, ma che gente del cazzo”. In risposta il narratore Blum confida allo sceriffo:
“Sono turchi, sa…. Cosa ci si può aspettare dai turchi… giusto un branco di
turchi fuori di testa”.
Joshua Cohen, I
Netanyahu, Codice, pp. 271 € 20
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