sabato 12 marzo 2022
Cronache dell’altro mondo – (175)
La scienziata Julie Overbaugh, specialmente impegnata nella ricerca anti-Aids, è stata cacciata dalla School of Medicine dell’università di Washington e dal Cancer Research Center presso i quali lavorava, per essersi truccata tredici anni fa da Michael Jackson, il suo idolo, a una festa di Halloween sul tema di “Thriller”, un album allora famoso di Jackson. Truccarsi di nero, “blackface”, è denunciato dagli enti che l’hanno licenziata come “un atto razzista, disumano e aberrante”.
Più inflazione, meno crescita, la crisi sarà mondiale
“Anche se
le ostilità cessassero subito, i costi di una ripresa e della ricostruzione
sono già massicci”. È la sintesi dell’ultimo bollettino del Fondo Monetario Internazionale.
“L’invasione
dell’Ucraina da parte della Russia sta prendendo un orrendo pedaggio umano, ma
la guerra sta anche alimentando l’inflazione
e scuotendo la fiducia
finanziaria con conseguenze di lungo periodo per l’economia mondiale”, dice la
direttrice del Fmi, Kristalina Georgieva: “L’impatto della guerra , delle sanzioni,
e del crollo della fiducia porterà probabilmente a una revisione al ribasso delle
previsioni per la crescita globale nel prossimo rapporto di aprile”.
Tutto il potere a Franceschini
Franceschini si prende la
serie A, auspici i due grandi democristiani del calcio, Lotito e De Laurentiis.
Dopo essersi preso il parco della Musica a Roma, con relativa rassegna del
cinema. E il teatro dell’Opera. Le uniche cose – le nomine negli enti romani - che ha consentito
a Gualtieri di fare in cinque mesi ormai al Campidoglio.
La Dc romana, soprattutto
quella del Pd, stante l’eclisse dei berlusconiani, è ferrea sui poteri: prima i
posti di comando, poi, se resta tempo, fare qualcosa. A Roma il Pd è solo una
copertura della Dc, del metodo Dc: prima il comando.
La cultura e la ricerca,
il business del futuro, sono ora il potere, e Franceschini con Letta lo
controllano stretto.
La copertura Pd è un po’ losca
anche, anzi parecchio. Ma la Procura, di Pignatone prima e ora di Lo Voi, è
saldamente Dc, ex naturalmente.
Il Pd romano è tanto ingordo
quanto menefreghista. Per esempio, per stare al feudo principale di Franceschini,
transenne di anni e decenni attorniano i monumenti se un mattone si è sbriciolato
o un sasso si è divelto. E non si riparano per una ragione sola: gli appalti,
anche minimi, sono una forma di esercizio del potere, e allora, nell’atto
pratico, subentrano gli scontri tra le varie “anime” (ex) democristiane.
Chi era Pasolini 5
Il poeta assassinato è una novità
assoluta, anche in un paese che fa sacrifici umani quotidiani, senza piume,
senza sole, senza serpenti che si mordono la coda, senza neanche i riti né il
mistero degli azteca, o la dignità. Benché Henze abbia denunciato ignoti
assassini d’Ingeborg Bachmann. E dunque a Roma si assassinano i poeti, ecco il
complotto che si scopre – e basta e avanza. Un paese senza, lo chiama Arbasino,
che ancora si meraviglia. E invece ha stomaco vorace, ruminante: eccitabile,
non rifiuta nessun cibo, ma indifferente. Brutale e apatico, ecco perché non fa
le rivoluzioni. Il giudice Di Gennaro, lo stesso che i Nap avevano sequestrato,
che per condannare Pasolini analizzò in tribunale “La ricotta” alla moviola, è autore di un
progetto di carcere aperto e ammira i suoi sequestratori: “Gente
straordinariamente informata e coraggiosa, molto intelligenti e preparati”. Un
magistrato compagno, che in tribunale contro Pasolini di sé pretese: “Il
diverso sono io”.
Ma la verità è che non si uccide il padre
impunemente, da quello che si sa dalle tragedie. Né è salvezza l’amore della
mamma, il bisogno della maternità, la purezza del non essere nati. “La realtà”
nelle “Poesie in forma di rosa”:
“Il mio amore\ è solo per la donna: infanta e madre.\ Per loro, i miei
coetanei, i figli… arde\ in me solo la carne”. Pasolini protestò dopo la
provvisoria condanna della “Ricotta”,
lo fece eccitato con Moravia e con lo stesso Di Gennaro, l’unica volta che
reagì nervoso alle alchimie giudiziarie, perché la madre Susanna era svenuta
alla notizia. Alla madre scrisse: “Sei insostituibile. Per questo è dannata\ alla
solitudine la vita che mi è data.\ E non voglio essere solo. Ho un’infinita
fame\ d’amore, dell’amore di corpi senz’anima”. Vivevano nella stessa piccola
stanza sfollati a Versuta, e passeggiavano come fidanzati all’occhio dei
paesani, avendo abbandonato il padre sconfitto solo di notte di nascosto a
Casarsa.
Uno di quei corpi senz’anima lo ha abbattuto e sconciato. Non
sapendo neppure perché: se c’è complotto è della realtà senza ragione. S’era
scritto in questa chiave il coccodrillo: “Lacrime di commozione
su me\ stesso morto: è noto\ che, delle cose del mondo, questa è una delle più piacevoli”.
Celebrava la felicità del lutto, che ogni giorno viveva. Lui ch’era dotato
della magia, in ogni creazione e nei gesti – se non è la grazia, che dunque c’è
pure nel peccato. Ma col vizio incessante, una sorta di pena originale, di
mutilarsi. La parola ha così ridotto alla tecnica, i segni, i suoni. E l’amore:
“I posti\ dove fare l’amore furono centinaia\ e tutti fetidi”, ha scritto. Non
per scandalizzare i benpensanti, vittima dell’“ossessione patetica, che mi è
propria”. Contro la quale non seppe rivoltarsi.
Troppe volte ha antevisto la sua morte: “Guardo con gli occhi\
d’un’immagine gli addetti al linciaggio”. Per essere forse già morto. Si muore
per i familiari, i simili, gli amici. Non si muore perché la mafia, o lo Stato,
o un ragazzo spaurito o prezzolato ha deciso di uccidere. In tal caso anzi si
acquista vigoria e buona cera, diventando interlocutori dei più, i bene
intenzionati, e soggetti d’ispirazione, commozione, avventura, consolazione.
Assassinio vero è recidere i fili che legano l’uomo al mondo, con forza
talvolta, più spesso con la sottigliezza, lo sberleffo, l’insinuazione. Con
l’odio. La cultura della morte è cultura morta. “Io so”, diceva. E certo è uno
che sa. Anche se non ha detto la verità, non tutta.
Non sulla rivoluzione:
“Siamo tutti rivoluzionari”, diceva, ma era confuso. “Più giusto, più buono”
diceva “un mondo repressivo di un mondo tollerante, perché nella repressione si
vivono le grandi tragedie, nascono la santità e l’eroismo”. Per fare felici i
prefetti d’Italia, pigmalioni di santi. La sua intima natura, avrebbe detto di lui Thomas Mann, era
libertinaggio, spirito zingaresco, frivolezza. Gli mancava la fedeltà, e se ne
fece un dovere. O anche, sempre Mann, che lo diceva dei bambini: “A chi vive
del sogno la realtà sempre appare più sogno di ogni sogno, e più profonda è la
lusinga”. Così la fece al cinema, nei colori, le pause, le madonne, gli angeli,
dove il realismo non doveva fingere dell’impegno.
I testimoni sono scomodi. Il poeta si può dire vittima della
giustizia violenta che voleva. Da estremista insaziabile. Solo col suo Io, un
santo. O un traditore. Questa fine è un suicidio, dice il cinico Moravia, tanto
l’ha cercata. Sono traditi i traditori. Del fratello, dell’innocenza, del bene,
della verità. Beffati, da giudici, affetti mercenari, compagni ipocriti di
strada, compagni di Partito, che sempre tradisce - la
morte lo salva dall’abiezione del conformismo, di sciocco interprete del Partito,
che per questo non lo molla, lo vuole sul monumento morto per sempre.
(continua)
L’amore assoluto è immaginario
Un
tardo patito di Proust, prima anche per lui insopportabile, suggerisce di
estrarre, non solo dalla memoria, tutti i filamenti che la vita insondabile
svolge. E di colpo, per caso, ecco il colpo di fulmine, dell’amore assoluto. Il
film italiano della scritrice e regista franco-americana parte da un buona idea,
esplorare il possibile. Che però sappiamo dalla scena che ha accompagnato i
titoli di testa essere impossibile. Un racconto onesto, dunque, ma piatto.
L’impianto
avvincente si svolge senza tensione. È notevole anche per una novità: che
un’autrice donna esplori e rappresenti i meandri maschili. Ma il nostro uomo
finisce per essere uno sfortunato: ragazzino sveglio e compiacente, perde il
padre, l’amichetta del cuore, la madre in
pose sconce, infine anche la moglie, la figlia, il nonno, in una sorta
di “disgraziere” senza tensione. “Un amore mai vissuto è un amore che non
muore”, la didascalia del film, è come praticare la tecnica indiana della
ritenzione, del tantra perfetto, da eunuchi.
Amanda Shters, Promises, Sky Cinema
venerdì 11 marzo 2022
Ombre - 605
Le vittime della guerra conteggiata dal governo ucraino sono circa 600. I morti nel conflitto endemico nel Donbass al 2014 al 2019 erano 13 mila. C’era una guerra in Ucraina prima di quella russa.
Che
fare “dopo Putin” viene solo dall’America: “E poi bisognerebbe pensare un
sistema di sicurezza europea che non ruoti solo attorno alla Nato”, Ivo
Daalder, ex ambasciatore americano presso la Nato.
A
Marilisa Palumbo, che lo intervista per lo speciale “Dentro la guerra” del
“Corriere della sera”, l’ambasciatore dice che sono stati gli Stati Uniti a spiegare
all’Europa cosa atava succedendo, e a mobilitarla.
Il numero
delle persone displaced con la forza, da guerre, persecuzioni, violenze
di ogni genere, violazioni dei diritti umani nel 2021 è stato di 84 milioni. Un
numero che ora si moltiplica. Nel conteggio dell’Alto Commissariato per i
Rifugiati delle Nazioni Unite se formassero un paese, sarebbero il 17mo più
grande della terra
Al
dodicesimo giorno di guerra compare finalmente su un giornale italiano un
russo, Rispettabile: lo storico dello stalinismo Roy Medvedev. Che ha quasi
cento anni, ma insomma può dire la sua. Si fanno le guerre solo da una parte,
come le abbiamo fatte contro la Serbia in Afghanistan e in Iraq. Gli altri non
contano.
Si fa
moto caso delle telefonate di Macron a Putin, quasi quotidiane. E del premier inglese
Johnson, che sfida Putin come già Churchill Hitler, anche se per ora Londra è
al riparo dai bombardamenti. Un presidente uscente che con la guerra ha visto
la rielezione, fra un mese, prima in dubbio. E un premier che è ancora al suo posto
grazie alla guerra di Putin, amici e avversari lo volevano deporre, per le feste
durante il lockdown. L’Europa non è forte.
Si è
un po’ riso, malgrado la guerra, di Putin che dice l’Ucraina “creatura di
Lenin” – “autore e architetto”. Ma è pure vero che la dottrina leninista delle
autonomie molto dovette al bisogno di cooptare l’Ucraina, l’impero russo
ridisegnando sotto forma di federazione. Perché è in Ucraina che le forze
bianche, controrivoluzionarie, ancora nel 1921 combattevano l’Armata Rossa.
La
decisone tedesca, del governo del socialdemocratico Scholz, di riamare – con un
primo piano di spesa per 100 miliardi – dopo l’analoga decisione giapponese, dicono
finito il lungo dopoguerra, e avviano un nuovo scorso politico. Con la Germania
ora in tutto e per tutto, politica e difesa oltre all’economia, al centro
dell’Europa, E il Giappone nuovamente primattore in Estremo Oriente. Dove non
c’è più solo la Cina - elementare.
Il
primo passo per il “ritorno” politico della Germania c’era stato nel 1989-91,
con la riunificazione. Nel mentre che il dissolvimento dell’Unione Sovietica ridimensionava
geograficamente e demograficamente la Russia, quasi dimezzata rispetto ai
confini del 1917. Si poteva già dire allora che l’esito della seconda guerra
mondiale veniva ribaltato, col solo abbattimento del Muro.
Non giustifica
la guerra, ma serve sapere che dopo il dissolvimento dell’Unione Sovietica ci
sono state molte guerre, con la partecipazione diretta o indiretta della
Russia: Armenia (due, se non tre guerre), Cecenia, Ossezia, Abkasia, Transnistria,
Tagikistan, Serbia (Kossovo) e Georgia.
Non
c’è mai stato, dice ora la Nato, negoziato o invito per l’entrata dell’Ucraina
nell’Organizzazione atlantica. Sulla base dell’impegno di James Baker, segretario
di Stato del presidente americano Bush, all’allora capo dell’Urss Gorbaciov
che, dopo la riunificazione tedesca, la Nato non si sarebbe allargata di “un
solo pollice” verso Mosca. Il tentativo c’è stato con l’altro Bush, Bush jr.,
nel 2008, con l’offerta all’Ucraina – presieduta da un presidente eletto con la
prima delle poi consuete “primavere” democratiche di piazza - di entrare nella
Nato, insieme con la Georgia. L’offerta fu ritirata su pressione europea.
Chi era Pasolini 4
Artificiosa è la disperazione, in questa morte pure efferata, san
Sebastiano di borgata. La disperazione del sesso, non solo per il climaterio,
l’ansia della perdita. Il luogo della morte è un non luogo, rifiuti e terra
marcia, remoto. Il corpo sfregiato l’ha trovato all’alba una signora Lollobrigida,
Maria Teresa. È il set d’un
assassinio, di odio e paura. Avendo smarrito la vena comica, la lievità d’animo
che è il segno certo di Dio, spento il fuoco e la luce, pure quella fatua,
filamentosa, la baluginante fosforescenza delle lucciole. Incattivito con
sé stesso, dicono gli editori, negli ultimi inediti. In “Bestia da stile”, che ha riscritto
più volte fino a due giorni prima, l’aveva deciso: “Voglio morire di
umiliazione, voglio che mi ritrovino col sesso di fuori”. Era questa per lui la
giusta immagine di sé, oscena. Che aveva riproposto in “Salò-Sade” e voleva moltiplicare nel film che annunciava della fine del
mondo, “Porno-Teo-Kolossal” – di cui lascerà traccia nell’abbozzo di romanzo
intitolato “Petrolio”. Amante nella deiezione, vittima schizofrenica
d’un impulso iterativo, autopunitivo, all’aperto, in gruppo, solo con maschi
poveri, sempre più numerosi ma ognuno una volta sola, che forse sono immaginari
ed è pure peggio. Giusto per rinfocolare la vergogna.
La sua oscenità e
la dissolutezza, anche in “Salò-Sade”, il film inguardabile, sono decadenti -
attardate di qualche secolo, è un secolo che si usava l’orinale nel comodino?
Se non sono il passato che non passa: il poeta fu vero giovane fascista, andava
ai campeggi della Milizia e ai congressi a Weimar, aspirando alla nobiltà
dell’eroismo. Nel Partito ha cercato il padre che non ha avuto – la famiglia è
il padre. Anche a costo di farsene sicofante, come già il padre naturale col
fascismo, Carlo Alberto, che andava per la Bassa a denunciare comunisti, e si
presentò volontario, falso, testimone contro Zamboni, il presunto attentatore
di Mussolini, che affermava anzi di avere personalmente immobilizzato – per
darlo ai linciatori? Non si passa impuni da questa ricerca, il poeta il padre
lo cercava nel fascismo.
È stato il padre
che rifiutava, dispotico, fascista. Contro gli studenti nel ‘68 e contro tutti:
i lettori, che imboniva di retorica, gli amanti, che voleva bruti, la politica,
la destra pretendendo d’imporre alla sinistra, e alla fine sé stesso. Non una
vittima, il poeta come Kavafis sapeva, che cantava “la diversità che mi fece
stupendo”. O la leaderistica sarà stata il segno del tempo, “privo d’ironia”,
che il poeta vantava, una pace prolungata si alimenta di minute inquietudini,
infantili trasgressioni, si direbbe dannunziane in piccolo in ritardo - ma
bisognerebbe sapere chi era D’Annunzio, che non avrebbe detto: “Amo la mia
pazzia di acqua e assenzio,\ amo il mio giallo viso di ragazzo,\ le innocenze
che fingo e l’isterismo\ che celo nell’eresia o lo scisma\ del mio gergo, amo
la mia colpa”.
(continua)
Autodiagnosi del manierismo lombardo
Un
libro sulla prefazione a un libro che non c’è, l’autobiografia del Dossi
stesso. La prefazione invece del libro, grande trovata – Kierkegaard pure
progettava un libro di prefazioni, una sorta di bibbia, di libro dei libri, ma
l’ironia è diversa, altra robustezza, anche letteraria. Di uno che non ha voluto imparare il toscano e quindi sfarfalleggia. Con la malinconia di chi usa parlarsi da solo – uso rari qualche tempo fa, ora tutti si parlano da
soli, fissi al cellulare. Con molta cura di se stesso. “Fino a’ 27 anni, la
solitudine del Dossi fu riempiuta tutta dallo studio“, il suo “ardentissimo
coito” era “collo scrittojo”. E dopo? Decadde, e non guarisce. E così via
lamentando.
“Per il
linguale è però d’avvertire com’egli ebbe sempre difficile la favella”. Cose
così - non molte, una dozzina di paginette: farsi merito di non avere fatto.
Senza speciale distinzione, di trovate o di invenzioni lessicali, raccontare il nulla è
difficile.
Manierismo
lombardo. Da cui, certo, Gadda è germogliato. Ma anche Arbasino, e Testori, nel
secondo Novecento. Indefettibile dunque? Già l’impegno di Scheiwiller per
questa esumazione è sorprendente: Laura
Barile ha incaricato di un lungo commento, con note, sei volte il testo. Il nulla del nulla.
Carlo
Dossi, Autodiàgnosi quotidiana
giovedì 10 marzo 2022
Putin contro tutti
Il richiamo
delle opere d’arte prestate all’estero è simbolico e dice tutto: Mosca si fa la
guerra da sola. Per oggi e per domani: quale che ne sia l’esito militare, l’attacco
all’Ucraina sarà una macchia per molti decenni, come già si vede – e Mosca stessa
certifica isolandosi.
Putin ha
scatenato una guerra di cui non dà la ragione né l’obiettivo, che a questo
punto non ci sono. E si è alienato il mondo, comprese la Cina e la Turchia che
fingono la mediazione – di aiutare la Russia a uscire dal pantano. Rilanciando
la Nato, l’atlantismo, che ritrova una ragione d’essere.
E la difesa europea integrata – anche se parte con un battaglione: è uno sviluppo inevitabile, tanto più se la Germania voterà un riarmo per 100 miliardi.
È scontato
che il furbo Erdogan media per l’apparenza. È stato aiutato da Putin in Siria e
contro i Curdi, ma non è uno che sta con i perdenti. Della Cina la Russia imperialista
è il “nemico naturale” - l’unico contro cui la Cina comunista abbia combattuto
una guerra, sia pure di confine - che occupa o controlla larga parte dell’Asia
senza averne titolo.
Chi era Pasolini - 3
Pasolini è morto giovane
di cinquant’anni. Che potrebbero essere stati cinquecento, la morte è giovane,
per chi ha vissuto e vive. Si muore sempre troppo presto, anche
nell’insignificanza, ma il rimpianto è talvolta giusto. Dopo aver reso onesto il cinema, arte della finzione
massima, l’illusione. Dal cinema liberato, che i poeti corrompe, troppe foto,
troppe interviste e pettegolezzi. Seppure felice solo nelle tragedie e nella
trilogia, o con Totò. Il Partito da
morto aprendo alla poesia, dopo averlo assolto dalla storia, guardia rossa
solitaria, da Porzûs al Sessantotto, Praga inclusa, fedele sempre a chi gli ha
assassinato il fratello e gli negava la tessera. In quel “nulla ideologico
mafioso” ambiguamente preciso che è la sua Italia.
Disse
Zeri che si preparava la morte, come Caravaggio. Che entrambi la morte si erano
sceneggiata, diretta e personalmente interpretata. È inevitabile, già Garboli
lusinghiero lo voleva immedesimato nel Caravaggio, per il comune discepolato di
Longhi, mentre lui s’è giustamente rifatto sempre a Giotto e Masaccio, e a
qualche manierista freddo, Pontormo. Ma è vero voleva “morire da martire,
rinascere da eroe”, disse il suo amico Zigaina, il pittore del Tagliamento.
All’idroscalo di Ostia, che in latino è “vittima sacrificale”, dove aveva
girato le scene erotiche delle “Mille
e una notte”. Il set di “Ostia”,
il film pasoliniano di Franco Citti, il posto è quello. Dove una
baracca aveva in affitto per i piaceri. La foja insaziata imputandosi a colpa -
“giura”, irrideva Kavafis al suo sé, ben più solo ad Alessandria, e poi,
“quando giunge la notte col suo potere\ del corpo che desidera e reclama, fa
ritorno,\ smarrito, a quel predestinato suo piacere”. Senza più, domani è un
altro giorno – insaziabile è il materialismo naturale degli aborriti Usa: il
sesso come evacuazione.
La colpa
inconfessabile è un’altra, la voglia sacrificale. Del martirio che è uno stato
di beatitudine, e s’intende fecondo, padre e madre. Già nel “Decamerone” s’era esibito come Mishima, con la benda alta sulla fronte. Come
lui avrà inscenato la propria fine, ma allora per esibizionismo di segno
opposto, non illuminato alla Sade ma nel buio polveroso. Per un trapasso alla natura angelica intellettuale – san
Tommaso, che gli angeli dice intellectuales,
riconosce loro un “motus cognitionis
angelicae”, dei colpi d’ala.
Alcuni vogliono che Pasolini sia stato
luridamente assassinato, tra il fango, gli oli di motore esausti, i veleni
delle gomme bruciate e i preservativi, da una squadraccia di fascisti,
marchettari e borgatari. Martirizzato, di domenica, il giorno dei morti. Oriana
Fallaci assolutamente lo voleva, “il cobra col golfino di lana”, la minuta
“maledetta cretina” di non lontani versi dello stesso Pasolini, che non volle
farlo morire se non immolato, per mano di sicari, sull’altare della Resistenza.
È un’idea. Persuasiva: gli hanno fatto trentatre processi, e non riuscendo a
condannarlo lo hanno eliminato. Che libera gli ultimi istanti del poeta dal
mordi e fuggi genitale, impietoso. Non senza verità: il suo misero compagno
Pelosi, carnefice e vittima (un minorenne, questo si trascura), disse che il poeta l’aveva aggredito con
una tavola, ma non presentava ferite, neanche una sbucciatura, un graffio, un
livido. È tuttavia proposta in sostanza per scantonare - stiamo parlando di Pasolini o di Fallaci?
(continua)
Amarcord del comunismo in Emilia
Un
com’eravamo nostalgico, in puro emiliano, quale è Vendemmiati, documentarista
premiato, e quali erano e sono quelli
del Canzoniere delle Lame, gli imperdibili dei festival dell’Unità. Dei festival
in Emilia, e in un paio di eccezionali trasferte, a Berlino Est per un festival
della Gioventù comunista, e a Reggio Calabria e Rosarno per (contro) “Reggio
Capitale”. Con materiale di archivio (fotografie, riprese amatoriali, la tv
tedesca) e coni ricordi dei superstiti. Janna Cairoti, una delle due fondatrici
del complesso (la sua mamma faceva da impresario: prendeva gli appuntamenti e
regolava il calendario), anima la rievocazione con una eccezionale verve
narrativa. Guidata da Giacomo Gelati, “Jack”, di “Le altre di B”, e col contrappunto
di Alberto Cazzola, “Albi”, di “Lo Stato sociale”, per far vedere come è
cambiata la scena musicale – si fa rap, in inglese.
Il
repertorio delle Lame erano le canzoni di protesta, politica o sindacale, e
testi che s’inventavano lì per lì, in piazza, per questa o quella causa – per le
lavoratrici della “Perla”, contro i “boia chi molla”. Contro Almirante, il
segretario del Msi, che in viaggio
sull’A 1 si era fermato al “Cantagallo”, ma non poté fare benzina né consumare
niente perché i dipendenti si rifiutarono di servirlo.
Una
produzione “incitatoria”, è prassi ora definirla. Sui temi politici del momento
(papa Woytiła, gli scioperi, i governi). Raccontati con semplicità, fino all’‘80-‘82,
quando il Gruppo non si sente più in sintonia col Partito, e con se stesso, e
si scioglie. E molto sentimentale. Le canzoni non resistono, ma l’esperienza
del piccolo Gruppo si racconta affascinante, del modo di essere comunisti negli anni 1960-1970 – in
Emilia-Romagna.
Filippo
Vendemmiati, Gli anni che cantano, Sky Arte
mercoledì 9 marzo 2022
Chi era Pasolini - 2
In quanto personaggio,
il Pasolini senza dubbio più incisivo e duraturo riesce alla rilettura tanto brillante
quanto inconcludente. Come è dei polemisti: talmente anticonformista da
mordersi la coda. Si nota specialmente dopo, a distanza, ma anche in vita se ne
poteva leggere l’evangelico è necessario dare scandalo maneggiato con calcolata
disinvoltura per scandalizzare il borghese. Per il modo di porsi, e anche per
una biografia che lui non nascondeva o negava, e non si può evitare.
Era
un passatista – “l’unica forza contestatrice è il passato”. Non un tradizionalista,
alla Guénon, alla Evola, alla Eliade. Un medievista. E non alla san Francesco -
amava il suo piccolo lusso e le comodità, curava l’abbigliamento, la
capigliatura, le “buone cose di pessimo gusto”, l’automobile, la casa, le seconde
case, in campagna, al mare, i ritratti, propri. Benché morendo a capo, a suo
dire, di “dieci anni che hanno visto la consumazione di un genocidio umano e
antropologico”, confidava a Scola che lo voleva il Virgilio di un suo film. E però
nemmeno disperato: progettava, dopo la sfida di “Salò-Sade”, un “Porno-Teo-Kolossal”
– per la “femminilizzazione del maschile”, vasto programma. E un “Petrolio” di duemila
pagine. Incapace di una relazione affettiva, una vita di marchette.
Era
contro il divorzio, al referendum del 1974. E poi contro le ipotesi di
regolazione dell’aborto. E contro al scuola.
Qui modellandosi su Papini. O su Longanesi – identiche le bestie nere: edonismo,
materialismo, e tante frasi, “La scuola inutile” diceva un libro del “Borghese”
longanesiano, prima di diventare fascista, alcuni anni prima. Storicamente, fu l’esigenza del servizio
militare obbligatorio a creare l’istruzione obbligatoria, roba da caserma (questa
gli è mancata).
Con
la comoda metafora guicciardiniana del “palazzo” poteva permettersi tutto,
basta mettersene fuori. Un buon retore, se ancora incanta, ma non un buon
maestro.
Ancora
nel 1974, al processo, non volle colpe del Pci a Porzûs. Al fratello Guido, che
pure ricorda “generoso e entusiasta”, che era sfuggito all’agguato ma fu
rincorso e finito dopo essersi arreso, limitandosi a dedicare un compitino, tra
parche e fati, lui che ogni evento turbava. Scusandolo su “Vie nuove”, l’illustrato del Partito: “Credo che non ci sia nessun
comunista che possa disapprovare l’operato di Guido”. Morto di diciannove anni,
si ricorderà, vittima della sottomissione che Togliatti aveva ordinato, con lettera
circolare, alla causa internazionalista, nella fattispecie slava. Guido il mal
amato, indifferente alla madre, che aveva opposto i pugni quando i compagni al
ginnasio deridevano il fratello maggiore ricchione, riportandone commozione
cerebrale. Nei dodici mesi di guerra partigiana Pier Paolo se ne era stato chiuso
in casa, sfollato dove non c’erano rischi, neanche l’arruolamento forzato di
Salò, lui che da bambino giocava ai soldati.
Da
ultimo, nel romanzo “Petrolio”, flirterà col peggiore complottismo di quegli
anni, complotti tristi, quasi settimanali, da spie tristi, senza arguirne la miseria.
Ad agosto 1975 vedeva Moro morto: “La meccanica delle divisioni politiche del
Palazzo è come impazzita: essa obbedisce a regole la cui «anima» (Moro) è
morta”, vaticinava. Mentre Moro occupava le piazze. “Non ci processerete nelle
piazze”, urlando - “non me vivo”, sembrava dire. Accantonando
il meridionale understatement e la
scaramantica stanchezza - come quando alla Camera negò il Piano Solo. E sostenendo,
giurisperito emerito, che “il partito viene prima dello Stato” – il Partito è
lo Stato era Togliatti, non l’anarchia ma una presa di possesso rapida.
L’ananke
che corsaro lamentava sarà stata la colpa. Nonché la Resistenza, non fece
neppure la guerra, se non per pochi giorni dopo l’8 settembre, e aveva
vent’anni: l’occupazione passerà libero a Casarsa, solo fremendo per corpi
giovani. A ventuno, a guerra non ancora perduta, per la quale caldi disegni
abbozzava e consensi raccoglieva nel fascista “Setaccio”, si schierava in divisa littoria all’università per denunciare
gli amici disfattisti. “Da uomo”, riconosce ne “La realtà”, “senza umanità,\ da
inconscio succube o spia,\ o torbido
cacciatore di benevolenza” – i fratelli Telmon, Sergio, il suo amico d’allora,
e Giorgio non ne serbavano grato ricordo. Dopodiché la cultura europea scopriva
a Weimar, nel viaggio premio della gioventù fascista. “Le onde” avendo calcato,
“per qualche tempo, che mandano\ alla Rivolta Reazionaria”. Ora, se Pasolini
fosse fascista, i suoi ragionamenti sarebbero detti fascisti. Ma lui si vuole
comunista, indefettibile. Ha per questo dimenticato il fratellino partigiano,
ucciso a tradimento dai comunisti, e la persecuzione dei comunisti in quanto
pederasta impunito. Il Partito celebrando, retorico, liturgico, devoto.
(continua)
Matricidio, Saba ci provò con l’esorcismo
Stefano
Coletta, il direttore di Rai 1 visto a Sanremo, all’ultima edizione del
festival, si laureò con una tesi su Saba e il matricidio, Cinquegrani presumibilmente
lo ha seguito - anche lui, come Coletta,
abbandonando subito dopo la filologia (fa il critico cinematografico). Entrambi
colpiti dai versi per una volta tonanti di Saba:
“Sempre,
come ritorni primavera,
di me
tu devi ricordarti. Io sono
il
matricida Oreste, e un sacro dono
porgo
ai mortali: la Tragedia austera”.
Romolo
Rossi, lo psichiatra genovese che per primo l’ha ipotizzata, la psicosi del matricidio,
(“Umberto Saba: Oreste ed Edipo”), le trova due riferimenti solidi. Uno è in “Bersaglio”,
uno dei sonetti della raccolta “Versi militari”, 1908, di Saba quasi
esordiente: “L’ossessione matricida, sintomo centrale della sua nevrosi, è bene
rappresentata nell’immagine materna che si staglia angosciosa di fronte al
mirino del suo fucile:
“…. Va
la temibile frustata
E una
sagoma cade…”.
L’altro
riferimento è la quartina famosa già citata, del 1924, sotto il titolo
“L’eroe”, uno dei componimenti della raccolta “Prigioni”. Saba, dunque, prigioniero
della sua fantasia matricida?
Saba ha
sempre avuto, anche in vecchiaia, il peso di avere turbato la vita nascendo, la
vita della madre in primo luogo:
“Or se
ti guardo un rimorso mi strazia
Per
quanta pace, nascendo, ho turbata”.
Di una
ragazza madre, abbandonata dal padre per motivi che non si sanno ma nella
memoria del bambino Berto sempre triste e arcigna – mentre è allegro e
ritornante il racconto della balia cui la madre l’ ha affidato per i primi tre
anni, Peppa Sabaz, da cui il poeta ha preso il nome d’arte.
Ma del mito
di Oreste che sempre lo avrebbe perseguitato non si trova traccia. Neppure nella
saggistica su Saba, con queste eccezioni – ce ne saranno altre ma si sono
perdute, insieme con gli studi sul poeta triestino, da tempo ormai desueti.
La
traccia viene collegata anche ai contemporanei di Saba, come fosse un tema storico,
ricorrente in un’epoca, a metà del Novecento. Del mito di Oreste Visconti
faceva poco dopo uno degli eventi motori de “La caduta degli dei”, per la parte
incesto. Ma “la
solitudine è la prima conquista di un uomo”, è ben un verso di Saba, il suo leitmotiv.
Giacomo
Debenedetti, che di Saba fu una sorta di patrono critico, oltre che amico
fraterno (paterno) e anfitrione nell’anno che Saba trascorse a Roma a fine
guerra, ed è anche il critico che prima e più di ogni altro fece uso della
psicoanalisi nella lettura, non dava alla cosa molto credito. Se non per un
aspetto, per un fatto anzi, di sua conoscenza, nel quale il matricidio si
sarebbe in qualche modo materializzato. Nei due saggi su Saba recuperati nella
raccolta “Italiani del Novecento” ne fa una questione di esorcismo, di passione
per il diabolico occulto.
La sensualità di
Saba Debenedetti dice, come tutti, “onesta e contenuta”. Per la madre ha risentimento,
ma più pena: “Tu pel fanci ullo eri l’infallibile,\ eri colei che non conosce
errore,\ l’umile tua parola nel suo cuore\ scolpivasi, così ch’ebbe indicibile\
angoscia, quando per la prima volta,\ non men d’ogni altra, la tua mente folta\
d’errori discoverse”. Quando “discoverse” il padre – il “mio povero padre ramingo\ cui malediva mia madre”
(“Mio padre è stato per me «l’assassino»,\ fino ai vent’anni che l’hop
conosciuto.\ Allora ho visto ch’egli era un bambino,\ e che il dono ch’io ho da
lui ho avuto”).
Ma a Saba imputa, nel
saggio “La sua Quinta Stagione”, un “connubio di sincerità impulsiva e di
segretezza che talora gli si leggeva anche in faccia”. Il tremendismo di
“Epigrafe”, la cerimonia greve di espiazione cui la breve ultima raccolta ci convoca,
è legato a un segreto, spiega: “Il segreto, che egli non poté confidarci da
vivo, trapela principalmente da ‘Vecchio e giovane’, l’ultima, forse, delle sue
maggiori poesie”. È un segreto che il critico conosce, e decide di dire: “La
poesia ‘Vecchio e giovane’ confessa, e teme di non essere riuscita a espiare,
un pericoloso, crudele, tentativo di esorcismo, per il quale Saba si valse di persona
che gli era cara”. Saba “era istintivamente un adepto delle pratiche
esorcistiche”. In qualche modo ne conosceva “i rituali e procedimenti esecutivi”.
Il matricidio ha dunque realizzato, provato a realizzare, sotto forma di esorcismo,
di diavoli da scacciare?
Il critico, che di
Saba ne sa più di ogni altro (nelle testimonianze sparse anche di suo figlio, Antonio
Debenedetti), non indulge al pettegolezzo. Ma, per quanto cauto, insiste: “Che
egli ammettesse volentieri di avere tanti rabbini dietro le spalle, tra i quali
ci sarà stato indubbiamente qualche rabbino miracoloso ed esorcista, questo può
ancora essere un indizio vago. Più probante è il fatto che al proprio incontro
con la psicanalisi abbia dato subito un’importanza decisiva” – la psicanalisi
viveva come un rituale esoterico. E ancora: “A descrivere le cose in maniera un
po’ allarmata, alla quale però egli steso indulgeva, il suo male di vivere, lo
stesso suo sviscerato e contraddetto amore di vivere, così ansioso che arrivava
a sospettarsi illecito al pari del suo amor dell’amore, gli si manifestavano
per incubi, coazioni, angosce, minacce, presenze e pensieri infestanti:
qualcosa di analogo, insomma, a un invasamento da spiriti maligni”. Più
preciso: “Che altro era stata, fin dagli inizi, la sua poesia? Quello che negli
altri poeti si chiama giustamente catarsi, in Saba meritava più propriamente il
nome di esorcismo”. Freud fu un Ersatz e un aiuto, a vedere più chiaro,
se possibile, in questi impulsi.
Alessandro
Cinquegrani, Umberto Saba. Io sono il matricida Oreste, Marsilio, pp.
253 € 22
martedì 8 marzo 2022
L’“armiamoci e partite” di Biden
Gli Usa “dipendono”
dal petrolio russo (ne importano) per l’8 per cento del fabbisogno, la Ue per il
25 per cento - la Germania per il 30 per cento, la Polonia per il 58, la Slovacchia
per il 74, la Finlandia per l’80, la Lituania per l’83 (l’Italia, che nel 1955 avviò
per prima le importazioni di petrolio russo, solo per il 13 per cento).
Ci sono
delle asimmetrie nelle sanzioni, nella risposta alla guerra di Putin, tra gli
Stati Uniti e l’Europa.
Allo stesso
modo, sperequato, come si annuncia per il petrolio hanno operato le sanzioni
sul sistema bancario. Nessuna banca americana ne è stata colpita, alcune
europee sì, subito e forte. Tra esse Unicredit (meno 44 per cento a piazza
Affari) e Intesa (meno 35 per cento). Con la francese Société Génèrale e l’austriaca
Raiffeisen Bank International, espressione delle banche popolari. Uno studio commissionato dalla stessa Unicredit trova tra le banche presenti in Russia solo istituti europei.
Il sequestro
dei depositi russi in valuta comporta il ripagamento delle obbligazioni in
scadenza in rubli. I depositi sono prevalentemente nella Federal Reserve americana,
le sottoscrizioni sono prevalentemente europee.
Per gli
Stati Uniti lo stato di guerra in Europa e l’aumento di costo del greggio significano
un rilancio dell’industria petrolifera. Da qualche tempo bloccata dalle
regolamentazioni e gli impegni a protezione dell’ambiente, e dai costi crescenti
della ricerca e della produzione, specie per i greggi “pesanti” (da scisti bituminosi,
praticamente asfalto).
Allo stesso
fine viene utile in America l’anticipo dei futures sui greggi, oggi a 130 dollari
a barile: la vendita oggi dei prodotti petroliferi ai prezzi attesi favorisce il
finanziamento e l’investimento nella ricerca e produzione ad alto costo di idrocarburi
negli Stati Uniti, anche se aggrava il rischio di inflazione.
L’Inghilterra,
molto esposta nella guerra diplomatica e verbale alla Russia, ha disposto di bloccare
le importazioni di petrolio dalla Russia “verso al fine del 2022”, “progressivamente”
e “selettivamente” – incidono sulle importazioni totali di tutto il Regno Unito
per l’11 per cento.
Chi era Pasolini
Usano
le celebrazioni, delle morti, delle nascite, non c’è altro giornalismo applicato
alla letteratura, e il trionfo che si celebra di Pasolini non fa meraviglia. Se
non per l’unanimità, come personaggio e come artista, che lo avrebbe sorpreso. E
per la superficialità, che non gli si addice: artista poliedrico, avrebbe meritato
anche uno sguardo critico – ne ha avuto uno solo, di Berardinelli, non nuovo,
che non ne salva praticamente niente, una stroncatura: un “personaggio-mito”, “più
una presenza critica che l’autore di un’opera poetica”.
Nelle
celebrazioni Pasolini, che era persona mite, malgrado le trenta o quaranta denunce,
per violenze di ogni tipo (senza mai una condanna), echeggia D’Annunzio un secolo
fa, artista versatile (poeta, narratore, drammaturgo), polemista e uomo d’azione,
erotomane. Che era però un personaggio che si voleva mito, a Roma, a Parigi, in
Versilia, in guerra, a Fiume, al Vittoriale, tra veli e incensi. Da D’Annunzio
la bandiera era passata nel dopoguerra a Malaparte, senza il genio. Pasolini vi
si sovrappose, “battibecchi” compresi, i dialoghi polemici con i lettori,
presto oscurandolo. Ma allora da piccolo borghese, ordinato: senza mai un
eccesso, malgrado la fine orrenda, vestito e pettinato sempre correttamente, perbene
nei modi, preciso nell’eloquio, mai volgare, con la cura come tutti della
modesta affluenza, dapprima ospite, orfano di fatto con la madre, dello zio a piazza
Costaguti, ora chic, allora lercio vecchio ghetto, poi rapidamente, sempre con
la madre, accudito e accudente, dal piccolo alloggio a ponte Mammolo all’appartamento
in progressione a Monteverde Nuovo, a Monteverde Vecchio (non amato dal
barbiere, il signor Mario, dal macellaio, il signor Dario, dai baristi - “non
salutava”), a Monteverde Nuovo, a Monteverde Vecchio, all’Eur, con casale a Chia e
villa a Sabaudia, orgoglioso dell’Alfa 2000. In ascesa costante anche letteraria
e sociale: dapprima con i coetanei e compagni di studi, apprezzato de loing
da Contini, poi il timido approccio con Elsa Morante, cioè con Moravia, e con
Bertolucci (Attilio), e così via. Non disdegnando le “presenze” promozionali,
nelle cronache, nel gossip: l’incongrua relazione con Maria Callas, dopo
Laura Betti, o tanti dei processi-scandalo. Il direttore del “Corriere della
sera” che si apriva furibondo con gli scritti corsari, Piero Ottone, raccontava
di aver dovuto disinnescare una bomba del suo kommando Pasolini, pare
con soddisfazione dello stesso poeta, che voleva insinuare dentro il giornale
il cazzo, la parola.
E
dunque? C’è molto da dire in realtà su Pasolini, malgrado i tanti libri a lui
dedicati, i tanti articoli, e il dovuto ossequio. Anche perché ha lavorato tanto.
Nemmeno a questo si riflette: Pasolini è morto di soli 53 anni. Lasciando un’opera
apparentemente sterminata, di poesia, narrativa, teatro, cinema, pittura,
saggistica (linguistica, società, costume, politica). Imponente e comunque
significativa. Con molte incongruenze. Come tutti, ma nel suo caso non bisogna
dimenticarlo.
Chi
era Pasolini è, più che in ogni altro caso, l’approccio più giusto per valutarne la
giustezza e la qualità – le qualità.
(continua)
Che fatica, vostro onore
La
sofferenza dell’esordio continua, duro aspettare la fine. Con quattro milioni
di spettatori accreditati (in realtà cinque subito dopo gli “ignoti” di
Amadeus, e tre nella seconda parte), non è più il lunedì trionfale degli
sceneggiati polizieschi di Rai 1. Di “Montalbano”,
“Màkari”, “Tataranni”.
È
difficile raccontare dei casi giudiziari, che altrove sono invece la formula
prevalente? Forse non si può fare un eroe di un giudice italiano, sia pure
Stefano Accorsi, la giustizia in Italia è confusa – ma “Tataranni” è ben un
giudice.
Una
sceneggiatura ambiziosa, cioè complicata, vuole la vicenda borderline: un
giudice pignolo in Tribunale, giusto, è uno che ha lasciato morire la moglie
suicida per trascuratezza, e ora inscena un delitto per salvare il figlio
pirata della strada. In una rete di mafie e delinquenze varie. Un polpettone
che non incuriosisce e stanca.
Alessandro
Casale, Vostro onore, Rai 1
lunedì 7 marzo 2022
Problemi di base bellicosi 2 - 687
spock
La guerra
sospende il giudizio?
La guerra è un
gioco a perdere?
È sadomasochismo
di massa?
Dopo Eva,
Caino, la storia non è onorevole?
Sta Dio per
odio, sarà un refuso?
“La meditazione della morte è meditazione
della libertà”, Montaigne?
Di chi?
spock@antiit.eu
Mazzini e la storia inutile
In un
giornalismo culturale ossessionato dalle ricorrenze – che solo sa fare
giiornalismo con le nascite e le morti – i centociquant’anni della morte di
Mazzini s’impongono per il silenzio. Non se n’è ricordato nessuno. O quasi - Carioti
ha organizzato una tavola rotonda su “La Lettura” con Roberto Balzani, Giovanni
Belardelli e Simon Levis Sullam. A Sullam si deve il solo libro pubblicato per
la ricorrenza: la riproposta del “Mazzini” di Salvemini, assortito da “I doveri
dell’uomo” dello stesso Mazzini. Si pensi per contrasto, per capirsi, alle diecine,
centinaia di libri su Pasolini, per i cento anni della nascita.
Il
teorico dei doveri non
va nell’età dei diritti, e anzi della licenza. E non va l’immagine che se ne
tramanda, veneranda, di saccente, predicatore. Mentre Mazzini fu soprattutto un giovane, e un uomo d’azione:
fondò la Giovane Italia, nel 1831, quando aveva ventisei anni. Il primo partito
politico d’Europa. Un’associazione cioè non meramente culturale ma politica, con
un programma, ragionato e sloganistico, un giornale su cui dibatterli, e dei
piani d’azione. Subito assortito, tre anni dopo, altra primazia, con la Giovane
Europa, primo nucleo politico di quello che sarà, nel Novecento, l’europeismo. Lo
spirito nazionale nascente prospettando non come fonte di guerre e stermini,
come sarà per un secolo e mezzo. Anzi per due, considerando la guerra della
Russia in corso contro l’Ucraina. Ma come
progetto e prospettiva di solidarietà, di crescita comune.
Pesa l’appropriazione che Mussolini
fece di lui? Senza sua colpa: Mussolini era stato mazziniano in gioventù, come
Nenni e molto socialismo. A Mazzini si deve pure, prima di Marx e la sua
conversione al comunismo col “Manifesto” del 1848, un programma d’azione per i lavoratori,
lanciato da Londra a novembre del 1840 col giornale “L’Apostolato popolare”: sotto
i motti “Dio e il popolo”, “Lavoro e frutto proporzionato”, il primo numero si
apriva con l’appello “Agli italiani e specialmente agli Operai Italiani”, e
chiedeva la costituzione di un’associazione dei lavoratori – darà poi notizia
della costituzione di un sindacato degli operai italiani (è il giornale su cui
Mazzini cominciò a pubblicare “Doveri dell’uomo”. E se Mazzini aveva il mito di Roma,
questa non era la Roma imperiale di Mussolini, ma quella della “virtù”
repubblicana.
È però vero che il poco che rimane
di Mazzini se l’era appropriato il Msi, quando ancora la destra era un partito,
e poi An. È
al vecchio Msi, poi An, che erano dovuti negli anni i (pochi) ricordi di
Mazzini, nelle celebazioni periodiche risorgimentali che si tengono al Gianicolo.
Sul quale naturalmente troneggiano Garibaldi e i Mille.
Anche in
ambito “repubblicano”, della virtus popolare, si celebra Garibaldi, che
ha fatto cose buone e anche ottime, e brutte – per esempio la consegna della
Repubblica (Dittatura) del Sud ai Savoia a Teano. E si dimentica Mazzini, che
ha fatto cose brutte, e buone e buonissime, per esempio la Repubblica Romana.
Nel 2009, per i centocinquant’anni della Repubblica Romana un monumento fu
commissionato al Gianicolo, nella forma poi vincitrice dell’architetto Annalaura
Spalla, lo statuto della Repubblica trascritto su cotto sulla balaustra della
balconata. Inaugurato quattro anni dopo da Napolitano, ma concepito dall’amministrazione
di destra.
Ma forse, più dei doveri, peserà
probabilmente il Risorgimento. Di cui dopo tanto leghismo e vaffanculismo
nessuno più si ricorda, o sa che farsene. L’Italia ha una storia inutile.
L’amore allargato, per ridere
“Tutti
quelli che qui stasera si odiano”, dice più o meno il cameriere-cuoco-governante
romagnolo della famiglia borghese romagnola allargata che fa la storia, “dieci
anni fa erano legati da storie d’amore”. Un’idea geniale, vedere come questo fuggevole
amore si allarga, si restringe, si sfarina o si brutalizza. Svolta anche in
maniera geniale, a basso e bassissimo costo: attorno a un tavolo, come è ormai quasi la
prassi dopo “Perfetti sconosciuti”. Svolta un po’ troppo: troppe le cose che vi
si dicono, troppo sinteticamente. Nella prima parte.
Il
sornione Marioni, noto per le parodie teatrali, cerca di legare il tutto nella
seconda parte, facendo la parodia di se stesso. Nel ruolo dell’outsider risolutore –
dell’angelo. Dell’angelo delle donne: al rehab per tossici, in cucina, a letto. In una famiglia allargata un po’
intrecciata: mogli fedifraghe sempre a capotavola, anche con l’amante di turno,
“compagne” più piccole della figlia, genitori più cinici dei figli, l’eterna
ragazza che si fa i ragazzi e poi li lascia, e l’ultimo Apple sopra a tutti i desideri.
Cosa manca
per farne un film geniale? Quello che c’è di più, di troppo: sottigliezze, e
inviluppi. A volte si dice di più con meno. Le storie d’amore interscambiabili –
oh, la tolleranza - hanno fatto molta strada da Goethe e le “Affinità
elettive”, anche più strambe di quelle che Marioni manovra, ma forse di doveva
ridere di più.
“Va
bene così” è una commedia, a partire dal titolo, ma si parla e si gestisce come
una tragedia. Certo, i “tipi” contemporanei che inscena, sempre loici, della
logica social, pronta e breve, sono da satira assassina.
Francesco
Marioni, Va bene così, Sky Cinema Due
domenica 6 marzo 2022
Secondi pensieri - 476
zeulig
Diavolo – È la prova di Dio? Così trent’anni fa Saramago, nel “Vangelo secondo Gesù Cristo”, faceva individuare a Dio stesso il demonio: “Perché io sia il bene, è necessario che tu continui a essere il male, se il Diavolo non sussiste come Diavolo, Dio non esiste come Dio, la morte di uno sarebbe la morte dell’altro”. Che però è una sorta di entimema, retorica – qui ha ragione la Bibbia, il bene e il male vengono da Dio, sono (il problema del)la libertà. Il paradosso di Dio non è il male, è la morte. Dopo la creazione. La creazione finita.
Matricidio – È un buco nella
storia, recente. Nell’ambito del femminismo, ma anche prima. Il mito non lo
sottovaluta, la storia non lo registra: ci sono sovrane e conduttrici, da
Nefertiti e Semiramide in giù, e madri Messaline, ma non despote da abbattere.
L’“Edipo” di Freud e Jung lo esclude – è asimmetrico: Edipo è parricida ma non
matricida (la madre Giocasta sopravvive all’incesto allegramente, o in
alternativa si suicida).
Novecento – Il secolo delle
rivoluzioni. Come l’Ottocento, ma più “risolutivo” – totalitario, dittatoriale.
Psicoanalisi –
Una terapia o un virus? Mutevole, instancabile. Interminabile per essere
diffusiva e non risolutiva. Come aiutare l’alcolizzato versandogli da bere. Poco
certo, con sollecitudine perfino, con dosaggio che si pretende terapeutico, nel
mentre che perpetua la dipendenza.
Una terapia che cerca,
fomenta, estrae, ripropone un virus, inafferrabile. Per il suo stesso metodo:
isolare un fatto relazionale - familiare, generazionale, comunitario,
identitario, di genere (di ogni genere). Inducendo la colpa e i sensi di colpa
invece di scioglierli o allentarli. Che cura con l’attesa – vediamo cosa
succede. E con la separazione. Come avviene ora con il virus animale, con i vaccini
che sono risolutivi, forse, per un anno, otto mesi, sei, e col rifiuto dei
vaccini. Ma su basi molto meno calcolabili o analizzabili che l’Rna o le altre
sostanze o procedure farmaceutiche. Una terapia psicotropa, che come ogni altra
induce dipendenza. Con effetti collaterali anche gravi.
È uno stimolo alla creatività
(Bernhard, Saba, Fellini, Moretti) o la ottunde – la stimola come sfida? N.M., forte
artista, che si vede triste e solitario per strada, per lunghi periodi, marciare
sempre e soltanto a fini terapeutici e non per piacere, sopravvive col genio alla
psicoanalisi, che periodicamente (metereopatia, rapporti affettivi, bilanci –
personali, familiari, con moglie, figlio, madre, amici, creativi, produttivi,
aziendali – i “problemi” di ognuno, della vita comune) lo ammorba (isola, confonde,
indebolisce, prostra, atterra) sempre si sente “inadeguato”: va in analisi come
si assume cocaina, per uno shot mai risolutivo e sempre meno durevole,
sapendo che asservisce e non libera.
È nata, ed è rimasta,
maschilista, oltre che sessuomane – si sa, ma non si dice, né si risolve. C’è un Edipo, cioè l’incesto, ma non il
matricidio. Nell’alveo parentale (genitoriale), familiare. O un Medea, perché
no. Non tanto in rapporto all’altro, ma proprio ai figli.
Non c’è neppure un Caino,
tra fratelli.
E non c’è il vasto mondo.
Rivoluzione
– Termine e concetto di colpo sparito, in politica e nel linguaggio comune, dopo
essere stato ingombrante e anzi totalitario, pro o contro, per tutto il
Novecento.
Da Feltrinelli avevano realizzato nei remoti anni 1970 la macchina di Raimondo Lullo con le frasi fatte della rivoluzione. In forma di cilindro, con anelli mobili combinabili in infinita saggezza. La macchina di Lullo aveva cerchi di legno invece che di cartone, ricoperti da simboli di Dio invece che di frasi fatte, e produceva un’infinita sapienza teologica. Ma qualcosa resta sempre fuori. L’uomo di Kant “si dedica eternamente alla follia di spingere il masso di Sisifo a una certa altezza per poi lasciarlo rotolare in basso, e poi di nuovo in alto e di nuovo in basso”.
Non ci sono poeti nella rivoluzione, non
soltanto in Russia, né filosofi. Prima sì, e dopo, ma non durante e con.
Vengono prima Voltaire, Rousseau, Buffon, Diderot, lo stesso Montesquieu. Dopo
vengono Constant, Chateaubriand, Balzac, Stendhal e Victor Hugo. Durante Chénier, Desmoulins, Marat, Fabre
d’Eglantine. Vengono prima Tolstòj e Dostoevskij, anche Blok e Mandel’štam,
dopo Majakovskij, Pasternak, Bulgakov, Cvetaeva, Sklovskij. In un mondo
animato dalla paura e dallo amore di sé sarebbe bello ritrovare l’eroismo. Ce
n’è bisogno, benché i bronzi non piacciano, né i marmi, tanti e insopportabili
essendo i lamenti dei ricchi dell’inguaribile Freud. Dell’eroe, dice bene il
non eroe Henry Miller, “la virtù più tipica è di essere in sintonia con la
vita, d’accordo con se stesso”. E tanti ce ne saranno, molti più che all’epoca
di san Giorgio e Sigfrido, sicuro, che lottano nel traffico. Ma faticano.
La rivoluzione non è la
locomotiva della storia. Non è l’inizio di una nuova storia, ma l’accelerazione
d’una fine. La guerra lo è, lo è stata troppe volte, e ancora oggi.
Il “movimento”, o contestazione”, o “Sessantotto”, è, sarà stato, una rivoluzione poiché ha liberato l’Italia. L’Italia svolgeva il compito assegnatole da De Sanctis, che cadde da cavallo a Zurigo, nell’ultima pagina della decisiva “Storia della letteratura”. Che Noventa, il poeta ignorato, così sintetizza: “Tutto va a gonfie vele nel resto d’Europa per i teorici del progresso. Ma non in Italia. Qui essi urtano nell’Alighieri”. Ma è un’eccezione.
La rivoluzione è tradizione: la storia si perpetua attraverso la rivoluzione e non la conservazione. La tradizione vive nel moto rivoluzionario, alla moda dell’epoca, non nella restaurazione, che lusinga i deboli, d’istituzioni e simboli logori. La rivoluzione non è rivoluzionaria, se i suoi nuovi principi adatta ai vecchi. O è rivoluzionaria la controrivoluzione, senza le forche. La rivoluzione è una grande sega, ecco cos’è. Ma non bisogna disperare. “L’uomo non è che un’invenzione recente, una figura che non ha due secoli, una semplice piega nel nostro sapere, che sparirà non appena questo avrà trovato una nuova forma”, ha appena scoperto Foucault, che è un filosofo intelligente. La storia continua, non è finita nell’Olocausto, né a Hiroshima. Certo non con la caduta del Muro di Berlino, che sciocchezza. Continua nel comunismo divoratore perché è la sola rivoluzione permessa, dai missili di teatro dell’Urss.
Dell’ultima ondata “rivoluzionaria” europea questo si poteva dire all’epoca, 1975-1976: “Il compagno Cunhal avrà lottato una vita per nulla: Mosca non gradisce il suo comunismo, l’ammiraglio Pinheiro de Azevedo lo sostituirà, che a Lisbona governa le sinistre. Cohn Bendit s’è ritirato a fare il maestro d’asilo autogestito a Francoforte e scrive già le memorie. In cui non ricorda nulla, se non le seghe che s’è fatte fare, da maestro, dai bambini. Nanni Moretti autarchico si masturba invece da solo, avendo fallito quasi tutto ai vent’anni. Mentre Sartre sul Corriere della sera autorevole spiega la furia contro Pasolini come la violenza d’un invertito, di uno che si sente invertito. Già Freud lo diceva: la rivoluzione sia breve, altrimenti si diventa reazionari”.
zeulig@antiit.eu