sabato 5 febbraio 2022
La fede perduta nella povertà
Capita di partecipare a un rito funebre in chiesa, con la messa, in cui il celebrante dialoga col diacono e il suddiacono – le due figure che hanno sostituito i chierichetti (forse per allontanare la tentazione pedofila?). In una chiesa fredda, soprattutto negli arredi e le decorazioni, compresa qualche astrazione di madonne e santi. Nessuno dei presenti, congiunti, parenti, amici, conoscenti sa le formule di rito, di compartecipazione. Nemmeno i segni liturgici, a cominciare dalla croce sul petto.
Appalti, fisco, abusi (216)
Poste Italiane chiude gli uffici postali una volta al mese per
sanificazione. Non sanifica dopo una chiusura, lo fa – dice - di sabato, quando
molti cittadini si prendono la mattinata libera per le pratiche (raccomandate, bollette,
pacchi).
Anche gli impiegati delle Poste hanno diritto al sabato libero?
Bisognerebbe dichiararlo. Ma il quesito esatto è: gli impiegati delle Poste hanno
diritto a un giorno di vacanza gratis al mese, in conto covid? Dodici l’anno. Nel
week-end, perché no - hanno diritto anche loro a sbrigarsi le proprie faccende?
Il servizio pubblico o al cittadino è così da intendersi: siamo
tutti cittadini.
Si è cominciato a fine agosto con la voce che forse l’ecobonus non
sarà rinnovato per il 2022. Un mese dopo si è detto che non sarà rinnovato per
le case unifamiliari. A fine novembre si è detto che che sarebbe stato rinnovato
per le case unifamiliari ma fino a un reddto di 25 mila euro. Il 31 dicembre lo
si è rinnovato tal quale, ma per sei mesi. Ma non c’è pratica ecobonus che si
definisca in sei mesi, con avvio concreto dei lavori – e le imprese edili non lavorano
a chiamata.
Furbino, il governo dei banchieri?
Per l’ecobonus a Roma e dintorni ci ha intanto pensato la Regione
Lazio, che da settembre non ha più rilasciato i Certificati di Valutazione
Tecnica, per materiali da usare. Di competenza del suo Servizio Tecnico
Centrale.
Il curioso è che, benché l’ecobonus sia materia di ampia
pubblicistica, niente si dice del suo blocco reale: non bisogna disturbare il
manovratore?
Si è fatta una riforma fiscale, con riduzione di qualche centinaio
di euro per molti scaglioni di reddito. E uno si aspettava di vederlo in busta
paga, o nel cedolino della pensione. Ma non c’è.
Ci vuole tempo, si dice. Mentre queste cose vanno in automatico.
I lockdown non servono e fanno danni
Alla
fine, dopo due inverni e mezzo e quattro ondate di contagi, non si sa molto del
covid 19, quantomeno delle tecniche e tattiche anti-virus? Dopo gli insistiti,
estenuanti, bombardamenti normativi e mediatici, di comunicazione? È probabile:
le strategie anti-pandemia, se gli attacchi virali dovessero riprodursi, vanno ripensate.
Si
prenda il problema più semplice, di cui oggi infine si discute anche nel governo:
quanti sono i morti di covid 19? Morti del virus e non di altre patologie? Saperlo
è importante, anche per valutare i rimedi, terapeutici e organizzativi. Qualche
dubbio su questa contabilità era stato sollevato nella primavera 2020, quasi
due anni fa, da uno studio cui aveva partecipato il Nobel Parisi, pubblicato su
“Le Scienze” il 13 maggio 2020:
https://www.lescienze.it/news/2020/05/13/news/covid-19_differenza_andamento_curve_letalita_apparente_reale-4726700/
Lo
studio dei tre accademici della Johns Hopkins mostra che i lockdown non hanno
avuto effetti rilevanti sulla mortalità, e meno cui contagi: non hanno salvato
più persone. Non è uno studio sul campo, ma la metanalisi di tutto quanto è
stato pubblicato, su riviste e in ambiti scientifici, sulla pandemia in corso. Metanalisi
è, nel vocabolario più chiaro ed esaustivo, del Servizio Sanitario dell’Emilia-Romagna,
“una tecnica clinico-statistica
quantitativa che permette di combinare i dati di più studi condotti su di uno
stesso argomento, generando un unico dato conclusivo per rispondere a uno
specifico quesito clinico”. Una diagnosi, insomma, e una ricetta che tengono
conto di tutto quello che si sa di una patologia.
Herby, Jonung e Hanke hanno individuato 18.590
studi che in qualche modo trattano degli effetti dei lockdown sulla mortalità
da covid 19. “Dopo tre livelli di analisi”, 34 studi si sono qualificati come
significativi. Di questi 34, dopo un ulteriore screening, 24 studi sono
stati presi in considerazione per la metanalisi. La conclusione è che i lockdown
non hanno inciso sulla mortalità da covid 19, non l’hanno cioè ridotta. Ma hanno
fatto danni - la conclusione, anticipata in testa al saggio, è radicale: “Mentre
questa metanalisi conclude che i lockdown hanno avuto scarsi o nessun effetti
sulla salute pubblica, hanno però imposto costi enormi economici e sociali dove
sono stati adottati. Di conseguenza, le politiche di lockdown sono infondate e dovrebbero
essere rigettate come strumento di politica pandemica”.
Steve
H. Hanke è fondatore e direttore del Johns Hopkins Institute of Applied Economics
and Global Health. Lars Jonung è professore emerito di Economia all’università
di Lund in Svezia. Jonas Herby, danese, è un ricercatore dell’università di Copenhagen.
Herby-Jonung-Hanke,
A literature Review and Meta-Analysis of the Effects of Lockdowns on
COVID-19 Mortality, “Studies on Applied Economics”, no. 200, January 2022
venerdì 4 febbraio 2022
A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (482)
Giuseppe Leuzzi
Savinio è stato apprezzato e
rilanciato curiosamente da letterati meridionali, Borgese, Sciascia, Pedullà. È
anche musicista di valore, se John Cage lo apprezzava, come il musicologo
Michele Porzio attesta, ma per questo non ha trovato mallevadore – non ci sono
musicisti al Sud?
È inteso scrittore della leggerezza.
Dunque, a suo modo, del Sud - era pur greco di nascita.
Whoopi Goldberg ha involontariamente sollevato
il problema della razza, volendo negarla (oppure distingue solo tra “razza
bianca” e “razza nera”?) – lei che ha preso come nome d’arte un patronimico usualmente
ebraico. Ma com’è possibile mettere assieme un portegno e un sanpaulinho -
anche se sono nipoti, o figli, di italiani? E un padano con un terrone? La
storia – oggi si direbbe la cultura – fa pure un imprinting.
Checco
Zalone, filologo calabrese
Lo
sketch lgbtqia calabrese di Checco Zalone a Sanremo, del Cenerentolo brasileiro
per il quale al ballo del re del piede d’Italia non si trova la scarpa n. 48,
salace, è recepito dai social e dai critici sanremesi come irrispettoso e anzi
ingiurioso. Facendo perno sull’ironia feroce del comico.
Checco
Zalone in effetti chiude la presentazione, della favola trasposta finalmente al
Sud invece che al Nord, con uno sberleffo: “Una fiaba narrata in Calabria,
piena di luoghi bellissimi e di bella gente, così anche al Sud sono contenti e
non si possono offendere… sti terroni”. Che è invece, involontario?, un effetto
da humour locale, lo spirito dissacrante, detto “zannella”.
Irrinunciabile in ogni conversazione. E anche in letteratura: Répaci, Zappone,
Totò Delfino, Walter Pedullà nel Novecento, Vincenzo Ammirà nell’Ottocento, e
altri più recenti - la performer più
seguita localmente, Marianna Monterosso, cantante lirica, maestro del coro
delle voci bianche al Politeama di Catanzaro, anima un podcast irriverente,
TFM, The Formazione Meridionale.
La
mafia della borghesia
Raccontando
le sue eroicomiche avventure di partigiano nella guerra civile 1943-1945 (“I
piccoli maestri”), lo scrittore Luigi Meneghello, già laureato e allievo
ufficiale di complemento degli Alpini allo sciogliete le righe dell’8
settembre, riflette a un certo punto che il solo suo Veneto, “anche lasciando
stare l’Italia, contiene enormi riserve di energia non catalogate nei libri”:
“Le strutture della nostra società sono borghesi, i popolani non saranno
letteralmente esclusi con la forza, però ne restano fuori”. Ammessi ai servizi,
“la servitù domestica, il bordello, la caserma, il seminario” e, inevitabilmente,
destinati al carcere, di dietro e di fuori le sbarre, ma “una comune cultura
non c’è”. Riferendosi al 1944 conclude: “Gli ultimi ventì’anni in Italia sono
un caso di errore per feroce difetto, opera sostanzialmente di noi borghesi, e
forse senza rimedio”. Dopo avere constatato in montagna, nelle bande
partigiane: “Cosa valgano questi qui si vede ora che si organizzano da soli” – “questi
qui” sono i “popolani”.
Le
mafie sono così, una cosa borghese. Le vestiamo di paludamenti e ragionamenti,
di disegni e progetti, e poteri oscuri. In Calabria gli hanno regalato la Madonna
della Montagna, uno scrigno di pietà popolare, con tutte le altre Madonne, i
santi, la famiglia, e la tarantella. La mafia è il Behemot di Hobbes, e insomma
il potere assoluto, altra invenzione borghese.
Di
per sé la cosa è semplice: il mafioso è uno che sa sparare. Ha “la mira”,
direbbe lo stesso Meneghello. A occhi chiusi, diremmo noi. Prende un barattolo, lo butta per aria, anzi
voi lo buttate per aria, e lui alza la pistola e lo colpisce, infallibilmente.
Quando spara col mitra fa macelli, le stragi, ma questo dipende dall’arma, a
colpo singolo è un boia perfetto. Ha la mano nodosa. Ossuta quanto la vostra,
non più dura né più grande, lui ha la “mira infusa” come dice Meneghello, come
la grazia divina. Per il resto, anche noi abbiamo vari gradi, al lavoro e
fuori, e in vario modo obbediamo, lui è un sicario di professione. Per conto di
chi ha sparato prima di lui, e ammazzando ha fatto i soldi. Per poi,
inevitabilmente, passare la mano a uno più svelto. La mafia è questione di mira
– sarà per questo che la borghesia se ne esalta.
La
donna del Sud rigenera il Nord
Nel
film Rai in tre serate “La sposa”, Giacomo Campiotti ha fatto tesoro del miglior
cinema padano, Avati e Olmi. Intervallato da brevi inserti in esterni
“calabresi”, non cupi, non isolati. Alleggerito da un pizzico di brio e molta
determinazione, femminile, meridionale, anzi di “testardaggine”, viene detto,
calabrese, con cui una strepitosa Serena Rossi lega le sei ore della serie. Con
uno sguardo ingenuo e insieme incrollabile, un corpo minuto ma roccioso, calata
nel personaggio fin nella “calata” propriamente detta in Calabria, nella
parlata, il ton tedesco, aprendo le vocali chiuse, chiudendo le vocali
aperte, con le interrogative negative per affermare, e il suono a scendere. Che
dà letteralmente corpo al personaggio: la donna indifesa, anche umiliata, che
non indietreggia di fronte a nessun sbarramento. Una donna meridionale sbalzata
dagli affetti protettivi della famiglia in un Veneto sprezzante e brutale.
La storia è di una ragazza calabrese che si ritrova per avversità fortuite
sposa per procura, comprata, in qualità di “fattrice”, per un contadino-agricoltore
veneto che non conosce. Di cui finirà per salvare la famiglia e il destino,
oltre che la sua dignità e felicità, e quella dei suoi congiunti. Tra un Sud
lindo e ridente e un Veneto buio – “selvatico” lo dice il prete.
Una fantasia,
un’utopia, uno scherzo, antileghista? Il dato è documentato nelle interviste di
Nuto Revelli, “L’anello forte - La donna: storie di vita contadina”,
un’indagine sul campo, un caposaldo della sociologia orale, e delle mutazioni
migratorie. Nelle 260 testimonianze femminili da lui raccolte nell’agro
di Alba in Piemonte negli anni 1970. Di donne trapiantate attorno al 1950. Tra
esse sessanta meridionali (trentacinque dalla Calabria): spose procurate al Sud
da mezzani per contadini-agricoltori che nessuna in Piemonte voleva più sposare
– il boom incipiente significava urbanizzazione, dei ragazzi e delle
ragazze. Donne che anche nelle interviste di Revelli sono le meno dimesse o
indifese, essendo al contrario pugnaci, e intelligenti.
Di più c’è una sceneggiatura semplice e possente. Di Valia Santella principalmente, cui si deve anche il soggetto. Che meglio non saprebbe delineare una “donna del Sud” dal vero, fuori dallo stereotipo. Di più, specificamente: meglio non saprebbe far parlare e agire una “ragazza calabrese”, con più acume psicologico e di linguaggio. E qui la meraviglia raddoppia, Santella essendo come Serena Rossi di Napoli, non il posto migliore per sapere della Calabria. Ma, certo, un posto colto e già nobile, oltre che lazzarone.
L’identificazione dell’attrice col personaggio completa, somma finezza, lo sguardo sempre retroflesso, di chi si guarda, si controlla, mentre dice e fa, anche nelle collere e i gesti improvvisi.
La pluridiscorsività di Bachtin applicata alla lingua piuttosto che alla società. La società è qui piatta, come poteva essere in tre quarti d’Italia negli anni 1950. Paese agricolo, contadino - radicato, abitudinario. Minime le contrastanti innovazioni che la storia registra: l’industrialismo del sindacalista, cieco anche di fronte ai veleni alla morte, e come grande innovazione, rivoluzionaria perfino, la cooperativa. E questo, senza volerlo, rimanda alla Calabria di oggi, settant’anni dopo.
Sicilia
A una lettrice di “Repubblica” Merlo
spiega: “La letteratura siciliana, mi creda - «gira, furria (firria? n.d.r.) e
vota» direbbe Fiorello - va sempre a finire in Pirandello”. Nel Novecento non
si direbbe, cioè dopo Pirandello: Tomasi di Lampedusa, che non è autore di un
solo libro, Consolo, Bufalino, lo stesso Sciascia, né si può escludere Camilleri,
che non è solo un bestsellerista. E naturalmente i catanesi, di dopo e prima di
Pirandello: Brancati, Capuana, De Roberto, con i catanesi di Mineo Verga e
Bonaviri. Il buffo è che anche Pirandello è poco “pirandelliano”, nei racconti
e le commedie in dialetto, quando fa il siciliano.
Era terra di aquiloni, prima di Kabul. Ne
parla Brydone, viaggiatore anglo-scozzese. Lo conferma Sciascia, “Fuoco all’anima”:
“Sì, c’era questo gioco, che rimase di moda fino alla mia infanzia”, quindi agli
anni 1920, un secolo fa: “Tutti fabbricavano aquiloni ma non si chiamavano
aquiloni, si chiamavano comete”. Poi le stelle si sono fermate: è sopravvenuta
la bonaccia come alle Antille?
Il pino di plastica al posto del pino vero
di Pirandello è l’ultima battuta e l’ultima amarezza di Sciascia , il 5
ottobre 1989, nel libro-intervista con Domenico Porzio, “Fuoco all’anima” - morirà
il 20 novembre - di uno scrittore che le aveva provate tutte, Roma, Milano, Parigi,
ma sempre era tornato in Sicilia, a Palermo d’inverno, a Racalmuto d’estate.
Straniero in patria. A quanti la Sicilia di plastica sarà stata straniera in patria?
Aveva tradizioni ottime, anzi superlative.
Pur abitando a Palermo per oltre venti anni,
Sciascia non è mai entrato nell’Orto botanico. Che pure è molto curato e famoso
– il botanico giallista Santo Piazzese lo ha celebrato, in qualche libro che,
dopo Sciascia, Sellerio ha pubblicato.
Dell’Orto Botanico interessa a Sciascia
che “lo ha progettato un architetto francese”, su iniziativa di un “principe della
Cattolica”: “Questo architetto ha scritto delle memorie che sto facendo
tradurre adesso”, si limita a spiegare a
Porzio, che dell’Orto Botanico gli celebra le meraviglie.
A Porzio che gli chiede “quali sono gli
aspetti positivi del vivere qui”, a Racalmuto, in Sicilia, Sciascia risponde.
“Non lo so. Io ormai non ne trovo”. Dei familiari, le figlie, i generi che ci stanno
volentieri, non trova le ragioni: “Il paesaggio, il clima, gli amici, la casa
sistemata. Saranno tutte queste cose assieme”.
“Gli americani arrivarono con l’elenco
dei mafiosi in tasca. I sindaci di quasi
tutti i paesi furono scelti tra i mafiosi”, Sciascia, “Fuoco
all’anima”, 43. Senza che ne se ne sia avuta traccia nei documenti americani,
che pure sono pubblici?
Gli americani – sempre Sciascia – “avevano
creato una divisione, chiamata Texas, composta interamente da figli di siciliani”.
Sciascia, come poi Camilleri, vede lo sbarco come una storia nera: “Lo sbarco
degli americani è stato una kermesse. Le distruzioni le avevano fatte con l’artiglieria
e i bombardamenti” – l’artiglieria navale evidentemente, prima dello
sbarco. Sempre “gli americani”, senza
gli inglesi, o i franco-africani, che pure si notavano di più.
“Gli unici italiani nazionalisti (non in
quanto italiani, ma in quanto siciliani), sono i siciliani; i toscani sono
campanilisti, e tutti gli altri pensano solo ai soldi” – Sebastiano Vassalli,
“Ammiro Umberto Bossi, un Davide padano” - “Corriere della sera” 13 agosto
1996.
Candidato alle prime elezioni, nel 1861,
Francesco Crispi fu sconfitto a Palermo da un moderato, il marchese di
Torrenova. Lo stesso marchese che nel maggio 1849 presiedeva la Camera siciliana,
quando i deputati finirono per approvare l’armistizio con i Borboni. Il vento
gira in fretta nell’isola.
Nella stessa elezione Crispi fu invece
eletto, lui capo della Sinistra, nel collegio di Castelvetrano, dagli ex
sudditi del barone Favara, suo amico personale, che non solo lo fece eleggere, ma
gli pagò anche le spese di viaggio per Torino – dove Crispi naturalmente
sedette sui banchi dell’Estrema Sinistra.
leuzzi@antiit.eu
Come annoiare Balzac
Una
lettura profusa, quasi tre ore, del romanzo di Balzac. Sul giovane provinciale di
belle speranze traviato a Parigi, dove
è scappato con la castellana di cui è l’amante, dalla stampa cinica, e venduta –
la stampa liberale. Un romanzo giustamente famoso, col suo personaggio Lucien
de Rubempré, per il ritratto vivido di Parigi nella monarchia orleanista, dove
il più pulito ha le pulci. Reso didascalicamente, faticosamente – sembra una
miniserie incollata, più che montata, a film.
L’unica
novità rispetto al romanzo sono i nudi maschili, posteriori e frontali. È difficile
che Balzac annoi, qui sì.
Xavier
Giannoli, Le illusioni perdute
giovedì 3 febbraio 2022
Problemi di base racés - 682
spock
Insomma queste
razze, ci sono o non ci sono?
Ci sono ma (non)
sono elette?
Ma sono
esclusive?
E come si
definiscono?
Le razze le
lasciamo ai cavalli?
E anche ai
cani - e ai gatti?
“Ognuno è l’ebreo
di qualcuno”, Primo Levi?
spock@antiit.eu
Razza e cultura
Nella piccola tempesta
sollevata da Whoopi Goldberg sullo sterminio degli ebrei, se considerarlo un
crimine razziale oppure un crimine dettato dalla ferocia, si sono udite, fra
tante condanne, anche voci ebraiche che dicono l’ebraismo non un fatto razziale
ma religioso.
Curiosamente, la distinzione
dell’attrice afroamericana era il sentimento di Primo Levi. Quello che attrae,
anche, tuttora della sua narrazione della Shoah. Bene lo spiega lo storico Sergio Luzzatto, dopo avere documentato l’esperienza
partigiana dello scrittore nel volume “Partigia”, nel pamphlet “Ritorno
su ‘Partigia’”, in cui risponde alla critiche (sulle spie che vendettero la “banda”,
e sull’esecuzione sommaria di due ladruncoli scambiati per spie): “Fra
gli ingredienti della ricetta che rende «Se questo è un uomo» un
libro unico entro il genere della memorialistica sulla Shoah è la rinuncia a
rappresentare la condizione della vittima di Auschwitz come vittima semita
piuttosto che come vittima umana. È l’invito ai lettori perché considerino –
fin dal titolo del libro, e poi nel salmo inaugurale – «se questo è un uomo»
piuttosto che «se questo è un ebreo». D’altronde, il lavoro di editing compiuto
da Levi in fase di stesura, dalla prima versione dattiloscritta a quella
pubblicata nel 1947, era andato precisamente nel senso del levare quanto
definisse in termini ebraici la condizione dell’internato, per definirla in
termini universalistici (salvo far precedere il tutto dai versi ricalcati
sulla Shemà, la preghiera degli ebrei: più che un esergo, un
comandamento)”. Di uscire evidentemente, liberarsi, come dirà in qualche intervista, dalla vergogna di “non essere morto” - dal senso di colpa, per quanto senza colpa, morale o sentimentale, verso i compagni di prigionia morti, politico, per la propria sventatezza, etnico.
Cronache dell’altro mondo – razziali (171)
Whoopi Goldberg si è attirata accuse di razzismo per avere negato il
razzismo nello sterminio degli ebrei decretato e perseguito da Hitler: è uno sterminio
dettato dalla ferocia, ha detto, gli ebrei sono bianchi come i tedeschi. Nel
mentre che negava il razzismo cioè, lo riservava solo ai bianchi contro i neri.
Adolph Reed, nero, professore di Scienza politica da oltre quarant’anni
all’università di Pennsylvania, insiste che il razzismo e l’antirazzismo sono
falsi scopi agitati dai “padroni del vapore”, per coprire ciò che fa la vera disuguaglianza,
il regime politico ed economico di classe.
Tredici università per afroamericani, le HBCU, a partire dalla
prima storica Howard University, hanno ricevuto martedì, primo giorno del Black
History Month, il mese della storia dei neri, minacce di bombe. Il mese della Storia
Nera si celebra in Usa e Canada a febbraio, in Gran Bretagna a ottobre. Ideato
poco meno di un secolo fa, à celebrato a febbraio in Nord America perché vi
cadono le nascite del presidente Lincoln e di Frederick Douglass, il primo
politico afroamericano candidato a un incarico pubblico – corse per la
vice-presidenza nel 1872, in ticket con la candidata presidente Victoria
Woodhall, la prima donna candidata.
Le HBCU, Historically black
colleges and universities, sono state create, prima e
dopo la guerra civile, fino alla fine del regime di segregazione, nel 1965, per
consentire agli afroamericani l’accesso agli studi superiori. Negli anni 1930
sono state l’approdo principale dei tanti studiosi ebrei in fuga dall’Europa –
altri sbocchi essendo preclusi, per problemi economici, era l’America della Depressione,
e per un diffuso antisemitismo. Si calcola che circa il 70 per cento degli
incarichi universitari delle HBCU tra il 1933 e il 1945 siano andati a europei
in fuga dal razzismo nazifascista.
Il romanzo della Resistenza e dell’ebraismo – le "colpe" di Primo Levi
“Il” romanzo di Primo Levi, narratore di
suo breve, di cose vissute e viste: romanzo d’invenzione. Su una “banda” di ebrei
che tra Ucraina, Polonia, Bielorussia si battono, da luglio 1943 a
luglio-agosto 1945, contro l’occupazione nazista, e da ultimo si dirigono verso
l’Italia, in cerca di un imbarco verso la Palestina. Sempre isolati dagli altri
gruppi partigiani, polacchi o russi. Il romanzo di un gruppo di proscritti, di
fatto, tra sporadiche azioni di guerriglia, e amori tristi.
Il romanzo, anche, in sottotono, della crisi
di identità. Primo Levi si voleva per tre quarti italiano e per un quarto
ebreo. Anzi, per quattro quinti piemontese. Qui monta una storia di “irregolari”
che finiranno sionisti, per esaurimento – per non sapere più chi sono. Ma lui
stesso comincia a porsi la questione. Tanto più in quanto l’identità si configura
ancora nazionale, di anagrafe, lingua, e anche tradizione – il primo protagonista
si vuole “un russo ebreo e non un ebreo russo”, e così, verso la fine, una
leggiadra combattente parigina scampata al lager che non sapeva di essere
ebrea, e non sa ancora che cosa sia.
Il titolo è l’ultimo verso di una canzone sionista,
composta da un ebreo prigioniero dei tedeschi come ultimo desiderio prima dell’esecuzione.
Levi l’ha composta, spiega in nota, da sue letture recenti di ebraismo dotto: “Da
alcune parole che ho trovate nei ‘Pirké Avoth’ (“Le massime dei Padri”), una raccolta
di detti di rabbini famosi che fu redatta nel II secolo dopo Cristo e che fa
parte del ‘Talmud’”, attribuite al rabbino Hillel. Alla nota aggiungendo la
chiosa: “Naturalmente, l’interpretazione che di questo testo io attribuisco ai personaggi
non è quella ortodossa”. Con ironica allusione alle difficoltà dell’ortodossia,
che ha già fatto rappresentare a un paio di personaggi, per quanto sionisti. E
cioè di dirsi o essere buoni ebrei.
Una narrazione della Resistenza curiosamente
dal vivo. Curiosamente perché Levi ne ebbe sempre il complesso. Emerge costante
dalle interviste e dalle conferenze - lo storico Sergio Luzzatto l’ha ben evidenziata
in “Partigia” e in “Ritorno su Partigia” – la colpa di non avere fatto la scelta
della Resistenza con acume e serietà, ma da giovanotto superficiale, in modi dilettanteschi
(fu arrestato in quanto partigiano, di una banda autocostituita con due o tre
amici, e sarà lui stesso a denunciarsi ebreo, pensando così di riacquistare la libertà….).
Un romanzo di avventure. Con la piccola
banda ebraica è tutto un mondo che viene narrato, della Resistenza. Umida, o
sudata, affamata e affannata più che ingorda, incerta più che decisa – la Guerra
partigiana dipende dalla radio, dai “lanci” notturni. Con la fame, il sesso
triste, i pidocchi. Una narrazione che, a bocce ferme, ha tutta l’aria di
essere vera, più delle tante della Resistenza made in Italy, anche di scrittori
illustri, Fenoglio, Meneghello, Bocca, Calvino. Calcolatrice più che avventurosa.
Un esercizio in sopravvivenza.
Una “testimonianza” romanzesca, cioè inventata,
ma scritta come una storia: precisa, conseguente, verosimile. Non molto amata,
rispetto al Levi dei racconti di prigionia e della natura, ma persuasiva, ancora
dopo quarant’anni, e più ricca, sempre leggibile. Soprattutto convincente.
Per la prima volta Levi si prende l’autorevolezza
dell’autore. Sa per esempio far parlare
la Resistenza che si rimprovera di non avere fatto. “So che cosa è la guerra partigiana”,
fa dire a un capobanda - naturalmente un russo: “So che a un partigiano può
capitare di avere fatto, visto o detto cose che non deve raccontare”. L’invenzione
dei luoghi, le ore, le situazioni, la folla di personaggi minori e minimi è sempre
perspicua: in tono, espressiva, misurata il giusto.
Un romanzo per tracce evidenti molto alla “Educazione
europea”, l’altra narrazione “da lontano”, la prima, della Resistenza in Polonia,
con cui Romain Gary debuttò nel 1945. Con la differenza che Gary, nato a
Vilnius, città polacca prima che lituana, aveva vissuto in Polonia, parlava il
polacco, ma ha poca Polonia in “Educazione europea”. Levi invece sa raccontare
un mondo a lui estraneo con più dettaglio. E con più verosimiglianza: anche per
esperienza, si può confermare che è come se Levi avesse fatto una ricognizione
minuta dei luoghi, nelle varie stagioni. “Educazione europea” Sartre giudicò, scrive wikipedia, “il miglior romanzo mai scritto sulla Resistenza”. Si sarebbe ricreduto se avesse potuto leggere questo Primo Levi (Fenoglio e Meneghello scrivono di altro, di avventure di gioventù, nella Resistenza).
Gli echi sono molti, il racconto è anche di molte letture. Curioso quello degli “uomini della foresta”
di Jünger. Dei “Waldgänger” (titolo italiano “Trattato del ribelle”), la celebrazione
postbellica dei liberi proscritti - da poco riedita in tedesco, nel 1980, e in francese,
nel 1981, con un certo clamore. Gedali, uno dei tanti protagonisti, il romanzo è corale, è
nome e personaggio di Babel’, “L’Armata a cavallo” –
è un negoziante, ma ha la celebre frase, che è la filosofia del personaggio di Levi: “Qual è la Rivoluzione e quale la controrivoluzione?”
Il romanzo si snoda da un inverno, quello
del 1943-44, con le notizie del cedimento dell’Italia e delle prime ritirate
tedesche dalla Russia, a mano a mano che le città tornano sotto l’Armata Rossa,
alla primavera e all’estate del 1944, e a un altro inverno, quello decisivo
1944-45, della liberazione. Minuzioso, preciso e non magniloquente, qui come
nei racconti e nelle testimonianze della prigionia che fanno Primo Levi. Storie
di minuti personaggi e minime avventure. Dentro una cornice mostruosa: il
paesaggio, difficile e inospitale, e il nemico, avvertito, organizzato, cattivo.
I russi s’incontrano
affabili, nella loro lingua inafferrabile, e affidabili – i russi salvarono per
miracolo, letteralmente, i morti viventi residuati nel lazzeretto di Auschwitz,
tra essi Levi. Si occupano dei russi della “banda”, non importa se ebrei. Vincono,
ma fattuali, e con economia minima - come quella dello scrittore, di Primo Levi:
una squadriglia di “avvisatori”, piccoli aerei leggeri, di legno,
pilotati da ragazze, che atterrano a partono in piccoli spazi, fa in poche
righe un film, I polacchi, il narratore li ammira e ne diffida: coraggiosi anche
se sfortunati ma inaffidabili - altrove, in un’intervista, ha detto che “avevano
un terrore folle dei tedeschi”, e quindi potevano denunciare, denunciavano.
Un romanzo anche in cui Primo Levi riflette
sulla condizione di ebreo. Sul modo di essere e di pensare. Con garbo, più
spesso attraverso storielle lievi, ma con laico disagio. Lo spiega in particolare
a metà narrazione, facendo rappresentare a qualcuno il “Talmud”, la sua “logica
contorta”: “Volevo solo farvi provare”, fa dire a una ragazza che ha
partecipato alla piccola rappresentazione a beneficio di un partigiano della banda
non ebreo, “che effetto fa essere ebreo…., che effetto fa avere la testa fatta
in un certo modo”. Dopo aver fatto rappresentare agli stessi partigiani ebrei alcune
delle dicerie sugli ebrei – l’amore libero, la sovversione, l’avidità.
Primo Levi, Se non ora, quando?,
Einaudi, pp. 275 € 14
mercoledì 2 febbraio 2022
Il mondo com'è (438)
astolfo
Centro-sinistra –
Taciuta dalle storie della Repubblica (Colarizi, Crainz, Ginsborg) è stata l’esperienza
politica più fertile, negli anni 1960-primi 1970, di adeguamento del diritto e
della società alla costituzione, all’eguaglianza dei diritti, al lavoro e di
genere, e alla modernità: l’accordo politico, per quasi un quindicennio, tra la
Democrazia Cristiana e il Partito Socialista Italiano. Auspice dapprima Fanfani,
poi, in funziona antifanfaniana, Aldo Moro, inizialmente cauto e anche opposto
all’“apertura a sinistra”.
Si
cominciò a parlare di centro-sinistra nel 1958. A marzo del 1961 Pietro Nenni, segretario e leader incontestato
del Psi, propose al congresso nazionale la possibilità di entrare in un governo
guidato dalla Dc, o in subordine di appoggiarlo dell’esterno. A gennaio dell’anno
dopo, al congresso della Dc, il segretario Moro ottenne l’avallo a un governo di
centro-sinistra con i socialisti. Oppositori solo le frange che facevano capo a
Andreotti, che allora rappresentava praticamente solo sé stesso, e al gruppo
già maggioritario dei “dorotei”, capeggiato da Antonio Segni. Che subito dopo,
l’11 maggio, sarà eletto presidente della Repubblica, per calmare l’opposizione
democristiana a ogni accordo a sinistra. In qualità di “vigile notturno”, o
garante. Pochi giorni dopo il congresso, intanto, il 2 febbraio il governo
Fanfani si era dimesso, per avere il 10 febbraio un nuovo incarico, per un
governo con astensione socialista. Sostituito l’anno successivo da Moro, con un
governo a partecipazione socialista, insieme con il partito Repubblicano e il
partito Socialdemocratico. Un quadripartito di centro-sinistra che governerà,
con varie tensioni, per una quindicina d’anni, fino al compromesso storico del
1976 – con la sola parentesi del governo Andreotti di destra (pensioni baby, per
quindici-sedici anni di lavoro effettivo, “pensioni d’oro” per dirigenti
pubblici quarantenni), per un anno da fine giugno 1972.
Furono gli anni
del divorzio, compreso un referendum abrogativo, dell’aborto, del nuovo diritto
civile, dei diritti della donna e della famiglia. Della legge di attuazione
dell’ordinamento regionale. Della nazionalizzazione dell’energia elettrica. Del
Sistema sanitario nazionale. Dello Statuto dei lavoratori. Della revisione dei patti
agrari e e dei “piani verdi”, per la diffusione della proprietà contadina, dei
coltivatori. Del ritorno dell’urbanistica, dopo gli eccessi palazzinari degli
anni 1950. Della diffusione dei parchi nazionali. Dell’istituzione dei parchi
marini.
Il cambiamento fu
radicale per la scuola, culminando nel 1975 nei “decreti delegati”, per la partecipazione
delle famiglie alla gestione. Furono gli anni del diritto allo studio, con le borse
di studio per gli studenti senza mezzi, e dell’apertura delle università alle
diverse esperienze scolastiche superiori. Della scuola media obbligatoria per
tutti, con edifici scolastici in ogni Comune. Si dotano tutti i Comuni di
impianti sportivi - fino a 50 mila abitanti a spese del governo.
Il centenario dell’unità
d’Italia si celebrò con un finanziamento eccezionale alle università.
La Rai si aprì a Enzo
Biagi, portato allora dal partito Socialista, e a Dario Fo.
Russia-Cina – Oggi apparentemente
allineate, se non alleate (la Russia è intervenuta per ristabilire l’ordine in
Tagikistan per propri interessi economici e geopolitici, ma anche perché il
Paese centro-asiatico è lo snodo della via terrestre della Seta, il programma
di espansione economica cinese in direzione dell’Europa), hanno un passato di
turbolenze e una frontiera lunga e problematica in molti punti. Una guerra
sino-sovietica ebbe luogo nella seconda metà del 1929, e ridiede a Mosca il
controllo condiviso della Ferrovia Orientale Cinese, snodo per la Manciuria, di
cui il governo cinese aveva deciso il controllo totale.
Forti tensioni,
ideologiche e anche militari, seguirono la destalinizzazione in Unione Sovietica,
a partire dal rapporto di Krusciov nel 1956. La polemica del presidente cinese
Mao contro l’Urss fu veemente – Mao disse che con l’abbandono di Stalin Mosca abbandonava
uno dei due pilastri del comunismo, l’altro essendo Lenin. Mentre dal canto suo
Krusciov giunse a criticare il Grande Balzo decretato da Mao per l’economia cinese,
dicendolo “non marxista”.
Stalin aveva dato
un aiuto forse decisivo con le forniture militari a Mao per l’abbattimento del regime
di Chiang Kai-schek. Come aveva già aiutato Chiang nella resistenza contro l’occupazione
giapponese. Tra il 1949 e il 1950 Mao fece un lungo soggiorno a Mosca. Ma dopo la
denuncia dello stalinismo creò una struttura internazionalista ovunque (Europa,
in Albania e in Romania, Africa, America Latina, Asia) in opposizione al Comintern
sovietico. Per tutti gli anni 1960 i rapporti tra le due superpotenze comuniste
furono di ostilità. Anche in Vietnam, dove operarono a sostegno della guerra
nazionale di Ho Chi Min, agirono separatamente, e in concorrenza.
Di Mao Togliatti
concedeva bonario: “Gliene abbiamo fatte tante”.
La Grande
Rivoluzione Culturale Proletaria, o delle Guardie Rosse, Mao lanciò nel 1966, dieci
anni dopo il Rapporto di Krusciov, contro il “revisionismo sovietico” – avviava
l’eliminazione di una corrente del partito Comunista cinese facendo riferimento
a Mosca. Poche settimane dopo, a gennaio del 1967, le Guardie Rosse misero sotto
assedio l’ambasciata sovietica a Pechino. Nel 1968 truppe sovietiche attaccarono
le guardie di frontiera cinesi sul fiume Ussuri. Mentre Pechino bollava di
socialimperialismo l’invasione sovietica della Cecoslovacchia.
Si attribuisce alla
persistente tensione con l’Urss anche la decisione di Mao di aprire le relazioni
con gli Stati Uniti – un’apertura di cui Kissinger, consigliere speciale dell’allora
presidente americano Nixon, si avvalse, con i primi incontri segreti a Pechino,
nel 1971. Il rapporto Cina-Usa si stabiliva allora in termini di sicurezza, la
Cina essendo ancora lontana dalle Quattro Modernizzazioni di Deng Hsiao-ping, e
gli Stati Uniti lontani dalla globalizzazione, che ha fatto della Cina la “fabbrica
del mondo”.
Nel 1978 l’invasione
vietnamita della Cambogia fu risentita da Pechino come un’intrusione sovietica,
il regime di Pol Pot in Cambogia essendo patrocinato dalla Cina. L’invasione sovietica
dell’Afghanistan l’anno successivo fu condannata dalla Cina, che si sintonizzò con
Pakistan e Stati Uniti per contrastare il regime imposto da Mosca.
Walhall – Un mondo di
morti, combattenti, per diletto - la hall, la sala, dei morti uccisi nella
mitologia norrena. Così la riassume Elias Canetti, “Massa e potere”, 52: “Un
numero enorme di combattenti si raduna nella Walhall, secondo le credenze dei
Germani. Tutti gli uomini caduti in guerra fin dal principio del mondo giungono
nella Walhall. Il loro numero cresce sempre, perché le guerre non hanno fine.
Là, essi mangiano e bevono a dismisura: sempre si rinnovano per loro i cibi e
le bevande. Ogni mattina afferrano le armi e scendono in campo. Si uccidono a
vicenda, come in torneo, ma poi si rialzano, giacché la loro non è vera morte.
Attraverso 640 porta tornano nella Walhall, in schiere di ottocento uomini”.
astolfo@antiit.eu
La violenza della legge
Si ripropone la scelta di riflessioni,
pubblicata cinque anni fa, di Simone Weil sulla “natura” violenta del potere,
come esercizio comunque della forza: “L’Iliade, o il poema della forza”, “L’ispirazione
occitana”, “Non ricominciamo la guerra di Troia. Assortita di una presentazione
di Mauro Bonazzi, l’antichista autore della “Piccola filosofia per tempi
agitati”. Sulla violenza non del potere dittatoriale, che la pratica
dichiaratamente, e per definizione, ma della legge – della democrazia
costituzionale, del giusto, del bene, della verità. Che anch’essa conclude alla
violenza.
Una riedizione che interviene nello
scontro sulle decisioni governative in materia di covid 19, di pandemia. In
chiave di contestazione dei dpcm, decreti dell’esecutivo non discussi né approvati
in Parlamento, con obblighi forzosi di notevole rilevanza. Pur senza dichiarare
lo stato d’emergenza. Come a dire l’emergenza continua – la stasis della
filosofia accademica - cara a Agamben, uno dei contestatori radicali dei dpcm:
una sorta di stato d’assedio permanente.
Mauro Bonazzi dice le ragioni della
riproposta nell’introduzione: “Non viviamo tempi facili. Ma forse non sono mai facili
i tempi in cui gli uomini vivono”. In rapporto ai bisogni, variati e variabili.
Agli eventi – la realtà - con cui confrontarsi permanentemente. E il rapporto
con gli altri - il “confronto con chi la pensa diversamente”.
“Non ricominciamo la guerra di Troia” è un breve
scritto alla vigilia della guerra nel 1939 - l’anno dopo “L’Iliade o il poema
della forza”. “L’ispirazione occitana” richiama il messaggio di Cristo:
riconoscere la forza, e rifiutarla - “Riconoscerla come unica sovrana di questo
mondo e rifiutarla con disgusto e disprezzo”. Simone Weil è qui già alla fase
ultima, del misticismo disincarnato.
Ne “L’Iliade”, il poema di fondazione dell’Occidente,
argomenta l’inconclusività della violenza, che pure si impone - “La forza
trasforma chiunque da essa venga toccato”: non è una soluzione, se non
distruttiva. Omero vi rappresenta non atti di eroismo, né l’imperscrutabilità
del divino, ma la Forza, che rovina chi ne usa e annienta chi la subisce. Senza magnanimità. Senza perdono. Per la forza del diritto.
Simone Weil, Il libro del potere,
Chiarelettere, pp. 128 € 10.
martedì 1 febbraio 2022
Niente destra senza centro
Non c’è centro-destra senza il centro. L’eclisse del centro del
centro-destra, cioè Forza Italia, cioè Berlusconi, è in atto da tempo, dal voto
del 2013, e più ancora dal 2018. Il centro-destra è sempre maggioritario, ma
senza un accordo, se non fittizio, e senza una leadership. Senza centro. Il
collante e il garante, oltre che l’indispensabile ingrediente.
Il voto europeo sembrava un’investitura a questo ruolo di
Salvini. Che però ha solo beneficiato di una posizione di rendita, del voto a tentoni
del centro in cerca di una leadership. Attesa presto delusa, Salvini ha
continuato a essere quello che è, tutto e il contrario, volatile e anzi confuso – pro o contro la Ue, o solo per i soldi, etc.
C’è ora un vuoto al centro. Oppure no: attraverso Renzi (governo
Draghi) e Calenda (elezione romana) il centro sembra basculare verso sinistra.
Sarebbe anche normale: Forza Italia era un contenitore composito, ha raccolto perfino
notevoli ex comunisti, specie i filosofi, tenuto assieme dall’accomodante Berlusconi,
che ora inevitabilmente si divide.
Cronache dell’altro mondo – valorose (170)
Il
“valore” di Tesla supera quello combinato di tutti i produttori mondiali di
automobili, Stellantis, Toyota, Vokswagen, Gm, Ford.
C’è la
pandemia. C’è l’inflazione. Anche da salari. La produzione è bloccata da troppi
colli di bottiglia: approvvigionamenti difficili, materie prime scarse e care,
idrocarburi compresi, forza lavoro insufficiente. Si minaccia pure una guerra
contro la Russia. Ma le Borse sono ottimiste. Con un record a gennaio di 37
mila punti. Per la precisione: “Storicamente, lo Unites States Stock Market
Index (US 30) ha raggiunto un record storico di 36.960,91 a gennaio del 2022”. Per non dire della catena di sant’Antonio, doppiata dal gioco delle tre carte, delle criptovalute e degli Nft, gli oggetti unici, che si propongono come la quintessenza della sapienza finanziaria - immagini digitali di scimmie, talmente uniche che si vendono a decine di migliaia.
Venezia e Polesine, l’ombra pedofila sulla bellezza
Finisce
a pesce la fiction sui bambini circuiti e rapiti dall’internazionale pedofila.
Con tre tragedie in cinque minuiti: l’“arrivano i nostri” a salvare da morte
certa uno dei due cacciatoti dei pedofili, “Daniele” (Alessandro Roia), la scoperta che la rete fa capo alla coordinatrice delle indagini, mentre l’altra protagonista, la scoperta che l’indomabile “Elena” (Vittoria Puccini) ha proiettato sui ragazzi scomparsi la morte del suo proprio figlio per un incidente di strada.
Ma
la miniserie rimane nella memoria per l’ottimo taglio della suspense. Con
la vicenda in parallelo di amicizie adolescenziali fortissime, bellissime. Sullo
sfondo di una Venezia scintillante, negli esterni e ancora di più nei fastosi
interni. E di un Polesine mai visto nella sua seducente bellezza, umbratica e
tragica.
Difficile
ora un seguito?
Ciro
Visco, Non mi lasciare, Rai Cinema
lunedì 31 gennaio 2022
Appalti, fisco, abusi (215)
Con la discussa
acquisizione Sai-Fondiaria, Unipol, l’assicurazione della Lega delle cooperative,
è diventata la prima nel ramo danni. Con la maggioranza di Bper, l’ex Popolare
Emilia Romagna, che a sua volta acquista Carige, e con la maggioranza relativa
della neo spa Popolare di Sondrio, sorpassa Unicredit per numero di sportelli,
bancari e di bancassurance. Secondo gruppo italiano. Per virtù della politica?
Certamente
sì nel fallimento pilotato della vecchia proprietà Sai. L’acquisto di Carige, respinto
dal Fondo Interbancario Tutela Depositi su basi tecniche, si fa per decisione
della Banca d’Italia, cioè del governo.
L’app My
Tim e l’analogo sito si rifiutano di iscrivere l’addebito della bolletta in
automatico sul conto bancario, procedura che si penserebbe sia nell’interesse
dell’azienda.
Bisogna ricorrere
all’agenzia Tim, dove un impiegato servizievole impiega 28 minuti, mezzora
delle sue sette ore di lavoro, per la pratica.
Venticinque
dei 28 minuti sono presi dai tentativi di addebitare la bolletta su carta di credito,
come è previsto dal prospetto. Tim non accetta Visa, Mastercard, American
Express. Cioè non accetta carte, solo addebiti sul conto (purtroppo non contestabili,
se non attraverso una procedura legale), mentre dice il contrario.
L’inefficienza
va di pari passo con l’imbroglio.
Poste
Italiane consegna la raccomandata indirizzata al patronimico seguito da un solo
nome di battesimo. La raccomandata rivelandosi un vaglia, a validità temporale
ridotta, di cui si chiede quindi il cambio, Poste Italiane si rifiuta di pagarlo
perché sul documento d’identità il patronimico è seguito da due nomi di battesimo.
Detto nel linguaggio di Poste Italiane: perché ha consegnato la raccomandata, se
l’identità non è sicura?
La consegna
della raccomandata estingue il debito di chi ha inviato il vaglia. Mentre Poste
Italiane, con questo semplice trucco, si tiene l’ammontare pagato.
Ombre - 599
Venerdì gruppi di studenti si sono raccolti al Pantheon a Roma per organizzare un corteo fino a Trastevere, ministero dell’ Istruzione, di protesta per la morte del giovane Patelli in fabbrica. Tutto autorizzato, assembramento e corteo. Ma quando la piazza si è riempita la Polizia ha chiuso le vie d’uscita (è facile, piazza del Pantheon è piccola) h cominciato a manganellare. Ragazzi miti, né violenti né facinorosi. Alcuni dei quali sono finiti in Pronto Soccorso. Silenzio totale delle cronache romane, altrimenti sensazionalistiche, “il Messaggero”, “la Repubblica”, “Corriere della sera”. Ordini del capo della Polizia Giannini? della ministra Lamorgese?
Ordini
probabilmente no: i cronisti non sanno cosa succede e non gli interessa:
prendono le notizie già scritte dal capo della Polizia.
Delle
manganellate, che pare si siano avute anche a Milano, Napoli e Torino, i
giornali parlano solo oggi, dopo che ieri sera il segretario del Pd Letta, ha lamentato
“l’increscioso incidente”. E giusto per riferire di Letta, poche righe.
Letta
è intervenuto su insistenza dei genitori dei feriti, tutti dunque Pd, “governativi”.
Ma è al corrente delle circolari ultimative che il suo ministro Bianchi, calato
a Roma senza competenza specifica, se non di essere un prodiano, manda ai dirigenti
scolastici acculandoli a imprecise ma minacciose “responsabilità” a seguito di “occupazioni”?
Si vede che il Pd è giusto il suo nome, un partito molto democratico.
Ci
sono stati ministri di Berlusconi, anche di Fini, al posto del settantenne
Bianchi, e non hanno avuto obiezioni, l’autogestione non è un delitto.
Come
già con Telecom, e con Unicredit, c’è gazzarra tra gli azionisti attorno a
Generali. Incuranti della gestione, il grande gruppo assicurativo (ex) europeo
acculano alle quote azionarie, alle beghe tra soci. Il mercato si nutre di
queste faide. Bisognerebbe pensarci, quando si definisce il mercato l’assetto
più produttivo. Generali, come Telecom un tempo, come Unicredit, ha (dovrebbe
avere) una platea di stakeholder molto più ampia, e con più diritti,
degli azionisti – la proprietà non è tutto, e non è nemmeno il meglio.
“Di certo i soldi sul conto si svalutano
almeno di un 2 per cento l’anno, se l’inflazione torna al target Bce.
Proiettando la stima sui 1.800 miliardi giacenti sui conti, il danno emergente
è 36 miliardi annui. E non è tutto. Quei soldi, investiti anche solo all’1 per
cento, potrebbero creare un effetto ricchezza da 18 miliardi l’anno. In tutto
parliamo di circa 54 miliardi l’anno di ricchezza in fumo”, Alessandro
Foti. L’amministratore delegato di Fineco ha un conflitto d’interesse, lui
investe i soldi degli altri, ma quello che dice è chiaro: l’Italia è ancora,
impoverita, alla deriva, allo sbando, in trent’anni passata da quarta o quinta
potenza economica mondiale a nona o decima, dietro la Corea del Sud per pil pro
capite, il paese dello spreco.
È
giusto che i caraibici e i sauditi gareggino all’Olimpiade invernale, e quindi
si fanno gare truccate per qualificarli. Ma pagano per questo, almeno i
sauditi?
No, la
cosa è seria, è parte dei diritti - delle minoranze: il genere Onu, Tonga come
Usa. Ma perché perdere tempo con le qualificazioni: se tutti hanno diritto a
tutto, perché non gareggiare a porte aperte? Chi vuole, corre.
Feltrinelli
vende il “Caruso” di Alagna a 19,99 euro in libreria, e a 12,68 sul sito –
senza spese postali. Hanno deciso di chiudere le librerie?
Curioso,
Aspesi continua a pubblicare sul “Venerdì di Repubblica” lettere di sdegno
contro Berlusconi al Quirinale, “il vecchio satrapo”, eccetera, due settimane
dopo che Berlusconi se n’è tornato a casa, cioè in ospedale. I tempi di fattura
di un settimanale sono lunghi, ma non di tre giorni, non di quindici. Sono più
lunghi i rancori, femminili nel caso? O basta Berlusconi per mandarsi in
paradiso, anche se non ha più i denti? Certa sinistra si eccita ai roghi che
s’immagina.
Non
c’è solo l’Ucraina, anche la Scandinavia, dopo i Baltici, è minacciata. “Un attacco contro la Svezia non è da escludersi”,
dice il ministro svedese della Difesa, che ha anche un nome, Peter Huktqvist. Ci
sono stati dei droni a curiosare sopra una centrale nucleare, e la Marina svedese
si è messa in allarme. Si teme uno sbarco nemico, cioè russo, tre navi da
sbarco russe essendo entrate nel Baltico, che è peraltro un mare mezzo russo.
L’inverno
è rigido a Nord, ma scaldarlo con una guerra? Nucleare?
È
andata invece a lieto fine la vicenda del cavo sottomarino scomparso al largo
della Norvegia. È stato ritrovato a qualche km. di distanza, trascinato fuori
sede forse da un peschereccio. Che, questo non si dice, pratica la pesca a
strascico, proibitissima.
Quando il maschio era super
Una lettura, si direbbe, di attualità. Non c’entra con i femminicidi, con la
concezione moribonda e truce della maschilità: il papa di “Ubu” vuole sole
gonfiare la parola amore, in situazioni anche strambe. Ma tutte proietta dal
punto di vista dell’uomo. Un’anamnesi quindi utile in questa fase di eclisse maschile.
Per sapere com’eravamo, come avremmo potuto essere.
“’Il
supermaschio’, può essere letto in molti modi, tutti assolutamente legittimi.
Come sempre in Jarry, anche in questo racconto fantastico c’è tutto (o quasi) e
il contrario di tutto. C’è l’amore non corrisposto dell’uomo per le macchine, e
c’è la macchina per ispirare l’amore. Ci sono le fantasie dell’adolescenza,
riassunte nella frase con cui inizia il racconto: ‘L’amore è un atto senza importanza,
perché lo si può fare all’infinito’. C’è la donna, vista dapprima come preda e
accettata poi come rivale e come benevola padrona. Ci sono i limiti del
Progresso e quelli dell’uomo. C’è la passione di Jarry per gli sport. Ci sono,
lontani e sfocati sullo sfondo, il Superuomo di Nietzsche (‘Così parlò
Zarathustra’ è una delle opere-chiave di quegli anni) e Superman l’eroe dei
fumetti (che ancora non è stato inventato ma che ha in André Marcueil un suo
precursore). E c’è perfino, in filigrana, una storia d’amore: perché no? Una
banalissima e comunissima storta d’amore. Chi, almeno una volta nella vita, non
si è sentito supermaschio (o superfemmina)?”.
Così Sebastiano Vassalli, che ha prefato la seconda
edizione Bompiani del “Super Maschio”. La prima, per la collezione Il Pesanervi
dello steso editore, 1967, era “Super Maschio”, e la firmava Giorgio Agamben, venticinquenne, traduzione
e prefazione.
Alfred Jarry era
“piccolissimo di statura”, ricorda Savinio, “Scatola Sonora”, 77: “Abitava” a
Parigi “un appartamento che il suo padrone di casa, per ragioni di economia,
aveva tagliato a metà nel senso orizzontale”. Si entrava in casa sua curvandosi.
“Strano personaggio, che si
rappresentava da se stesso la commedia di un’esistenza letteraria spinta fino
all’eccesso”. Così lo presenta Rachilde, la temibile Marguerite Eymery, nel
mentre che gli dedicava tutto un libro, “Le Surmâle des lettres”, del papa di
Ubu professandosi “l’amica fedele e lucida”: “L’eccesso era tutto il suo regime”.
Alfred Jarry, Il supermaschio, Bompiani, pp. 147
domenica 30 gennaio 2022
Secondi pensieri - 472
zeulig
Esorcismo – È in realtà il fatto religioso. La
preghiera, la celebrazione, il formulario, anche il sacramentario. D i che? Di
chi? Dell’uomo-materia, dell’essere (vita) materia, che l’essere umano risente
come limite, vincolo, ostruzione, ostile,
Una via di fuga. Un’avventura. In un
altrove che è di sua fabbricazione.
Germania greca – È creazione recente e particolare, del seminario
di Tubinga: di Hegel che si proporrà di far rinascere la filosofia greca nella
filosofia tedesca, e del suo grande sodale Hölderlin, talmente immedesimato nell’antica
Grecia da far confluire non solo i destini nazionali ma anche la lingua tedesca
in quella greca – ionica? attica? Heidegger porterà all’ennesima potenza – un
diversivo, dovendosi riciclare dopo il nazismo? – l’identificazione, di Hegel
insieme con Hölderlin, che ripropone in quella chiave.
Eppure, Nietzsche
l’aveva spiegato, che, se davvero s’intende la Grecia, si sa che da tempo è
finita, e per sempre. Morto è senz’altro Socrate col socratismo, come il
giovane Nietzsche sapeva: l’intelligenza è decadente, la democrazia la
sospetta.
Nietzsche, che del
greco “conosci te stesso” disse: “Questi greci hanno molta roba sulla coscienza,
la falsificazione era il loro lavoro vero, e tutta la psicologia europea è
malata di superficialità greca”. Ma, filologo in cattedra, prese per greci i
Nibelunghi di Wagner, il classicismo può essere approssimativo fra i tedeschi,
che pure l’hanno inventato.
Del “professor Hegel” il “dottor Schopenhauer
dice: “L’autore butta lì le parole, il senso ce lo deve mettere il lettore”.
Mito - Il mito greco è poco greco: non sono amabili le mitologie, che
sono classificazioni, di dei e eroi che si ricordano per una sola azione, la
passione unica che è ripetizione, spaventosa.
Privilegio – “Etimologicamente, «privilegio» è una
cosa che avviene fuori della legge, senza la legge”, nota Sciascia, “Fuoco all’anima”,
30. È un vantaggio, una prerogativa (esclusiva), una posizione o un emolumento,
fuori della norma, e non regolata da leggi. Molti privilegi sono dei
giudici.
Religione
– È la prima fantascienza. La più fine, anzi sopraffina rispetto al genere
letterario, intelligenza artificiale compresa. Che si impone con l’incredulità.
Si
va dal più al meno. Da un sentimento elevato della vita a uno di bracci di
ferro, fino ai missili atomici, le droghe, e i corpi come telai meccanici. Anche
in funzione pedagogica, di nutrire “scarti di vita” (Primo Levi), questa
evoluzione è limitata e scadente.
Primo
Levi è di parere opposto (“Conversazioni e interviste”, 116): “La materia è
anche una scuola, una vera scuola Combattendo contro di lei si matura e si
cresce. In questo combattimento si vince o si perde e a volta a volta la
materia è sentita come astuta o come ottusa, senza che ci sia contrasto, perché
sono due aspetti diversi”. No, è lo stesso limite, la materia può essere metafisica,
ma è sempre limitata, un solido. Nella sua morbilità (degenerazioni, deperimenti,
disfacimenti) e anche nei suoi piccoli moti vitali (creativi).
Tolleranza
– È la ragione. “Tolleranza e ragione coincidono” è l’esito
della ricerca di Primo Levi sulle radici del male (“Conversazioni e interviste”,
168) - lunga, insistita indagine. È misura. E disposizione critica, delle proprie
idee e ambizioni comprese. Capace di contestualizzare.
Un
mondo di mondi ragionevoli – critici. Anche violento? Per ristabilire la misura
– la tolleranza non tollera la prepotenza. Da qui l’insofferenza per l’integralismo
delle minoranze che si impone.
Accettabile
nella misura. Fino cioè a che ristabilisce gli equilibri: il “razzismo
antirazzista” dell’ “Orfeo nero” di Sartre - che mai si cita, si cita solo
Fanon, il gesto repulsivo, anche se si fa integralista.
Traduzione
– Non si saprebbe trascurare in filosofia – soprattutto
in filosofia. Per la filosofia greca come per la tedesca, che a essa si vuole
affine, ma un po’ per tutta la filosofia, che opera per sottigliezze.
Si
prenda Heidegger: “La
rappresentazione storicizzante della storia come successione di eventi
impedisce di sperimentare in quale misura la storia vera è sempre, in un senso
pienamente essenziale, pre-senza”. Che sembra concetto intraducibile, e
quindi incomprensibile: la Gegen-wart è tutt’altra cosa da pre-senza,
il non-c’era-del-non-c’è, e non si può tradurre in altro modo. Ma pre-senza è avvenire, in quanto esigenza
dell’iniziale. Ciò che “ha una storia” è coinvolto nel divenire. Ciò che “ha
una storia”, egualmente, può “fare storia”. Storia significa inoltre la
totalità dell’ente, che col tempo muta e, distinguendosi dalla natura,
abbraccia le vicende e le sorti degli uomini. Infine, è “storico” pure il
tramandato come tale.
“Lo svolgimento della storia cade nel
tempo”, avrebbe detto Hegel: “Solo il presente è, il prima e il dopo non sono.
Ma il presente concreto è il risultato del passato ed è gravido di avvenire. Il
vero presente è quindi l’eternità”. Abbiamo storia solo se sin dall’inizio essa
diviene l’essenza della verità. La storia è avvento di ciò che non ha cessato
di essere. E il genitivo, nel caso, è soggettivo: avvento da parte di ciò che
non ha cessato di essere.
Essendo
Heidegger un filosofo tedesco, avrebbe l’obbligo a questo punto di aprire una
lunga parentesi, su “vero” e “concreto”, su “presente vero” e “presente
concreto”, su “essenza” e su “verità”. Nonché sulla traduzione, che è la vera
lettura, si sa, quella che riempie “i silenzi del testo”, direbbe Ortega y
Gasset, dal greco al tedesco, e dal tedesco alle altre lingue. Anche per il
dubbio, a fronte dello scarso ascolto in patria, che la sua filosofia sia opera
dei traduttori. I quali, i francesi per primi, stanchi o impossibilitati a
comprendere, a partire da Sartre (che però evitò la traduzione, e perfino la
citazione), tradurrebbero parola per parola, producendo nel suo campo filosofia
come una forra di giardini promiscui, dilettevoli per abbondanza, carnosità,
mistero, se non per le geometrie.
Umorismo
– Sciascia lo dice “una chiave di speranza”, a proposito
di Pirandello, e anche di Kafka: “Scoprire i risvolti comici della vita e
riderne, non è pessimismo” (“Fuoco all’anima”, 106-107). Dell’umorismo specificando:
“È il sentimento del contrario. Così dice Pirandello. Ogni cosa è rivoltabile.
Qualunque cosa ha il suo contrario; da qui il senso dell’umorismo. Heine lo
dice in modo più brutale: l’umorismo è mostrare il volto in lacrime e poi il
sedere!”.
Diverso
il comico: “L’umorismo è un sentimento, il comico è una situazione diversa, in
cui chi lo pratica prova un senso di superiorità rispetto a quelli che sono i
personaggi, gli oggetti della comicità. Nella rappresentazione del comico c’è sempre
qualche manifestazione di superiorità”.
Di
più Sciascia riprende Hobbes: comico è l’improvviso riconoscimento della nostra
superiorità sugli altri.
Altro
dall’umorismo è anche l’ironia, distingue Sciascia, il razionalista non si
permette che l’ironia: “Gli illuministi non conoscono l’umorismo, conoscono
l’ironia. …Il razionalismo non consente il capovolgimento umoristico. Il razionalismo
genera sempre il distacco dell’ironia. Perché la realtà non corrisponde alla
ragione” – id. 108.
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