sabato 26 febbraio 2022
Ombre - 603
Si entra oggi in guerra dal vero, senza più angoscia. L’angoscia di vedere ragazze e ragazzi spavaldi, in posa armata, e scene incongrue. Un vaffa in inglese alla flotta di Putin, un carro armato che devia per schiacciare un’automobile ferma, un palazzo di sei piani bombardato di fronte al quale un ragazzo si dondola sull’altalena, un anziano porta a spasso il cane. Immagini pubblicitarie.
Putin
preparava da novembre l’invasione dell’Ucraina, dalla Russia, dalla Bielorussia
e dal mar Nero, e Kiev si occupava delle cause tra il presidente Zelensky e il
predecessore Poroshenko. Poroshenko ha denunciato Zelensky alla Corte Suprema
per “inazione illegale”. La Corte Suprema ha (aveva) convocato Zelensky per
lunedì prossimo. Poroshenko vuole (voleva) da Zelensky le prove dell’accusa di
avere fatto affari con i separatisti russi del Donbass.
Si è
inneggiato, si inneggia, in Ucraina alle “rivoluzioni” di piazza Meidan del
2004 e del 2014, contro presidenti eletto perché russi o russofoni. Per poi
umiliare i russi o russofoni, da sempre ucraini, un buon quarto della
popolazione. A favore peraltro di politici affaristi, Timoshenko, Poroshenko, e
naturalmente il filorusso Janukovich.
Si
dice che Janukovih fu cacciato nel 2014 perché aveva bloccato l’accordo con la
Ue. Ma è stata l’Europa a bloccare l’accordo: troppo affarismo e poca democrazia.
Lo stesso la Nato.
Vivace
come sempre Francesca Porcellato, senza gambe dall’età di due anni, maciullata da
un camion, ora campionessa paraolimpica, ricorda dell’istituto romano dove era
confinata bambina per la riabilitazione: “Tutti mi volevano bene. Le infermiere
chiedevano alla superiora di portarmi a dormire a casa loro, roba che oggi
finirebbero in galera”. La legge è inflessibile – questo solo si può dire delle
leggi.
Si susseguono
gli sgarbi a Ursula von der Leyen, gentile, bella e brava baronessa presidente
della Commissione Europea a Bruxelles. Dopo quello di Erdogan, che non la fece
sedere, ora un ministro africano evita di stringerle la mano. Maleducazione mussulmana,
ma questo non conta – è scontata. Il fatto è che in entrambi i casi si è preso
gli onori un certo Michel, uno che è stato eletto presidente del Consiglio
europeo. Un evidente cretino. Il meglio che ha l’Europa.
Si fa
grande caso delle inchieste sulla contabilità delle squadre di calcio, Ma era materia
già nel 2005 di un dossier della Procura di Roma. Sugli scambi e le compravendite
di calciatori illustri sconosciuti, che mai giocano. A che effetto?
L’unica
differenza è che allora c’erano dentro tutti ma non i grandi club, Juventus,
Inter, Milan.
“La
comunità scientifica, della quale faccio parte”, confessa infine il direttore
dell’Istituto Mario Negri, Giuseppe Remuzzi, a Marco Imarisio sul “Corriere della
sera”, ha un’enorme responsabilità nel disastro di questi due anni”. Del covid.
Un’infezione di cui si sapeva tutto, tutto su “Lancet” il 24 gennaio 2020,
“invece abbiamo perso tempo, almeno quattro settimane”. Il “tradimento dei tecnici”
fa ormai un secolo (intellettuale, politico, nucleare, chimico, alimentare, climatico),
ma si vuole che la salvezza venga dai tecnici.
Un
mese dopo l’inizio della pandemia, a ospedali già pieni, Atalanta-Valencia si
gioca a San Siro per avere più spettatori. Remuzzi c’era: “Pensi che non andavo
allo stadio da vent’anni”. Le lusinghe del male.
“Siamo
più forti, lo zar non passerà”, grandi titoli, molte pagine per gli incondizionali
ucraini, il giorno prima dell’invasione. Celebrati come patrioti, “i reduci” di
piazza Meidan. Si celebrano – si celebravano il giorno prima - i nazionalisti
che hanno perso l’Ucraina. Quelli della crociata contro gli ucraini russi, un
quarto della popolazione. Spinti e finanziati, a piazza Meidan e dopo, dall’“Occidente”.
Come dire: andate a farvi ammazzare.
Lucia Joyce, viittima della madre
La
vita di Lucia Joyce è un romanzo. Terrificante. Un caso da manicomio di
conflitto madre-figlia. Rifiutata alla nascita dalla madre, che continuò ad
allattare Giorgio, nato due anni prima. E quando in uno dei tanti litigi Lucia
la colpì con una sedia, la fece internare - la richiesta di internamento è
firmata da Giorgio. Il padre, per quanto amorevole, non riuscì a proteggerla.
Morirà nel 1982, a 75 anni, una quarantina dei quali in manicomio, trascurata
del tutto dopo la morte del padre: dagli zii Joyce, dalla madre, dal fratello,
dal nipote Stephen, erede dei diritti (seppe della morte del padre dai
giornali).
Un
romanzo che però non si scrive, pur nel femminismo ritornante delle ultime
generazioni – il matricidio non è tema freudiano, psicoanalitico, femminista? E
sì che Lucia è personaggio avvincente, anche piccante. Una sola biografia ne è
stata tentata, vent’anni fa, in America, da una specialista di letteratura
irlandese, Carol Loeb Shloss, “Lucia Joyce: to Dance in the Wake”, non
tradotta, non più riedita. Fa sempre testo la vecchia biografia di Joyce di
Richard Ellmann, apparentemente minuziosa ma basata sulle narrazioni di Giorgio
e di suo figlio Stephen, quelli cui si deve la damnatio di Lucia. Lucia
vi ricorre sempre psicopatica. “Mandò a monte la festa del compleanno del 2
febbraio 1932 picchiando la madre, e l’internamento in una clinica si rese
obbligatorio”. E all’ultima pagina: “Si comunicò la morte del padre a Lucia che
non volle crederci, e quando Nino Franck l’andò a trovare disse: «Che sta
facendo sottoterra quell’idiota?» - come Franck, che in nota diventa Frank,
avrebbe comunicato a Ellmann in conversazione (della visita si hanno altre,
discordanti, relazioni), mentre si sa che la cosa non fu comunicata a Lucia.
Il
“Wake” della biografia di Lucia rimanda a “Finnegans Wake”, che molto deve a
Lucia, al suo mistilinguismo, più inventivo di quello del padre, e
caratterizzante, come naturale. I punti d’interesse sono insomma tanti,
letterari oltre che passionali, critici, filologici. Ma gli studiosi di Joyce
la trascurano anche loro volentieri, pur valutando solitamente con perspicuità
il rapporto del padre con la madre, la ex cameriera d’albergo – che Joyce non
volle mai sposare, malgrado la tante e insistenti pressioni familiari.
Francesca
d’Aloja abbozza un ritratto fantasticato, innamorato, di Lucia nella raccolta
“Corpi speciali”. Un po’ di fantasia, ma con paletti solidi in difesa della
poveretta – nomen omen? è ben un nome manzoniano che il padre italianista
le ha dato, Lucia. E ne immerge correttamente la disgrazia nel contesto
familiare, impietoso. Il nipote Stephen, figlio di Giorgio, l’erede che si è
fatto odiare per mezzo secolo da tutti i joyciani, ha distrutto “tutti i
documenti riguardanti Lucia Joyce: le lettere, i diari, i disegni, le poesie, i
referti clinici, le fotografie, e addirittura un memoir da lei scritto in
manicomio dal titolo ‘La vera vita di James Joyce’, redatto in italiano, la
prima lingua imparata e studiata da Lucia” – con la quale corrispondeva con il
padre James, a giudicare dalle lettere di quest’ultimo, non distrutte.
Folle
di fatto è stato Stephen, il figlio di Giorgio, altro romanzo, seppure non
drammatico. Lo stesso, liquidatorio, Ellmann annota che
“le stranezze di comportamento” di Lucia emergono nel 1929, quando il fratello
Giorgio si fidanza con Helen Kastor Fleischman - di undici anni più vecchia del
fidanzato: i due fratelli erano molto legati (se non in rapporti incestuosi,
opina Shloss). Prima “ai ricevimenti era allegra e loquace”, scrive il biografo
autorizzato, “e talvolta imitava Charlie Chaplin con i pantaloni cadenti e il
bastoncino”. Charlot e Napoleone erano i suoi personaggi preferiti, si quali aveva
dedicato ai diciassette anni un articolo che una rivista belga, “Le Disque
Vert”, pubblicò, con una breve nota di Valéry Larbaud. Disastrata a scuola dai continui
trasferimenti paterni, ebbe molti interessi extracurricolari. Studiò piano per
tre anni, a Zurigo e Trieste, canto a Parigi e Salisburgo, disegno a Parigi,
alla Académie Julian. A Parigi soprattutto aveva studiato danza – “con un
impegno che eguagliava quello paterno”, deve dire Ellmann, “aveva studiato sei
ore al giorno, dal 1926 circa al 1929”. Secondo varie scuole, di vario
indirizzo - i metodi Jacques-Dalcroze (svizzero), Jean-Borlin (svedese), Madika
(ungherese) –
, e con vari
maestri: Raymond Duncan, fratello di Isadora, un personaggio, pacifista, vegetariano, capelli
lunghi sulle spalle, sandali ai piedi, tunica; madame Egorova – Liubov
Nikolaievna, ex Balletti Russi; Lois Hutton e
Hélène Vanel (ritmo e colore); Margaret Morris (danza moderna). “Come
danzatrice”, ammette Ellmann, “Lucia, alta, snella e aggraziata, aveva
raggiunto uno stile assai personale”. Varie esibizioni sue sono state
registrate. Alla Comédie des Champs-Elysées in tre riprese: il 20 novembre 1926
nel “Ballet Faunesque” di Lois Hutton, il 19 febbraio 1927 in “Vignes sauvages”,
il 18 febbraio 1928 in “Le Pont d’or”, un’operetta buffa musicata da Émile
Fernandez. Con la stessa compagnia danzò anche a Bruxelles. Al Vieux Colombier
aveva partecipato il 9 aprile 1928 al balletto “Prétresse Primitive”. L’ultima
esibizione, il 28 maggio 1929, al Bal Bullier, fu un trionfo: arrivò seconda in
una competizione coreutica, entusiasmando il padre, che raccontò della platea
che voleva assolutamente e solo l’Irlandaise”. Era il ballo in costume d’argento
a forma di sirena, che aveva disegnato lei stessa, che entusiasma D’Aloja.
Francesca
d’Aloja, Odissea di sofferenza. La triste vita di Lucia Joyce, online
Un romanzo che però non si scrive, pur nel femminismo ritornante delle ultime generazioni – il matricidio non è tema freudiano, psicoanalitico, femminista? E sì che Lucia è personaggio avvincente, anche piccante. Una sola biografia ne è stata tentata, vent’anni fa, in America, da una specialista di letteratura irlandese, Carol Loeb Shloss, “Lucia Joyce: to Dance in the Wake”, non tradotta, non più riedita. Fa sempre testo la vecchia biografia di Joyce di Richard Ellmann, apparentemente minuziosa ma basata sulle narrazioni di Giorgio e di suo figlio Stephen, quelli cui si deve la damnatio di Lucia. Lucia vi ricorre sempre psicopatica. “Mandò a monte la festa del compleanno del 2 febbraio 1932 picchiando la madre, e l’internamento in una clinica si rese obbligatorio”. E all’ultima pagina: “Si comunicò la morte del padre a Lucia che non volle crederci, e quando Nino Franck l’andò a trovare disse: «Che sta facendo sottoterra quell’idiota?» - come Franck, che in nota diventa Frank, avrebbe comunicato a Ellmann in conversazione (della visita si hanno altre, discordanti, relazioni), mentre si sa che la cosa non fu comunicata a Lucia.
Il “Wake” della biografia di Lucia rimanda a “Finnegans Wake”, che molto deve a Lucia, al suo mistilinguismo, più inventivo di quello del padre, e caratterizzante, come naturale. I punti d’interesse sono insomma tanti, letterari oltre che passionali, critici, filologici. Ma gli studiosi di Joyce la trascurano anche loro volentieri, pur valutando solitamente con perspicuità il rapporto del padre con la madre, la ex cameriera d’albergo – che Joyce non volle mai sposare, malgrado la tante e insistenti pressioni familiari.
Francesca d’Aloja abbozza un ritratto fantasticato, innamorato, di Lucia nella raccolta “Corpi speciali”. Un po’ di fantasia, ma con paletti solidi in difesa della poveretta – nomen omen? è ben un nome manzoniano che il padre italianista le ha dato, Lucia. E ne immerge correttamente la disgrazia nel contesto familiare, impietoso. Il nipote Stephen, figlio di Giorgio, l’erede che si è fatto odiare per mezzo secolo da tutti i joyciani, ha distrutto “tutti i documenti riguardanti Lucia Joyce: le lettere, i diari, i disegni, le poesie, i referti clinici, le fotografie, e addirittura un memoir da lei scritto in manicomio dal titolo ‘La vera vita di James Joyce’, redatto in italiano, la prima lingua imparata e studiata da Lucia” – con la quale corrispondeva con il padre James, a giudicare dalle lettere di quest’ultimo, non distrutte.
Folle di fatto è stato Stephen, il figlio di Giorgio, altro romanzo, seppure non drammatico. Lo stesso, liquidatorio, Ellmann annota che “le stranezze di comportamento” di Lucia emergono nel 1929, quando il fratello Giorgio si fidanza con Helen Kastor Fleischman - di undici anni più vecchia del fidanzato: i due fratelli erano molto legati (se non in rapporti incestuosi, opina Shloss). Prima “ai ricevimenti era allegra e loquace”, scrive il biografo autorizzato, “e talvolta imitava Charlie Chaplin con i pantaloni cadenti e il bastoncino”. Charlot e Napoleone erano i suoi personaggi preferiti, si quali aveva dedicato ai diciassette anni un articolo che una rivista belga, “Le Disque Vert”, pubblicò, con una breve nota di Valéry Larbaud. Disastrata a scuola dai continui trasferimenti paterni, ebbe molti interessi extracurricolari. Studiò piano per tre anni, a Zurigo e Trieste, canto a Parigi e Salisburgo, disegno a Parigi, alla Académie Julian. A Parigi soprattutto aveva studiato danza – “con un impegno che eguagliava quello paterno”, deve dire Ellmann, “aveva studiato sei ore al giorno, dal 1926 circa al 1929”. Secondo varie scuole, di vario indirizzo - i metodi Jacques-Dalcroze (svizzero), Jean-Borlin (svedese), Madika (ungherese) –
venerdì 25 febbraio 2022
Problemi di base russi - 685
spock
E dopo l’Ungheria,
la Cecoslovacchia, l’Afghanistan, la Georgia, l’Ucraina?
Sono i russi
che ce l’hanno col mondo, o il mondo coi russi?
O Putin vuole
imitare l’America, che sempre libera il mondo?
Anche l’Africa
ora, dalla Libia al Mali, mentre l’America cannoneggia a Mogadiscio?
Ma è a Kiev per
che fare, non dovrà sfamare tre milioni di persone?
Vuole
processare Zelensky per non essere processato?
E chiama alla
rivolta i generali, gente d’ordine – oppure i colonnelli?
Sempre i russi
processano, con confessione inclusa: è un vizio?
spock@antiit.eu
La contessa garibaldina a Parigi
La foto di copertina di Benedetta Craveri
dice tutto, la schiena nuda profferta della contessa. Una donna anticonformista,
che si vorrà “madre della patria”, come i giovani morti nelle guerre del
Risorgimento, lei a letto con Napoleone III, agli ordini di Cavour, cugino del
marito: una garibaldina, seppure da letto, un’insurrezionista, un’eroina. Era invece
una donna alta e bella già a 17 anni, che l’avvenenza esibirà per altri quarant’anni,
i più a Parigi, naturalmente. Disinibita, questo certamente. Come, due generazioni
dopo, Teresa Casati Stampa, “la marchesa Casati” di cui perfino Kerouac si infatuerà
nel ricordo, oppure a Parigi Colette, da sola e con le amiche di letto, famosa la
duchessa di Clermont-Tonnerre.
Valeria Palumbo, che la biografia svolge
seccamente, in forma di saggio, lo dice subito, con un’istantanea: “Parigi, 16 aprile 1863: Virginia Oldoini, Contessa di
Castiglione, accetta di comparire in un tableau vivant in una serata di
beneficenza per le scuole di San Giuseppe. A organizzare è la contessa
Stéphanie Tascher de La Pagerie, cugina di Napoleone III. I quadri viventi sono
la gran moda del momento”, coinvolgono i borghesi con gli aristocratici e i
futuri intellettuali, quello che sarà “le tout Paris”, ignari o incuranti della
catastrofe in arrivo a Sedan – “la Francia sta per cadere in un baratro….. Ma
ci sta per cadere ballando”. Fuori ne viene, come Palumbo sintetizza in copertina, “la più bella e la più spregiudicata delle dame alla corte di
Napoleone III, perversa fin da ragazza, agente di Cavour, amica dei potenti,
avida, passionale, la belle dame sans merci, speculatrice in Borsa,
alleata dei Rothschild, presto appassita, pazza…”
Benedetta Craveri, esumatrice di tante figure
sette-ottocentesche francesi, ne fa la storia nel contesto, italiano e francese. Ma soprattutto, aiutata da molte
lettere della donna, che ha dissotterrato in archivi francesi e italiani, e
utilizza, ne fa una sorta di donna liberata. Di un tipo particolare: intelligente
oltre che bella, audace, manipolatrice, cinica, ma – sembra chiedersi la
biografa – poteva fare altrimenti? Di questo grande lavoro di scavo si gode il fascino
bibliografico, archivistico, come curiosare in casa d’altri, nell’intimità.
Parigi era un palcoscenico, e le belle
dame vi si esibivano, con profumo di scandalo – allumeuses, horizontales,
anche démi-mondaines. Si liberavano giocando all’erotismo – più detto
che fatto. La contessa vi si distinse per la fotogenia: si organizzò oltre
quattrocento ritratti, e fu la prima, la profusa e la meglio addict del
nuovo mezzo, l’immagine chimica. Arrivista, si seppe anche amministrare, prolungando
la stagione della fama.
La contessa era odiata, anche questo è un
fatto, dall’imperatrice Eugenia, donna bella anch’essa e carattere forte (sarà
la madre-musa di Proust, e di più del grande amore di Proust, Lucien Daudet), e la cosa può confermare che sia stata effettivamente l’amante di Napoleone III.
Ma l’imperatrice era papalina e antitaliana, e questo bastava per non amare la
Castiglione, la “cugina di Cavour”.
Virginia era stata a Parigi a 19 anni, nel
1856, due dopo il matrimonio, ci tornerà definitivamente nel 1861, a 24 anni –
a unità già fatta, le date con concordano con la “madre della patria”. Scelse
Parigi in quanto “capitale della moda e dei piaceri”. In fotografia si diletta
di pose elaborate e sceneggiate, da fotoromanzo, e da eremita, dogaressa, paludata
vittima di assassinio (o assassina, per quanto paludata?). La foto e la posa sono
le uniche passioni sicure che si sanno di lei – anche dopo lo scavo della
corrispondenza inedita operato da Craveri. Per la cura di Delessert, Pierson e
altri fotografi alla moda. Col solo Pierson, fotografo di corte, nei quarant’anni
che visse a Parigi, si fece quattrocento ritratti. Più di quattrocento. Anche mezza nuda, ma soprattutto in costume: da
dogaressa, regina d’Etruria, carmelitana, o da personaggi di romanzi e di
opere. Una forma esasperata di narcisismo, doppiata dalla schizofrenia: una
ricerca nevrotica della propria
personalità e della propria alterità, l’ uno, nessuno e centomila – non c’è
caso analogo nella storia della fotografia di autoritratto in travestimento,
eccetto che per quattro nomi del Novecento, Claude Cahun, Sophie Calle, Cindy
Sherman, e Molinier, un uomo che voleva essere donna. Degli innumerevoli ritratti
di Pierson, d’altra parte, l’autrice è lei stessa, posa, luci, taglio, abbigliamento, soggetto o story – il fotografo è solo l’operatore.
Inventa anche il corpo come oggetto
d’arte - nella storia della fotografia ha un posto sicuro. Da ammirazione o invidia più che da diletto. Tanto meno a buon
mercato, sia pure per la diplomazia di un conte che farà l’Italia. Come immortalata
nel quadro di Watts: denti bianchi, tinte forti, vita e petto eccezionali – la
contessa non portava reggiseno, almeno così faceva sapere. Le gambe ha fatto modellare
in terracotta, Carrier-Belleuse le ha scolpite.
In entrambe le
narrazioni il racconto si propone di rendere giustizia a Virginia Castiglione come a
tutte le donne. Che facevano, dice Palumbo, allora la diplomazia parallela un
po’ in tutta Europa, salvo non ottenerne alcun riconoscimento, che invece
andava agli uomini. Per esempio al bel Costantino Nigra, che sempre Cavour infiltrava
a corte, naturalmente presso l’imperatrice Eugenia. Ma forse Nigra era altro –
l’imperatrice non aveva amanti, e comunque era pur sempre papalina. I problemi
o squilibri psicologici di cui Virginia Castiglione fu presto vittima è arduo
farli risalire al maschilismo dell’epoca, a Cavour o a Napoleone III – all’imperatore
forse sì, ma per essersi lasciato battere nel 1870, e quindi caciare, chiudendo
la corte, il palcoscenico: la contessa
non aveva rivalse, folleggiava di suo.
Benedetta Craveri, La contessa.
Virginia Verasis di Castiglione, Adelphi, pp. 452, ill, € 24
Valeria Palumbo, La donna che osò amare se stessa. Indagine sulla contessa di
Castiglione, Neri Pozza, pp. 176 € 18
giovedì 24 febbraio 2022
Cronache dell’altro mondo – belliche (174)
Conferenza stampa serena, quasi sorridente, del presidente Biden sull’attacco
russo all’Ucraina.
Il presidente insiste sulle sanzioni, che “faranno molto male alla Russia”.
Dice anche che tutto il mondo è con gli Stati Uniti contro la
Russia Ucraina. Ma della Cina specifica: “In questo momento non psso parlarne”.
Dell’India, che tradizionalmente è stata appoggiata da Mosca sui
contenziosi col Pakistan, dice: “Non abbiamo avuto modo di parlarne col governo
indiano”. Mentre il premier pakistano, di un paese sempre appoggiato dagli Stati
Uniti in questo dopoguerra, è andato a Mosca stamani, il giorno dell’attacco.
Il fallimento europeo
Bastava restare agli accordi di
Minsk, 2015, e la crisi in Ucraina si sarebbe risolta senza guerra? È possibile.
Con vantaggi per Kiev, e soddisfazione a Mosca. Con vantaggio, enorme, per l’Europa,
che avrebbe celebrato il suo primo successo di politica estera.
Stante il marcato disinteresse di Obama
per gli affari europei, gli accordi furono opera di un “quartetto” europeo: Angela
Merkel, il presidente francese Hollande, Putin e il primo ministro ucraino
Poroshenko. Biden c’era all’epoca, era vice di Obama. E ne condivideva il benign
neglect verso le diatribe europee.
Gli accordi, non applicati per non si sa quale motivo, sono ora il
più grave scacco dell’Europa. Anche perché sarà l’Europa a pagare, dopo l’Ucraina,
la guerra di Putin. Almeno in termini economici: con le sanzioni (mancati affari),
col rincaro del petrolio e del gas, olio all’inflazione, e con qualche problema
di approvvigionamento, anche se siamo quasi fuori dall’inverno. per farsene un'idea, basta pensare al
danno delle due maggiori banche italiane, Intesa e Unicredit, molto presenti e
attive in Russia.
La sindrome serba
Sarà un’altra guerra che “non ha
avuto luogo”, come il sociologo francese Baudrillard disse famosamente quella
del Golfo? Come quella di Putin alla Georgia nel 2008? Una guerra “non ha luogo”
quando è fra schieramenti così sproporzionati che non si può dire guerra? È possibile,
dopo il non intervento annunciato dagli Stati Uniti e dalla Nato.
È dunque una guerra per “dare una
lezione” all’Ucraina? Dopo quella di otto anni fa, con la sottrazione all’Ucraina
fervente antirussa della Crimea? È possibile: ora si creerebbero due staterelli
cuscinetto nel Donbass, il Sud-Est dell’Ucraina, le due “repubbliche popolari”
di Luhans’k e Donets’k, come nel 2008 furono
create dalle truppe russe le due piccole repubbliche separatiste al Nord della
Georgia, Abkhazia e Ossezia del Sud.
Putin è accreditato di una sindrome anti-occidentale,
sia l’Occidente la Germania nazista o la Nato. Questo non si direbbe, essendo lui
stato il capo russo che più ha cercato di farsi accettare nel G 7, il vertice occidentale
- si è ventilato perfino di un’adesione della Russia alla Nato. E uno che, scontando il niet americano, non fa che proporre patti di reciproca sicurezza in Europa. È però molto “russo”.
Ha cioè la coscienza di avere sconfitto Napoleone e Hitler – quando l’Europa
era adagiata sotto il tallone di Napoleone e di Hitler: un liberatore (le prime notizie dell’attacco all’Ucraina
stanotte sono state accompagnate sulle tv russe dalla proiezione di film della
guerra vittoriosa contro Hitler). E soffre
la sindrome Serbia, gli slavi del Sud così vicini al patriarcato russo, come
dimostra il suo attaccamento, da non credente, alla chiesa ortodossa. Della guerra Nato contro la Serbia nel 1999, due
mesi di bombardamenti con missioni quotidiane, ha ricordato recentemente: “Una
sola capitale è stata bombardata in questo dopoguerra”, con riferimento a Belgrado,
“e non siamo stati noi”. E denuncia non senza ragione il perdurante nazismo europeo antirusso - la Russia considerando quella che impedì il trionfo di Hitler: Kiev, il presidente Zelensky o chi per lui, combatte nel Donbass gli ucraini russofoni con i volontari nazisti di mezza Europa.
Putin teme l’ostracismo
delle comunità russe variamene sparse nell’ex impero zarista e sovietico (una molto importante, mezzo milione è tra Lituania e Polonia, una exclave, Kaliningrad, la Koenigsberg di Kant, porto importante sul Baltico), come
è avvenuto nell’ex Jugoslavia alle aree serbe e serbofone. Lo ha accettato nei paesi
baltici, per piccoli numeri, non lo ha accettato in Moldavia, dove ha costituito
la Transnistria, e nella stessa Ucraina già con la Crimea - una ipotesi che si fa sugli obiettivi della guerra oggi in Ucraina è che Mosca non si accontenti dei sue staterelli del Donbass ma punti a un corridoio tutto russo sul Mar Nero, che colleghi cioè la Russia alla Transnistria, comprendendovi anche Odessa.
Le tribù slave sono molto unite e
molto divise – molto tribali. Il maresciallo Tito, croato, fece grande la
Serbia nella Jugoslavia. La Russia sovietica è stata fatta grande da Stalin, un
georgiano (nemmeno slavo, quindi), e da Krusciov, un ucraino - fu di Krusciov l’ultima
grandeur sovietica, l’illusione del “sorpasso”, nello spazio e nell’economia.
Disciolta l’Urss, le minoranze slave, invece di essere riconoscenti per avere
beneficiato del federalismo sovietico, si rivoltano contro la Russia.
La Nato non c’entra
La Nato si è subito tirata fuori dalla
guerra in Ucraina. Nella preparazione dell’attacco la propaganda russa ha fatto
molto caso dell’allargamento della Nato all’Ucraina. Ma senza fondamento.
La Nato su una frontiera enorme e
bene incuneata nella Russia come quella con l’Ucraina, sì, è una minaccia. Ma ci
sono dei limiti all’espansione della Nato, a Putin certamente noti. Di diritto,
negli statuti della stessa organizzazione. E di opportunità. Già negli assetti postbellici,
malgrado la virulenza della “guerra fredda”, paesi molto importanti hanno
scelto, in ambito occidentale, di restare fuori della Nato, la Svezia e la
Finlandia.
Ora la Nato è già alle frontiere
russe. Estonia e Lettonia sono entrate nella Nato ancora prima di entrare (fare
domanda di entrata) nell’Unione Europea. Quando invece ci ha provato la Georgia nel 2008
la Russia ha fatto in breve e in piccolo quanto si appresta a fare in Ucraina: ha
riconosciuto le due piccole repubbliche separatiste (che aveva creato), Abkhazia
e Ossezia del Sud. Ma questo avveniva –
limiti di diritto – mentre la Nato respingeva la candidatura della Georgia, e
dell’Ucraina, in ragione dei loro problemi interni: la Nato non può per statuto
accettare membri con guerre civili in corso.
Il problema, insomma, non è la
Nato.
L'amicizia è buona e fa bene
Un sequel e il remake di
“C’eravamo tanto amati”, 1974, il capolavoro di Ettore Scola. Un obiettivo
difficile, ma che, rivisto, prende una sua consistenza.
L’originale era una storia
generazionale, dei personaggi e dell’Italia, in anni più vivaci e più remoti
nella memoria comune – di rimozione più rapida. Negli anni di Muccino, a partire
dal 1982, è un com’eravamo che sa molto di come siamo. Questa però è una storia
di amicizia, più intimista, fra quattro ragazzi che crescono e hanno vite
diverse, si lasciano, si picchiano, e si ritrovano. L’Italia è più grigia, ma i
quattro, nella loro incarnazione adolescenziale e in quella matura, sono
credibili e gradevoli. Con un giusto ritmo, una giusta misura fra il serio e il
comico, anche per la bravura dei quattro, Favino, Ramazzotti, Rossi Stuart,
Santamaria.
Gabriele
Muccino, Gli anni più belli, Rai 1, Raiplay
mercoledì 23 febbraio 2022
A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (484)
Giuseppe Leuzzi
Il bilancio
del governo per il 2022 ha dovuto stanziare 2,67 miliardi per finanziamenti di
emergenza ai Comuni di Torino, Napoli, Reggio Calabria e Palermo, per evitarne
il fallimento. A fronte di un impegno dei Comuni ad accrescere l’addizionale
Irpef oltre il tetto dell’8 per mille previsto dalla legge. Quindi ci saranno
nuove tasse comunali. Senza che si veda in alcun modo un qualche effetto
dell’eccesso di spesa, a Reggio Calabria sicuramente, dissestata e sporca. e
anche a Napoli.
Di
Sebastiano Vassalli, lo stesso che da ultimo si professava leghista (“Ammiro
Umberto Bossi, un Davide padano” - “Corriere della sera” 13 agosto 1996), la
vedova di Leonardo Sciascia, Maria, intervistata dallo stesso giornale un anno
prima, ricordava. “Penso alla rabbia di mio marito davanti a un’edizione
scolastica de ‘Il giorno della civetta’. Censurata a sua insaputa proprio da
Sebastiano Vassalli”. Un’edizione dello stesso editore – fortunato, ogni novità
dello scrittore riempiva le librerie - di Sciascia, Einaudi: “Leonardo protestò
e in casa editrice gli chiesero scusa”. La casa editrice, non Vassalli.
Montanelli editore di Alvaro e Pirandello
Poche settimane prima di morire, Montanelli dedicava il 29 maggio 2001 la sua
“stanza” sul “Corriere della sera” all’amicizia con Alvaro. Alla sua stima di
Alvaro, della sua “scultorea prosa”, più che all’amicizia. Un “pezzo”
tralasciato nelle varie raccolte di Montanelli, che è utile rileggere:
“Caro Orlando (un lettore di Melito Porto Salvo, che lo
sollecitava, n.d.r.),
Non mi parli di «dimenticati». In questo Paese senza memoria lo siamo, o siamo
avviati a diventarlo, tutti. Di Alvaro, non posso dire di essere stato un
grande amico per due motivi. Anzitutto perché c’era, tra lui e me, una notevole
differenza di età. Eppoi perché lui non era facile alla confidenza e alla
familiarità.
“Nato, come lei sa, in una famiglia poverissima del profondo Sud
calabrese, una volta mi raccontò di essere cresciuto a una stretta dieta di
pane e olive. Non esagerava di certo: Alvaro era incapace d’inventare. E
nemmeno giocava alla vittima: era quasi per tutti così, mi disse, al suo paese.
E l’unica cosa che questo passato gli aveva lasciato addosso era la paura che a
lui e ai suoi figli il pane e le olive venissero a mancare.
“Ho sempre sentito dire che Alvaro fu, alle sue prime armi di scrittore,
aiutato con qualche sussidio dal ministero fascista della Cultura Popolare, il
famoso Minculpop, e non mi stupirei, né tanto meno mi scandalizzerei, se fosse
vero. Quell’organo istituito soprattutto per controllare e, all’occorrenza,
censurare, aiutò moltissimi giovani a sbarcare il lunario commissionandogli
qualche lavoro d’occasione. Ma non ho mai saputo che ce ne siano stati di
Alvaro, oltre tutto incapace di chiedere favori.
“La nostra amicizia nacque per corrispondenza quando, relegato in Estonia come
«lettore» d’italiano all’Università di Tartu, un editore locale mi chiese se
potevo consigliargli un romanzo italiano da tradurre in quella impossibile
lingua. Gli dissi senza esitare: «Gente in Aspromonte», e presi incarico di
comunicarlo all’autore e di fargli la prefazione. Alvaro me ne fu gratissimo.
Quando tornai a Roma venne subito a trovarmi, e mi chiese come mai avevo
consigliato quel libro suo. «Perché - dissi - non lo reputo da meno de ‘I
Malavoglia’ di Verga». Mi guardò incredulo, ma capì che lo avevo detto sul
serio. M’invitò a casa sua, una casa che, come mobilio, sembrava spiantata da
quella della sua casa calabrese, tanto era agreste e disadorna («Speriamo -
pensai - che non tratti anche me a pane e olive», ma ci mancò poco).
“Poco tempo dopo, uscì il suo ‘L’Uomo è forte’, il romanzo che,
svolgendosi in un Paese a regime comunista, sembrava implicarne una condanna in
gloria di quello fascista. Nulla di più cretino. Era, pura e semplice, la
condanna del totalitarismo di qualsiasi colore fosse: certo, non poteva
attribuirgli quello nero.
“Poco dopo fu ingaggiato dal Corriere della Sera dove io l’avevo
preceduto di qualche mese, e il cui direttore, Borelli, era anche lui
calabrese. Fu lì che scrisse gli ‘Itinerari italiani’, un ritratto esemplare
del nostro Paese.
“Non scriveva con facilità. La sua sorvegliatissima e scultorea
prosa non faceva nessuna concessione a vezzi e artifici letterari. Per un
articolo lavorava per giorni e giorni, come se considerasse la fatica un
coefficiente d’obbligo, e forse anche con la paura di essere licenziato e di
non poter portare a casa nemmeno pane e olive.
“Di carattere somigliava al suo fisico piccolo di statura, tozzo e
compatto come certe figure etrusche. Gli erano rimaste addosso le stigmate del
contadino meridionale, e non faceva nulla per nasconderle. Rimase molto stupito
quando al «Bagutta», dove lo condussi una volta a cena, tutti mostrarono di
sapere chi era Alvaro e lo accolsero festosamente. Nemmeno a questo era
abituato, anche perché non gli era costato nessuna «fatica»”.
Leggendo la “stanza”, Sandro Gerbi, futuro biografo di Montanelli,
fu incuriosito dalla sua esperienza di editore, sul Baltico, di Corrado Alvaro.
E alla fine di una serie di infruttuose ricerche, ne ebbe tutti i riferimenti
dall’Estonia, dalla Biblioteca Nazionale di Tallinn. Era vero, e anzi la
sorpresa fu doppia: Montanelli, esiliato per motivi politici all’università
estone, con un improbabile incarico di “lettore di italiano”, per ingannare il
tempo fece tradurre, con una sua prefazione, anche Pirandello, “I vecchi e i
giovani”, il romanzone della disillusione dell’unità nazionale - il primo germe
del futuro “Gattopardo”.
La prefazione ad Alvaro Gerbi riprodusse sul “Sole 24 Ore” il 14
dicembre 2003, in una grande pagina di apertura del settimanale “Domenica”,
sotto il titolo “Montanelli, Aspromonte sul Baltico”. Un testo semplice,
palesemente frondistico, anzi di opposizione: “Ai giorni nostri gli scrittori
italiani sempre più si concentrano e si isolano nel loro mondo fantastico. È
una solitudine in cui i deboli periscono e i forti si consolidano. Corrado
Alvaro è uno di quei forti”. Come Pirandello, e come Grazia Deledda, che ha
citato in precedenza.
Continuando - è già Montanelli, che tutto sa, anche dell’Italia
che non conosceva: “Alvaro è soprattutto il poeta del dolore. Egli è nato in
Calabria, una delle regioni più inclementi d’Italia, un vasto altopiano, povero
e pietroso, gelido d’inverno e torrido d’estate, poco fertile, con un paesaggio
in cui domina un’opprimente tonalità giallognola. Quella gente, la più
primitiva della penisola….”.
Camiola, senese di Messina
Delle 106 “donne illustri” (“De mulieribus claris”) di cui il protofemminista
Boccaccio ha fatto la storia, sei sono reali, non mitiche cioè o classiche ma
contemporanee. E una di queste, “Camiola vedova senese” è invece di Messina.
Città ora in abbandono, ma già grande porto, nonché centro storico e culturale.
Boccaccio la dice nata a Siena e cresciuta a Messina. Ma è di Messina, dove era
nata, nel 1310, e dove morirà trentacinque anni dopo, Camiola Turinga, o anche
Cameola Turinga, Figlia di un cavaliere (tedesco?), Lorenzo di Turingia, e di
una nobildonna messinese (probabilmente della famiglia Bonfiglio).
L’appellativo “senese” di Boccaccio potrebbe derivare dal nome del marito, un
mercante, forse senese, dal quale Camiola erediterà un grosso patrimonio. La
storia la vuole, bella, ricca e onesta, protagonista di un gesto – che però non
si saprebbe come qualificare - verso Orlando (Rolando), un figlio illegittimo
del re di Sicilia Federico III d’Aragona, mandato dal fratellastro Pietro II,
succeduto al trono del comune padre, a combattere contro gli Angioini, fatto da
questi prigioniero, a Napoli, e in attesa di riscatto. Pietro essendosi
rifiutato di pagarlo, Camilla già vedova si offrì: pagò metà della sua sostanza
(duemila onze), a condizione che Orlando-Rolando la sposasse. Il giovane fu
liberato, e si recò a Messina, ma qui si rifiutò di sposare la liberatrice.
Camiola
gli fece causa, e la vinse. Anche il re Pietro le diede ragione, imponendo al
fratellastro il matrimonio. Si organizzò quindi uno sposalizio regale. Ma il
giorno del matrimonio, di fronte alla nobiltà del luogo, Camiola rifiutò il
principe, facendogli dono del riscatto pagato – per poi convolare a nozze con
“più nobile sposo”.
Il
racconto è ripreso da Bandello col titolo “Timbreo e Fenicia”, la ventiduesima
delle sue “Novelle”. Che Shakespeare avrebbe adattato nella commedia “Molto
rumore per nulla” – per questo ambientata a Messina.
Calabria
A Odessa, ancora ucraina malgrado gli eventi, il sindaco si fa forte di un
consigliere politico calabrese, Attilio Malliani. Che non dice molto a
Battistini, sul “Corriere della sera”, ma è sensato: “Otto anni fa, quando i
russi si presero la Crimea, non si sentiva quel senso d’angoscia che sentiamo
adesso”. Che cosa non si fa fuori dalla Calabria.
Malliani è un pingue ex giovanotto di Reggio Calabria, che a trent’anni ha
spiccato il volo sposando una giovane ucraina.
Ha le o strette e le e pure, strette. Che Meneghello, nei “Piccoli maestri”, la
sua odissea semiseria della lotta partigiana, dice “onanistiche”. Parlando con
un russo evaso dai lager tedeschi e aggregato alla banda in tedesco, il poco
tedesco che i due compartivano, si sente però superiore grazie alla pronuncia:
“I suoni che facevo io erano incomparabilmente più preziosi, le ch, e le erre
raspate e grattugiate, e la strettezza quasi onanistica delle e strette e delle
o strette”.
Domenico “Mimmo” Tallini, politico di Forza Italia in procinto di
diventare presidente del Consiglio regionale, viene arrestato due anni fa dal
Procuratore Capo di Catanzaro Gratteri per concorso esterno in associazione
mafiosa. Dopo due anni è riuscito ad andare a udienza preliminare, e il giudice
l’ha scagionato. Ma non si tratta di errore del discusso Procuratore. Tallini è
sicuro che l’arresto è stato concordato da Gratteri con Salvini e Boccia, la
Lega e il Pd, per evitare di votare – “per programmare meglio le loro strategie
politiche” - subito dopo la morte della presidente Santelli, come lui chiedeva.
Magari è vero: la versione di Tallini sa della migliore giustizia e della
migliore politica in Calabria – quando, cioè, non è corruzione.
Poi, dopo un anno e mezzo, ha vinto il candidato di Tallini, Occhiuto, e si è
tenuta l’udienza preliminare per la scarcerazione.
“La sposa”, sceneggiato Rai di grandi ascolti sulle giovani calabresi
comprate come mogli da contadini-agricoltori del Nord, con un carattere di
donna molto forte, impersonato da Serena Rossi, napoletana, è stato girato per
la parte “calabrese” in Puglia. La Film Commission della Regione Puglia
finanzia i film più generosamente della Calabria? No. Ma in Puglia in tanti
anni di Film Commission hanno creato un’infrastruttura di servizi locale, che
rende molto più economico girare in esterni. L’industria dei servizi è fuori
dall’orizzonte calabrese: impresa è essere padroni, non lavorare.
Anche: i soldi, in Calabria, evidentemente, malgrado le statistiche,
non mancano – se “la fame aguzza l’ingegno”. Se l’ingegno poltrisce.
Antonio Piromalli dà “una vocazione tragica e religiosa” all’“anima calabrese” – “una linea interiore che va da Gioacchino a san Francesco di Paola, a Campanella, ad Alvaro”. Di “una umanità che si distende dal lontano filo pitagorico e orfico, dalla concezione della metempsicosi come condanna dell’essere, come mancanza dell’essere”. Che si manifesta in una “scontentezza” esistenziale, “In un linguaggio biblicamente solenne, apocalittico”. O non piuttosto ironico e perfino scherzoso, o polemico, in Campanella, Padula, Ammirà (e imitatori), lo stesso Alvaro? E i tanti del secondo Novecento, compreso Perri, fino a Walter Pedullà - La Cava, Zappone, Delfino, eccetera.
Leggendo il rapporto che Primo Levi e Leonardo De Benedetti, in qualità di sopravvissuti ad Auschwitz, furono richiesti di scrivere per il comando russo che li aveva liberati, si ha l’impressione, quando si arriva al pinto dei servizi sanitari, di trovarsi nella sanità calabrese dopo dieci anni di commissari. File, attese, insofferenze, brutalità, riportano agli ospedali di Locri e di Polistena, i soli due nella popolosa provincia di Reggio Calabria. È ingiuria paragonare le due situazioni, certo. Ma l’“organizzazione disorganizzata” è la stessa. Malgrado, va aggiunto, i molti milioni disponibili per miglioramenti o nuovi ospedali, e non spesi.
leuzzi@antiit.eu
Alle radici del populismo – e dell’integralismo
C’è un
nazionalismo buono e uno cattivo. Scrivendo nel 1945, a guerra non ancora finita,
Orwell non poteva non riconoscere la forza del nazionalismo, dell’Inghillterra
come della Russia, che avevano resistito alla furia tedesca. Anche se il seme
del nazionalismo era cattivo, era il “Deutschland über alles” del Terzo Reich. Ma
l’approccio resta ugualmente valido anche in tempo di pace, p.es. in rapporto
all’imbuto in cui l’idea di Europa è stata calata, a “Bruxelles”, a una burocrazia
anonima ma cattiva. Anche perché il “nazionalismo” di cui Orwell tratta è particolare:
è quello che oggi si dice populismo. Un “nazionalismo”
più attivo quando
l’”incertezza generale riguardo a ciò che succede realmente rende più facile
aggrapparsi a credenze stravaganti”, a idee di realtà contro tutti i fenomeni
reali.
Qualcosa
da non confondere col patriottismo, avverte. Che è la difesa della propria storia e delle proprie tradizioni o modi di essere - anche da parte di non nazionali (il riferimento è a Stalin, il georgiano difensore della Russia - come poi lo sarà Krusciov, ucraino). Il nazionalismo-populismo è un “abito
mentale”, un approccio agli altri e alla vita che, senza tenere conto della
realtà o verità, sempre autoreferente, e senza curarsi di una logica, isola dal
mondo, nel mentre che lo condanna. Succede (succedeva… ) nei partiti politici -
specie nel Comunismo, bersaglio di Orwell all’epoca. Succede nelle chiese:
Orwell porta l’esempio di una sorta di integralismo cattolico (nella persona di
Chesterston, lo scrittore), ma la cosa si attaglia perfettamente all’integralismo
islamico. “Nazionalista” in senso negativo è anche il razzista, l’antisemita, insieme
col sionismo, e il pacifismo – Orwell ce l’ha con quelli per i quali, all’epoca,
tutto quello che faceva Mosca era buono, come Chiang Kai-shek, per esempio,
che “nel 1927 bolliva centinaia di comunisti vivi, e però in meno di dieci anni
è diventato uno degli eroi della Sinistra”.
“Un nazionalista
è uno che pensa soltanto, o principalmente, in termini di prestigio competitivo”. su un fondamento sdrucciolevole: “Il nazionalismo è desiderio di potere temperato dall’auto-inganno” –
un perdente nato, si direbbe, massa di manovra per chi è anche solo un poco
accorto: “Il nazionalista è capace della più palese disonestà, ma è anche –
giacché è certo di servire qualcosa di più grande di se stesso – incoercibilmente
certo di ess ere nel giusto”. E qui siamo ai no-wax. Le caratteristiche sono
sempre le stesse. Ossessione. Instabilità. Indifferenza alla verità o realtà
oggettiva.
Una
riflessione al modo di Orwell, calata nella realtà delle cose, del momento.
Capace di interagire con gli eventi. Una sorta di storia contemporanea, nel
senso che si fa - si scrive, si fissa - mentre si svolge.
George
Orwell, Sul nazionalismo, Lindau, pp. 64 € 9
free online in inglese
martedì 22 febbraio 2022
Letture - 482
letterautore
Boccaccio – Un
protofemminista. Che al “De Casibus virorum illustrium” ha affiancato un “De
mulieribus claris”, le vite di donne illustri (106, donne del mito o della
classicità, ma con una mezza dozzina di casi recenti: Giovanna “anglica, la “papessa
Giovanna”, una Gualdrada “donzella fiorentina” (la “buona Gualdrada” dell’“Inferno”
di Dante), una Camiola vedova senese, Costanza d’Altavilla, regina della
Sicilia, l’imperatrice Irene Sarantapechaina d’Atene, imperatrice di Bisanzio per
cinque anni fra Sette e Ottocento), Giovanna regina di Sicilia e Napoli
(Giovanna I).
Divenne presto popolare in Francia, subito
dopo la morte, per opera di un poeta e umanista, Laurent de Premierfait, che tradusse
il “De Casibus” e il “Decameron”, dal “fiorentino”, come diceva, migliaia di pagine,
quale autore che promuove le nuove lingue nazionali, le lingue volgari – Dante
e Petrarca saranno tradotti secoli più tardi. Ma Premierfait non conosceva bene
il “fiorentino”: per la traduzione si rivolse quindi a un colto frate francescano
– ha dimostrato Vittore Branca – addottorato alla Sorbona, Antonio d’Arezzo,
che padroneggiava il latino, il francese, e il “fiorentino”, e sarà poi lettore
di Dante a Firenze. Premierfait autorevolmente presentava il “Decameron” come i
due volumi di casi illustri, forse anche il “De mulieribus”, come un libro di
edificazione, una sorta di “Art de bien vivre et de bien mourir”: “Benché
sembri servire a dilettare l’ascoltatore e il lettore… questi vi troverà, nelle
storie raccontate, più profitto morale che diletto”, etc.
Bullismo - “Gli psichiatri
si concentrano interamente troppo sulla scena primaria e la deprivazione
pre-edipica e ignorano i traumi dei bambini della scuola elementare e diverse,
che sono crudeli e spietati”. Lucia Berlin, il racconto “Stelle e santi”, s.d,
ma cica 1960.
Concilio Vaticano II – Non solo ha
abbandonato il latino come lingua liturgica, ma ha cambiato anche la lingua –
ha tentato di cambiare la lingua, in un anticipo di politicamente corretto –
per una lingua anonima (universale). Predica e predicatore voleva cambiare in
“momento omiletico” e “omileta”. La messa in “celebrazione liturgica”, o “cena
del Signore”, o anche “sinassi”. Parole mediando dalla liturgia ortodossa, ma
senza alcuna apertura, teologica o anche solo liturgica, alla chiesa ortodossa.
La conversione ha sostituto con “metanoia”, e l’ateo con “non
credente”. Il catechismo con la catechesi. Il dono con la “carità oblativa”. E
la carità con l’”esercizio della prossimità con il proprio simile” – con gli
animali no? Niente più prima comunione né cresima, solo “sacramenti dell’iniziazione
cristiana”. Più radicale di tutto è l’introduzione di “pleroma” al posto del
paradiso.
“Parole vuote” le definiva Tullio De
Mauro, il linguista. Ma non inerti: si
capisce anche da questo che la chiesa abbia perduto senso.
T.S. Eliot – Il suo poema “The
Waste Land” è “terra desolata” per la traduzione di Mario Praz, nel 1932 –
anticipata a ridosso nel 1926, quattro anni dopo la prima pubblicazione, con la
traduzione dell’ultimo movimento del poema, “Ciò che disse il tuono”. Non c’era
accordo sulla traduzione di Praz, spiega Carlo Ossola in un saggio disperso, “Desolata,
ma sempre fertile”: Caproni vi trovava un’implicita citazione di Dante e propose
“paese guasto”. Ma “lo stesso Eliot finì per esserne influenzato”, conclude
Ossola, “tanto da riusare in seguito lui
stesso l’aggettivo”.
Filosofia – In Germania non
è materia d’insegnamento al liceo.
Germania - I tedeschi vanno
capiti. Marx dice: “Come i popoli antichi hanno vissuto la loro preistoria in
immaginazione, nella mitologia, noi
abbiamo, noi tedeschi, vissuto la nostra post-storia in pensiero nella
filosofia. Noi siamo i contemporanei filosofici
del presente, senza essere i suoi contemporanei storici”.
Walter Benjamin per esempio, quando si
occupa di Marinetti e del Manifesto per
la guerra coloniale in Etiopia: roba da piangere. Ma poi Benjamin aveva
altro di cui occuparsi, che la Germania contemporanea storica perseguitava.
Intervista – È il genere privilegiato
da qualche tempo, giornalistico e anche letterario. Il giornalista trova comodo
farsi scrivere l’articolo da un altro, per di più incontestato e
incontestabile. Il narratore sempre più indulge ad autorappresentarsi (autointervistarsi):
cosa ho detto e cosa ho fatto, cosa vorrei fare oggi o domani. Il “New Yorker” celebra
il genere esumando una serie dia articoli su celebri intervistatori del secondo
Novecento. Si parte con “Salto Mortale”, analizzato nientemeno che da Kenneth
Tynan, il critico che promosse gli “arrabbiati”, il teatro drammatico inglese
del secondo dopoguerra. Il “Salto mortale” non è quello, più noto in Europa,
della tv tedesca, che tenne banco per una dozzina d’anni, con le esibizioni dei
funamboli del circo Krone, ma quello, sempre in italiano, della serie
televisiva condotta da Johnny Carson, il comico americano diventato un’icona tv
con quel programma – un predecessore di David Letterman, meno impegnativo per
gli ospiti, che trattava con garbo, facilitandone quindi le confidenze (in
Italia ripreso poi da Costanzo).
Madre-figlia – Il tema, a naso,
preponderante delle narrazioni femminili, di scrittrici. Ci sarà un maternalismo al posto del paternalismo?
Moravia - L’8 settembre di Moravia
fu nel 1941, quando Alessandro Pavolini, titolare del Minculpop, il ministero
della Cultura Popolare, intimò per “circolare telegrafica ai Prefetti del Regno”:
“Pregasi invitare direttori quotidiani et periodici locali at non più (dicesi
non) pubblicare scritti di Alberto Moravia”. Forse per un braccio di ferro interno
al regime con De Marsanich, sottosegretario alla Marina Mercantile dopo esserlo
stato alle Comunicazioni, zio di Moravia – fratello della madre.
Un po’ Moravia se lo aspettava. L’ostracismo
era iniziato tre anni prima, con le leggi razziali. Il direttore della “Gazzetta
del Popolo” di Torino, Amicucci, fascista puro e duro, gli aveva tagliato la
collaborazione, su cui Moravia contava per mantenersi, e che praticava da dieci
anni. In quell’occasione lo scrittore era ricorso a Mussolini, per far valere
la sua non ebraicità: “Sono cattolico fin dalla nascita e ho avuto da mia madre
in famiglia educazione cattolica. È vero che mio padre è israelita, ma mia
madre è di sangue puro e di religione cattolica, si chiama infatti Teresa De
Marsanich ed è sorela”, etc.
Sei settimane dopo il telegramma dell’8
settembre, lo stesso Minculpop segnalava però Moravia benevolmente a Mussolini:
la famiglia è “a norma di legge di razza italiana”, il “fratello, tenente Gastone
Pincherle” è “caduto in combattimento” sul fronte di Tobruk, e “il Moravia si è
recentemente sposato con donna di razza italiana”. Con Elsa Morane. La quale
invece era di madre ebraica. Ma era “figlioccia” (di battesimo? di cresima?) di
padre Tacchi-Venturi, il gesuita fascistissimo.
Sartre – Fascinoso, la compagna Simone de
Beauvoir e le varie biografie (per lo più dispettose, uscite quando ancora se
ne parlava) gli attribuiscono una serie interminabile di avventure sessuali,
anche con ragazze giovani e belle, accudito negli ultimi dieci anni, del
tracollo fisico fino alla non autonomia, da almeno cinque donne di nome e di
rango, era alto un metro e 56. E viveva di stimolanti. le anfetamine fin dal
primo mattino.
letterautore@antiit.eu
Diario romano
Tram 8
fermo per sei mesi da luglio, Metro A ferma alle 21 da giugno per diciotto mesi, Metro B con lo stesso blocco da aprile a luglio.
La nuova
giunta per prima cosa annulla la delibera della giunta Raggi, di metà sindacatura,
2018, per aprire una luce sul patrimonio immobiliare del Campidoglio. Il Comune
di Roma si stima che abbia la proprietà di 40 mila unità abitative o commerciali,
anche ai Cerchi, a piazza Navona, a Fontana di Trevi. Che gli costano molto
come Irpef e maintenance, e da cui ricava non sa quanto, comunque molto
poco – nemmeno tanto da pagare gli uffici che in teoria lo gestiscono.
L’annullamento
della delibera precedente è un classico, almeno dagli anni 1980, quando il problema
fu posto dal settimanale “Il Mondo”. Si dà un appalto esterno, o si avvia una
procedura interna per censire gli immobili e i contratti relativi, che poi per un
qualche motivo dopo alcuni anni si annulla. La giunta Gualtieri se ne occuperà
nel 2023, a metà sindacatura.
Una Saba
Italia spa, scopre la Corte dei Conti, gestisce dal 2007 in concessione a tempo
indeterminato il grande parcheggio seminterrato di Villa Borghese, al centro di
Roma. Grande poco meno di un ettaro, con alcuni immobili, tra o quali si notano
oggi un caffè e una palestra. Per 10 mila euro di canone al mese, quanto
stabilito dal sindaco Veltroni nel 2007. La concessionaria fattura 32 milioni.
La Corte dei Conti stima un danno erariale (per il Campidoglio) di 30 milioni
nei quindici anni, e chiede perché il contratto non è stato adeguato. Di tutti
i sindaci da Veltroni a Gualtieri, solo quello di destra, Alemanno, ha provato a
rinegoziare la concessione, ma una valanga di avvisi di reato lo ha sommerso.
Se il centro-sinistra lo ha fatto Moro
Pombeni
ha aspettato la pensione per osare scrivere del centro-sinistra, quello degli
anni 1960, che i suoi colleghi contemporaneisti si affaticano a cancellare. E
ancora, ci mette Moro in copertina, come se ne fosse l’ispiratore e il leader,
mentre ne fu l’affossatore. E ancora, limitando l’indagine ai dieci anni di
preparazione del centro-sinistra: “L’Italia e il centro-sinistra 1953-1963” è il
sottotitolo. Il ruolo di Fanfani al risvolto di copertina: “Il 22
febbraio 1962 entra in carica il IV governo Fanfani sostenuto da una coalizione
fra DC, PSDI e PRI con l’astensione socialista. Era la premessa del
centrosinistra «organico» che sarebbe stato realizzato nel dicembre 1963 dal
governo presieduto da Aldo Moro con Pietro Nenni suo vice. Ma fu il governo
Fanfani a varare quelle che sarebbero state considerate le grandi riforme del
centrosinistra – la nazionalizzazione dell’energia elettrica e la scuola media
unificata”.
Questa è la
storia del dibattito lungo un decennio sulla necessità o meno di «aprire a
sinistra» per affrontare i problemi che poneva la modernizzazione del paese.
Con le resistenze, da destra, interne alla Dc. E da sinistra al partito
Socialista, da Lombardi a Lelio Basso. Moro, questo è vero, tenne unita la Dc,
ma a costo di sfiancare la carica innovativa del centro-sinistra. Nenni invece
non riuscì a tenere unito il partito Socialista, da cui si scisse il Psiup di
Lelio Basso e Vecchietti, partito socialista di unità popolare, e cioè di unità
col Pci, da cui Nenni invece si era allontanato nel 1956.
A
febbraio del 1963, racconta Pombeni nel tratto forse più nuovo del suo studio,
Moro a Bari aveva teorizzato una Dc “alternativa a sé stessa”. I tempi erano cambiati, e la
Dc doveva pensare alle novità, anche radicali, a come farle proprie. Il solito
linguaggio moroteo che sembra non significare nulla e invece è collante per la
Dc – l’ambiguità, pur di governarla.
Un aneddoto su Moro è anch’esso illuminante. L’Italia, Moro
amava spiegare, secondo quanto Andreatta ha raccontato a Pombeni, è un castello
di carta, bello e grande quanto si vuole, ma friabile: si può allargare o
innalzare, ma con prudenza. Non per scetticismo meridionale, evidentemente: Moro
era il vero Dc. Cattolico, vaticano, clericale: l’Italia fragile è minorata,
bisognosa di assistenza.
La storia del centro-sinistra resta da fare.
Paolo
Pombeni, L’apertura, Il Mulino, pp. 296 € 22
lunedì 21 febbraio 2022
A tutta banca - 2
Prosegue
inalterato a piazza Affari, malgrado le tante sedute nere di Borsa per la guerra
in Ucraina e per i tassi in crescita, il boom bancario.
Nelle
sette settimane del 2022 Bpm ha fatto registrare una rivalutazione del
33,1 per cento, a 3,5 euro.
Banca
Ifis, una mid cap, per di più specializzata nell’acquisto e cessione degli Npl,
i crediti deteriorati, con (piccoli) finanziamenti a (piccole) aziende, ora a
20,3 euro, è salita del 24 per cento. Dopo un 2021 che l’ha vista regina delle banche
dell’eurozona, con una performance del 94 per cento – dovuta, si diceva, almeno
in parte al trasferimento della sede legale dell’azionista di controllo in Svizzera.
Credito Emiliano, a 7,2 auro, segue con un incremento del 24,2 per cento.
Intesa
San Paolo, a 2,7 euro, è cresciuta del 20,1 per cento.
Bpm, a 2
euro, del 12,3.
Unicredit,
a 14,4, si è incrementata di quasi l’8 per cento (dopo aver raggiunto, tre sedute
prima, un incremento del 9,7). Reduce da un 2021 nel quale ha registrato la seconda
posizione per migliore performance fra le banche dell’Eurozona (alla pari con SocGen):
più 78 per cento. Unicredit, che prima della “guerra”, due settimane fa, era arrivata
a quota 15,85, aveva più che raddoppiato il valore di Borsa, rispetto al minimo
di dodici mesi prima, 7,6 euro.
A margine, va notato che Unicredit negli ultimi tre mesi, dopo che ha abbandonato il dossier Mps, è cresciuta del 40 per cento, mentre Bpm solo della metà, e in larga misura negli ultimi giorni, dopo le voci di una Opa Unicredit.