Giuseppe Leuzzi
Il Sud senza magia
Non è molto che il Sud era terreno
privilegiato degli etnologi, etnografi e etno-folkloristi. Per ricerche sul
campo che si presentavano solidamente impiantate e esaustive, di spessore accademico.
In linea con gli studi su quello che allora si chiamava il Terzo Mondo: un mondo
arretrato, ai limiti del selvaggio - “primitivo” e “selvaggio” non erano parole
allora escluse. Ernesto De martino, “Sud e magia”, 1959, assortito da numerosi
studi paralleli su tarantismo, sanpaolari, guaritori, tra Puglia e Lucania, e “La
terra del rimorso. Contributo a una storia religiosa del Sud”, 1961. Annabella
Rossi, “Le feste dei poveri”, 1969, “Lettere da una tarantata”, 1970, “Miseria
e follia: il morso della tarantola”, 1971. Prima che il tutto fosse passato a “patrimonio
culturale” del Sud, alla storia del costume, da Lombardi Satriani, Cirese, Di
Nola, et al.
In quegli anni il Sud Italia era emigrato
al Nord, in Belgio, e in Svizzera, l’Italia aveva già digerito il boom, la
prima “ricchezza” di massa in secoli, anzi in millenni, e modernizzava lo
Stato, il diritto di famiglia, la scuola, l’università, i contratti di lavoro,
la conduzione agricola. “Entrando” nell’Europa, cioè avviando con Germania,
Francia e Benelux la nuova Europa, unitaria. Al Sud c’era la Cassa del Mezzogiorno
- istituto che si voleva esoterico, anche se moderno e ammodernante, per di più
contestato - e la magia.
Mentre venendo da fuori la prospettiva di
ricerca e gli esiti erano altri. Ann Cornelisen individuava il, matriarcato di
fatto (“Torregreca”, 1969). John (Hornsley Russell) Davis studiava la “Passatella”,
come un gioco economico, a struttura complessa, di management (“Passatella: an
economic game”, 1964). I Miller, Maria Gabriella e Roy A. studiavano il “comparatico”
come struttura di potere (“The Golden Chain”, 1978), o il ruolo non propriamente
subordinato della donna, in “Mamme, mammane, matrigne e madrine”.
L’unità e il nemico esterno
Ha
un paio di considerazioni illuminanti, nel suo arruffato “Massa e potere”, il centone
di tutte le possibili declinazioni del concetto di “massa”, Elias Canetti a proposito
degli italiani. Del fatto – non lo dice ma lo fa capire – che non vincono le
guerre. Le quali si vincono, ha spiegato subito prima, quando la nazione è
compatta, come può essere la Germania, che è la “foresta che camnmina” –
“la rigidità e il parallelismo degli alberi ritti, la loro densità e il loro numero
riempiono il cuore tedesco di gioia profonda e segreta”, come una battaglione,
un’armata, un esercito in evoluzione perfetta.
L’Italia
è sghemba, perché è difficile concepirsi una forza unita, essendo “le sue città
popolate di grandi ricordi e il suo presente è volutamente confuso con tali
ricordi”. Si può superare questo limite nel confronto col Nemico, ma che sia “Numeroso,
Deforme e Odioso”. Il favore all’unità era unanime, i plebisciti non sono
stati fantasiosi, gli italiani sempre si sono pensati Italia, un solo paese,
peraltro ben connotato geograficamente. E il presupposto del Nemico che unisce,
almeno al Sud, c’era, era il regime borbonico. Solo che il regime unitario, o
piemontese, non fu diverso, e anzi fu peggio – si favoleggia dei Borboni d
Napoli, non si favoleggia dei Savoia, per essere meschini, tutt’e tre o quattro
generazioni che l’Italia ha avuto. Con la leva obbligatoria, di cui non si mette
mai in luce l’odiosità per le popolazioni, l’appropriazione della manomorta (abolendo
i servizi sociali a essa collegati), l’immediata sopraffazione dei ceti parassitari,
corte, cortigiani, affaristi, di Destra e di Sinistra, della borghesia more
italico, arruffona dei privilegi pubblici, poco o nulla costruttiva, e in
pochi mesi il credito era andato eroso – le prime rivolte a Palermo sono del 1861.
La
scoperta del Sud
Croce
scoprì tardi il Sud. Negli anni 1910, già andava per i cinquanta, imbattendosi,
nel trasloco a palazzo Filomarino ora di sua proprietà, in un libro trascurato,
“Studi di diritto pubblico”, del giurista Enrico Cenni, che gli rivela un mondo.
Tanto da indurlo a studi furiosi, che si tradurranno in una serie di saggi, via
via pubblicati sulla sua rivista, “La critica”, e nel 1924 raccolti in volume,
col titolo “Storia del Regno di Napoli” – non “una” storia, ma alcuni aspetti
indagati. Lo spiega nella Introduzione del 1924 a questa “Storia”, ancora entusiasta.
Il “vecchio regno di Napoli” gli si trasfigura “non solo in no degli Stati più
importanti della vecchia Europa, ma in tale che aveva sempre tenuto, nell’avanzamento
sociale, il primato, o almeno uno dei primati”. Era una “monarchia civile,
fondata da Ruggiero, conservata e rassodata dai successori”, nella “semibarbara
Europa”. Era “uno Stato moderno, in cui il baronaggio era contenuto in istrtetti confini, ai popoli si garantiva
libertà e giustizia”, il governo era di “uomini capaci”, e ovunque sui promuoveva
“benessere e cultura”.
Questo
primato si è perso presto (per gli infausti Vespri siciliani – Croce li vuole “principio
di molte sciagure e di nessuna grandezza”). Ma il Regno del Sud “fu singolare e
venerando per il processo del suo svolgimento civile”.
Il saggio introduttivo
di Croce si segnala per fare radicale giustizia, nel 1924, della perdurante
teoria della feudalità al Sud, del Sud arretrato perché feudale: “La lotta
contro il sistema feudale…. nell’Italia meridionale venne combattuta assai
presto, e non con altre armi che la ragione e il diritto”. In dottrina e di
fatto “visse sempre l’idea del Comune, vi ebbero sempre vigore i iura
civitatis”, e i feudatari, quando vi s’insediarono, vi trovarono “già
costituito il demanio comunale”. I diritti furono sempre protetti: la “prammatica”
di Ferrante d’Aragona del 14 dicembre 1485, poi convalidata da due prammatiche
di Carlo V, è “la vera magna carta dei diritti del cittadino”.
Molte
sono le scoperte di “primati” che Croce fa della sua città di elezione e del suo
regno. “Non meno che contro il feudo, insigne fu la lotta che essa (l’Italia
meridionale, n.d.r.), cattolica e della sua fede osservantissima, sostenne lungo
i secoli per l’autonomia e l’autorità dello Stato contro le smodate pretese della
Curia romana” – “e, sempre senza cader mai in alcuna eresia, questo popolo
lottò con pari forza e trionfo per la libertà di coscienza contro il Sant’Uffizio
dell’Inquisizione, del quale non permise mai l’insediamento nella sua terra”. Masaniello
è “il primo esempio di una rivoluzione legale” in Europa”. Napoli e non Firenze – prima che si arrivasse a Roma – avrebbe meritato il titolo di capitale d’Italia,
per il suo avanzamento nella filosofia e nel diritto.
Napoli
Hedi Goodrich – americana cresciuta a Torre
Annunziata, scrive in Nuova Zelanda in italiano. Più spesso dei luoghi, le
persone e gli ambienti campani adottati dalla tarda adolescenza – dopo un
viaggio del tipo Erasmus. Napoli mantiene sempre un’attrattiva forte sui non
napoletani.
Pavese ha “una
faccia da napoli”, e “una suonata da napoli”, detto dal giovane protagonista,
torinese, de “Il compagno”.
“La frase di
Eduardo, «Fuitevenne» a me stava sulle palle”, dice il regista Capuano a Concetto Vecchio
sul “Venerdì di Repubblica”: “Oggi penso che avesse ragione”.
“Qual è il suo
rapporto con Napoli?”, chiede allora Vecchio a Capuano. “Come quello di un uomo
che si è innamorato di una zoccola “, è la risposta: “È un guaio, ma non posso farci niente”. I napoletani
stanno male a Napoli. Il romanzo di Napoli del Millennio del resto, “L’amica geniale”, è “storia
di chi fugge e di chi resta”. O ritorna, come ovunque.
Ha avuto nel
secondo dopoguerra i due maggiori armatori mondiali, Lauro, quando ancora si
viaggiava per mare e Napoli era l’approdo dell’Asia in Europa, e Aponte. Aponte
dal nulla, era solo un nullatenente diplomato dell’Istituto Nautico di Sorrento,
è divenato in quarant’anni il primo armatore al mondo nei container, il terzo nelle
crociere, un forte investitore in hub portuali – ne gestisce “oltre 60”.
Pergolesi,
Paisiello, Cimarosa, era un’altra Napoli a fine Settecento – e subito dopo
Rossini. Per committenza, e per genio locale.
Il sindaco degli anni 2010, De Magistris, ha lasciato la città con 5 miliardi di debito, cinque volte le entrate tributarie della città, cinquemilacinquecento euro per abitante. Dopo essersi immortalato con una campagna “No al debito ingiusto. Napoli libera”. Non è facile, evidentemente, liberare Napoli.
Il buco nelle finanze comunali è dovuto per 1,7
miliardi di euro al cumulo del debito anno per anno, e per una cifra molto più
rilevante, 2,2 miliardi, all’ultimo esercizio firmato De Magistris, che il
nuovo sindaco Manfredi, come è d’uso nelle aziende al cambio di management, ha
voluto evidenziato tutto subito, in ogni rivolo. Il buco nasce soprattutto dal
mancato pagamento delle imposte, che si mettono in budget secondo le regole, ma
secondo le “regole” locali non si pagano.
Il più curioso è il mancato pagamento della Tari: è
uniforme in tutti i quartieri, e ammonta al 60 per cento del dovuto. Napoli si
vuole sporca, o si pretende immacolata?
leuzzi@antiit.eu