sabato 19 marzo 2022
Ombre - 606
La guerra è brutta e terribile. Fa male vederla ridotta a
spettacolo. Il road show del presidente ucraino Zelensky, un comico, si può
ancora prendere per una performance teatrale, organizzata da abili pr. Ma l’equipaggio dell’Iss,
la stazione spaziale multilaterale (con i russi dentro) che brinda in divisa
giallo-blu, i colori dell’Ucraina, roba da fotoshop, questo è se possibile
ancora più terribile – cinico, menefreghista.
Da più
giorni Biden fa sapere che è vicino a un accordo con l’Iran per il nucleare.
Con la mediazione cioè di Putin?
Anche
Israele, che contro il nucleare iraniano è pronta da tempo a una guerra
preventiva, sembra convinta che l’accordo si farà. Ma nel caso di Israele è
comprensibile: ha sempre avuto appoggio diplomatico da Mosca, fin dai tempi di
Stalin, anche quando Mosca si schierò col nazionalismo arabo, e con i
Palestinesi.
Titoli
bancari in Borsa in altalena, con la scusa della guerra. Intesa mercoledì su del
6,97 per cento, giovedì giù del 4,47, Unicredit su 6,02 per cento, poi giù del
5,40, e così via. Non c’è una ratio (la guerra non c’entra, la politica
monetaria nemmeno), c’è solo una Borsa, quella italiana, solo speculativa.
Per avere un parterre di operatori ridotto, e per deficit di normativa.
Ha dell’incredibile ma è un fatto l’aumento della benzina
di mezzo euro al litro, sulla quotazione future del greggio Brent – un gioco
di Borsa, tra proiezioni che un giorno danno il barile a 100 euro e il giorno
dopo a 130, senza che un solo barile sia stato spostato. O la scomparsa della farina
di frumento dagli scaffali, dove giaceva invenduta. Incredibile è che le
Autorità di controllo non intervengano, l’Arera per le fonti di energia, la
Finanza per l’imboscamento. Sono talmente commosse dalla guerra da non vedere?
Non c’è più l’art. 501 del codice penale?
Si
vota alla Camera in Commissione Affari Costituzionali il blocco di riforme proposte
dal centro-destra, e al primo punto c’è l’elezione diretta (popolare) del
presidente della Repubblica. Proposta da Fratelli d’Italia, elezione diretta battuta
21 a 19. Non mancavano molti voti al centro destra: sono bastate le assenze di
un deputato di Forza Italia e di uno della Lega. Non è una cosa seria, la
destra.
Non un
commento sulla guerra, nei media italiani. Di slavisti, di scienziati politici,
di cui pure i giornali abbondano in tempo di pace, di specialisti dell’Est Europa.
Solo immagini di disastri, la guerra è brutta. Ma perché, a che fine?
Niente
giornalismo nemmeno su persone e questioni in qualche modo pacifiche. Per esempio
sui rifugiati, tre milioni sono tanti. Ammesso che un milione abbia trovato
rifugio presso familiari, in Germania, Italia, etc., gli altri due? Devono
stare al coperto, c’è la neve e il ghiaccio, come si sfamano, hanno cure
mediche, hanno servizi igienici. Due milioni, in pochi giorni?
Sarebbe
anche un giornalismo comodo, non rischioso. Da paesi confortevoli, Polonia, Ungheria,
Romania.
Due
“notizie” su tre sull’Ucraina vengono da New York (storie umanitarie, da Madison Avenue, il cuore della pubblicità) e
da Londra (storie politiche – storie politiche, di servizi segreti, etc.).
Perché, le traducono in inglese?
Non
sorprende, e non fa scandalo, una notizia come un’altra, la Juventus, superclub
del calcio italiano, che paga come niente otto e anche dieci milioni di ingaggio, annui, strapazzata in Champions da una squadra di secondo rango,
nel caso spagnola, che fattura un terzo, paga ingaggi per meno della metà, ha un quinto del debito. Per la terza volta consecutiva, sempre alle prime eliminatorie,
sempre da squadre di secondo rango. Il calcio italiano è malato: si costruiscono
squadre con i procuratori, per le percentuali - con sfioramenti evidentemente ai
dirigenti. Senza tecnica, senza agonismo.
Due
arbitri non fanno perdere l’Inter domenica contro il Torino, e altri due fanno
vincere il Napoli. Non per errori, per decisioni prese senza incertezze. Ma
allora che campionato è?
Gli arbitri
del calcio, sport danaroso, decidono in base a che criterio? Ci sono le
correnti tra gli arbitri, come al Csm? Ogni volta che si dà un potere
decisionale in Italia è sempre corruzione.
Se
quello che tutti vedono non lo vedono ben due arbitri, con moviola al seguito,
non si potrebbe risparmiare uno dei due? E anche tutto l’apparato della
moviola?
La
strana “trattativa” di D’Alema per vendere aerei e navi da guerra alla Colombia
fa emergere un dato passato inosservato: il suo partito non “aveva una banca”,
come disse famosamente Fassino al capo della Lega Coop. Nel senso che ne aveva
molte di più, col Mussari di Mps, banchiere incongruo ma in grado di portare la
banca alla rovina, e Profumo (ora a Leonardo, la società degli aerei da combattimento)
a Unicredit – gruppo, peraltro, che lui ha fondato, insieme con la struttura cross-border.
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La guerra è sempre un macello
La guerra è sempre la stessa – un rituale? Per prove ed errori: casuale,
superficiale, sbagliata. Questa è quella dei “Promessi sposi”, cap. XXVII:
Già
più d’una volta c’è occorso di far menzione della guerra che allora bolliva,
per la successione agli stati del duca Vincenzo Gonzaga, secondo di quel nome;
ma c’è occorso sempre in momenti di gran fretta: sicché non abbiam mai potuto
darne più che un cenno alla sfuggita. Ora però, all’intelligenza del nostro
racconto si richiede proprio d’averne qualche notizia più particolare. Son cose
che chi conosce la storia le deve sapere; ma siccome, per un giusto sentimento
di noi medesimi, dobbiam supporre che quest’opera non possa esser letta se non
da ignoranti, non sarà male che ne diciamo qui quanto basti per infarinarne chi
n’avesse bisogno.
Abbiam
detto che, alla morte di quel duca, il primo chiamato, in linea di successione,
Carlo Gonzaga, capo d’un ramo cadetto trapiantato in Francia, dove possedeva i
ducati di Nevers e di Rhétel, era entrato al possesso di Mantova; e ora
aggiungiamo, del Monferrato: che la fretta appunto ce l’aveva fatto lasciar
nella penna. La corte di Madrid, che voleva a ogni patto (abbiam detto anche
questo) escludere da que’ due feudi il nuovo principe, e per escluderlo aveva
bisogno d’una ragione (perché le guerre fatte senza una ragione sarebbero
ingiuste), s’era dichiarata sostenitrice di quella che pretendevano avere, su
Mantova un altro Gonzaga, Ferrante, principe di Guastalla, sul Monferrato
Carlo Emanuele I, duca di Savoia, e Margherita Gonzaga, duchessa vedova di
Lorena. Don Gonzalo, ch’era della casa del gran capitano, e ne portava il
nome, e che aveva già fatto la guerra in Fiandra, voglioso oltremodo di
condurne una in Italia, era forse quello che faceva più fuoco, perché questa si
dichiarasse; e intanto, interpretando l’intenzioni e precorrendo gli ordini
della corte suddetta, aveva concluso col duca di Savoia un trattato d’invasione
e di divisione del Monferrato; e n’aveva poi ottenuta facilmente la
ratificazione dal conte duca, facendogli creder molto agevole l’acquisto di
Casale, ch’era il punto più difeso della parte pattuita al re di Spagna.
Protestava però, in nome di questo, di non volere occupar paese, se non a
titolo di deposito, fino alla sentenza dell’imperatore; il quale, in parte per
gli ufizi altrui, in parte per suoi propri motivi, aveva intanto negata
l’investitura al nuovo duca, e intimatogli che rilasciasse a lui in sequestro
gli stati controversi: lui poi, sentite le parti, li rimetterebbe a chi fosse
di dovere. Cosa alla quale il Nevers non s’era voluto piegare.
Aveva
anche lui amici d’importanza: il cardinale di Richelieu, i signori
veneziani, e il papa, ch’era, come abbiam detto, Urbano VIII. Ma il primo, impegnato allora nell’assedio
della Roccella e in una guerra con l’Inghilterra, attraversato dal partito
della regina madre, Maria de’ Medici, contraria, per certi suoi motivi, alla
casa di Nevers, non poteva dare che delle speranze. I veneziani non volevan
moversi, e nemmeno dichiararsi, se prima un esercito francese non fosse calato
in Italia; e, aiutando il duca sotto mano, come potevano, con la corte di
Madrid e col governatore di Milano stavano sulle proteste, sulle proposte,
sull’esortazioni, placide o minacciose, secondo i momenti. Il papa raccomandava
il Nevers agli amici, intercedeva in suo favore presso gli avversari, faceva
progetti d’accomodamento; di metter gente in campo non ne voleva saper nulla.
Così
i due alleati alle offese poterono, tanto più sicuramente, cominciar l’impresa
concertata. Il duca di Savoia era entrato, dalla sua parte, nel Monferrato; don
Gonzalo aveva messo, con gran voglia, l’assedio a Casale; ma non ci trovava
tutta quella soddisfazione che s’era immaginato: che non credeste che nella
guerra sia tutto rose. La corte non l’aiutava a seconda de’ suoi desidèri, anzi
gli lasciava mancare i mezzi più necessari; l’alleato l’aiutava troppo: voglio
dire che, dopo aver presa la sua porzione, andava spilluzzicando quella
assegnata al re di Spagna. Don Gonzalo se ne rodeva quanto mai si possa dire;
ma temendo, se faceva appena un po’ di rumore, che quel Carlo Emanuele, così
attivo ne’ maneggi e mobile ne’ trattati,
come prode nell’armi, si voltasse alla Francia, doveva chiudere un occhio,
mandarla giù, e stare zitto. L’assedio poi andava male, in lungo, ogni tanto
all’indietro, e per il contegno saldo, vigilante, risoluto degli assediati, e
per aver lui poca gente, e, al dire di qualche storico, per i molti spropositi
che faceva. Su questo noi lasciamo la verità a suo luogo, disposti anche,
quando la cosa fosse realmente così, a trovarla bellissima, se fu cagione che
in quell’impresa sia restato morto, smozzicato, storpiato qualche uomo di meno,
e, ceteris paribus, anche soltanto un po’ meno danneggiati i tegoli
di Casale. In questi frangenti ricevette la nuova della sedizione di Milano, e
ci accorse in persona.
Chi era Pasolini 12
Personaggio-mito lo dice Berardinelli, che
non ne apprezza la poesia né la prosa. Di umori forti. Iperletterato. Di “Petrolio” la
notte al Prenestino è la notte a Algeri di cui Gide nel “Diario” segna, tra i
“foglietti”, al 15 agosto 1914 – a guerra dunque in corso: “(Da dire dopo la
notte di Algeri, nelle Memorie):
quante volte la gioia amorosa”. È arcaista ai vent’anni, fra “Strapaese” e
Contini (la filologia): lingua, usi, tradizioni, terra. Poi civile alla Pound,
ma senza l’epica – in contemporanea con Allen Ginsberg, coetaneo: una poesia
fatalmente incitatoria. Pittorico mai, che era il suo genio. Come per un rinvio
costante, o un rifiuto. Con la psicosi stessa del rifiuto, lui che era
amatissimo – rifiuto da cui eccettuava i pochi, quelli del Pci, che sinceramente
lo praticavano.
Poeta sempre. Maestro e poeta. Da maestro, diplomato, fon datore e
anima dell’Academita de lenga furlan,. Pe ragazzi, il cugino Nico Naldini,
sedicenne, Tonuti, il grande amore della sua vita prima di Ninetto, quattordicenne.
Col coetaneo Cesare Bortotto. Si dirà Pasolini “uno dei cento poeti incerti”,
benché non di avanguardia, il polemista è elegiaco decadente. Quello che recita
la depressione, con arte per il successo. “Il poeta scrive per il successo”,
come dice il modesto Saba: “Ciò che il poeta canta sono le sue colpe. E le
canta per liberarsene, per confessarsi, per purificarsi. Se il pubblico gli
volta le spalle, le colpe gli ricadono addosso, più tormentose di prima”. È una
regola che sovrasta ogni altra, pena la scomparsa.
Ma
è “più una presenza critica che
l’autore di un’opera poetica” (Berardinelli). Poeta di immagini, al cinema, in
foto (la curava molto), in pittura. Non nella parola. Molti versi
scriveva, sempre di fretta, come appunti per futuri poemi. Scrive, in prosa e
in poesia, come sui giornali. Da giornalista, sempre al punto e ultimativo,
domani è un altro giorno. In immagine invece no: nei dipinti non si saprebbe,
non si mostrano, nei film sì: ha forti visioni, e in parte le trasmette.
Un giornalista d’immaginazione dunque fervida, s’immagina anche più di quanto
abbia reso, potuto o saputo rendere. Compreso il capitombolo finale, il rutto
contro tutto ciò che avrebbe voluto essere e non gli è stato concesso di essere.
Fin da quando fu cacciato dal partito e ostracizzato per atti impuri, fin da
subito cioè, dai vent’anni. Però sempre da maestro di scuola. Fino alla maledizione-santificazione
della forza bruta, che è bella, dell’uomo animale, di “Salò-Sade” e di
“Petrolio”. In una con la santificazione - editorial-culturale - del
“riflusso”. Per la voglia di essere o fare il maledetto a cui niente e nessuno
lo obbligava, ma à la page. San Sebastiano in estasi sotto i colpi.
Alla
lettura si propone Catone il Vecchio, censore severo della cosa pubblica,
cantore della ruralità, della frugalità, della modestia, mentre era giovane e
giovanile, atletico, e non si privava di nulla, anche se non dava confidenza.
Critico sociale efficace, e anche acuto, anche se bizzarramente (volutamente,
per fare scandalo?) passatista – magnificatore tra le tante di una realtà contadina
che lo aveva condannato e ostracizzato. Colonna del “Corriere della sera”, non
di un giornale di combattimento o di contestazione.
Le celebrazioni nei settimanali culturali e negli speciali giornalistici
sono bizzarramente uguali: un ricordo, di chi l’ha frequentato (ormai solo
Dacia Maraini) o solo incrociato, e due celebrazioni, di film pittorici, e della
musica che montava sui film, da violinista di poco talento da ragazzo, ma
appassionato. E nella prosa un maestro. Nel senso del maestro di scuola, come
voleva e aveva iniziato a professare, poi impedito dal noto scandalo. Da
maestro di scuola e da ricercatore, amante dell’arte dei classici, nonché della
filologia, subito riconosciuto da Contini. Da immoralista morale, con un senso
fortissimo del peccato, unico nella letteratura, non solo del Novecento.
(continua)
Giallo carcerario
Una serie
nerissima, di assassinii molto violenti, droga, corruzione, pestaggi, in un
carcere cupo, sporco, semiabbandonato, che si fa apprezzare in prima serata, da
spettatori cioè anche non luciferini. Merito forse di Zingaretti (la cosa lo
disturberà, ma rifà Montalbano in ambiente estremo), Anna Bonaiuto, e in
prospettiva Isabella Ragonese – l’unica ad avere un ruolo non scontato, anche
se in questi primi due episodi è solo una incongrua guardia carceraria femmina isolata
tra tutti uomini. Ma soprattutto effetto di un montaggio inventivo della storia
– che in sé è mera cronaca nera.
La sorpresa sopravviene
per i tempi, sfalsati, col prima-dopo, o il prima reso intuibile ma non spiegato
- e poi, forse, contraddetto: un impianto narrativo sapiente.
Giuseppe
Gagliardi, Il re, Sky Atlantic
venerdì 18 marzo 2022
L’Occidente disarmato dalla sua globalizzazione
L’Ucraina oggi, Taiwan domani, dopo numerose avventure totalitarie
in paesi emergenti, in Nord Africa e in Asia, sono i frutti perversi della
globalizzazione. Già potenzialmente distruttivi: è come se l’Occidente con la
globalizzazione avesse armato i suoi nemici.
Per un senso di giustizia economica – libero commercio per tutti –
e per la convenienza dell’Occidente, delle classi mercantilistiche dell’Occidente,
Europa e Stati Uniti, sono stati rafforzati e garantiti, perfino promossi,
regimi pericolosi per la sicurezza e per i diritti umani. Che si fanno sempre
più forti quanto più diventano ricchi. Per il beneficio delle economie occidentali,
si dice, ma più dei loro ceti mercantili. Compresa buona parte della grande manifattura
– Volkswagen etc..
La Russia come fornitrice di materie prime minerarie e agricole.
La Cina come fabbrica del mondo – non c’è “catena di produzione”,
probabilmente, che non faccia capo alla Cina. Due potenze il libero mercato
dell’Occidente ha irrobustito, che possono sfidarlo ora su qualsiasi aspetto.
Anche quello del benessere economico.
Russia e Cina, su due fronti si perde
Sembra impotente l’“Occidente” nei confronti di Putin. Ha preso
delle sanzioni, ma non può contrastarlo realmente. Non militarmente, non avendo
preparato la guerra, e comunque non volendo “morire per l’Ucraina”. E non
diplomaticamente. Forse nemmeno economicamente – le sanzioni per ora non mordono,
hanno solo ottenuto un aumento abnorme dei prezzi nei paesi sanzionatori.
Diplomaticamente, l’“Occidente” non ha peso, essendosi tagliato i contatti
con Mosca. Ricorre a “mediazioni” estemporanee, di Erdogan, di Bennett, di mediatori
senza poteri, buoni solo per la guerra mediatica - al più anfitrioni di un qualche
incontro tra le due parti in guerra, su decisione delle stesse parti, senza
poteri negoziali. E non ha alcun peso su India e Cina.
Il colloquio Biden\Xi come trasmesso al pubblico, di grandi
sorrisi senza esito, espone e sintetizza la debolezza centrale dello “schieramento
occidentale” – tra virgolette perché gli interessi divergono tra Europa e Stati
Uniti: nessun margine diplomatico per trovarsi impegnato in due “guerre”
contemporaneamente, contro Putin e contro Xi.
La guerra su due fronti è sconsigliata nell’Arte militare. Ci provò
Hitler, ed è andato al disastro. Gli Stati Uniti l’hanno vinta, ma in Europa c’erano
pure l’Armata Rossa, e la Raf (e in Giappone c’è voluta l’atomica).
Chi era Pasolini 11
La modernità ha sradicato le masse, prima
col salario, poi con la pensione, ora coi consumi. E la scuola, nata dallo
stesso mito laico che alimenta il salario, la rendita e i consumi, ne è, forse
senza malizia, il vettore: non rimedia alla disuguaglianza ma la riproduce. C’è
sapienza, nella scuola istituzione, ancorché perversa. Ma Pasolini la rifiuta
per sue mitologie autarchiche, di un mondo senza peccato e senza Dio che non è
mai stato di nessuno, se non dei suoi sottili burattinai, che non sono le
masse. È il nodo del male assoluto, del suo impossibile isolamento, o del
piacere di fare il male.
La volontà, sia perversa che buona,
ignorata da Platone, emerge coi santi, Paolo e Agostino, e non figura dopotutto
tra i peccati capitali, c’è l’accidia ma non la tortura. Senza contare che Pasolini
è invaso dalla pornografia, dalla sua stessa foja intesa come pornografia, la
dissoluzione in un lago di sperma, sterile.
Il suo comunismo era ritenuto dai comunisti
di ripiego: opportunista, non candido. “È per l’Istinto di Conservazione\che
sono comunista”, lui poetava - certo, grande piccolo opportunista è sempre il
poeta, per quel modesto guardarsi allo specchio nelle occorrenze quotidiane. Per
entrare nel cinema un giornale fascista gli è andato bene, dove apprezzava del “Bell’Antonio” la sua propria
sceneggiatura, e denigrava in quanto fascista l’ottimo autore del romanzo,
Brancati. O “La dolce vita”
elogiava in quanto film “decadente, provinciale, cattolico”.
È l’approssimazione che inficia le sue
narrazioni. Specie quelle che lo resero famoso, di periferie simboliche, inventate
– il linguaggio ne è prova. Dei “Ragazzi di vita” Ponte Mammolo era abitabile e
abitato, Pietralata un grande cantiere, e Donna Olimpia un quartiere modello
dell’urbanistica e architettura che ancora si ammirano (nel vecchio impianto) -
sia pure di Mussolini, delle “case popolari” dove restringeva i ladroni di Trastevere.
Delle altre narrazioni niente resiste, o poco di più. Si rilegge come un
conte Tolstòj di periferia. Che ama il
popolo da barin, scrivano della nobiltà - i suoi servi liberati sono i
coatti.
Provò col grande romanzo, ma “Petrolio” è terrificante.
È una bozza, quindi non gli se ne fa colpa. Ma immagina cose del più vieto storytelling
italiano. Il solito golpe, a cadenza
allora quasi settimanale, del complottismo italiano, e molto sesso a perdere,
iterativo, insoddisfacente - metafora o metonimia, ma di che? Il suo complotto
è il più vieto di tutti, a opera del solito Cefis, che avrebbe ammazzato Mattei
per impadronirsi dell’Eni, che invece era un impero con molti padroni e senza
soldi – presto infatti lo aveva lasciato per la Montedison. Una narrazione come
quelle che settimanalmente facevano “L’Espresso” e “Panorama” per attirare i
lettori – che infatti perdettero. Racconta come scrisse savonaroliano per il “Corriere
della sera”. Ma allora da borghese a più (meno) borghese, e non fa nemmeno
scandalo.
Un tributo francese per i quarant’anni della
morte, “Génies de Pasolini”, un numero speciale del mensile “Le Magazine
Littéraire”, che dichiarava il 2015 “anno di Pasolini”, lo celebra come autore
di cinema, pittore, autore di teatro, e mitologista. Perplesso sulle sue
polemiche con i “Cahiers du cinéma”, Barthes, Foucault, Sartre - sulle sue polemiche.
Non menzionando le sue narrazioni, e poco la poesia. Classicamente classificandolo
con Hervé Aubron, che curava lo speciale: “Un onest’uomo del Quattrocento o del
Rinascimento, un Europeo anche – se credete ancora a questo termine. Una
individualità o quanto atipica ma irradiante al di là della sua semplice
singolarità, al di là di una sola disciplina o di un solo territorio, ed è ben
in questo che fu un Europeo degno del nome. Così forte che poteva essere
pessimista, se non nichilista, e votarsi con tutto se stesso a ciò che faceva,
senza dimenticare il mondo che gli girava attorno. Pasolini era anche un
antropologo”, che promuoveva, nel mentre che ricercava, “una certa idea della
specie umana. Ed era un ecologo”.
(continua)
Vivere come disagio, la voglia di morire
È la raccolta che
il marito di Sylvia, il “poeta laureato” inglese Ted Hughes, pubblicò nel 1965,
due anni dopo il suicidio, segnandone la fama - la fama di poetessa, più che di
bella donna, innamorata, madre, giovane. Componimenti nervosi, febbrili, come “mitico
sprofondare nel silenzio dopo una concitata recita”. Scritti negli ultimi mesi di vita, anche due o tre al giorno.
Un succedersi di
immagini staccate. In versificazione classica per lo più, dal punto di vista tecnico,
più tradizionale. E forse per questo sorprendente: più originale. O più
drammatico?
I primi
componimenti sono idilliaci. Testi brevi, testimonianza di un disadattamento.
Di una vita come trascinata nel contesto urbano. “Pecorella nella nebbia” è uno
dei primi testi. Seguito da “Tulipani”, da “Papaveri in ottobre”, da memorie e
visioni disperse qua e là. Uno spaesamento che la giovane vissuta Sylvia tratta
(rappresenta) con maestria. Ma già ha introdotto la morte, con “Lady Lazarus”,
la lirica più famosa: “Morire\ è un’arte, come ogni altra cosa”). Il poemetto
della voglia di morte: “Non ho che trent’anni\, e come il gatto ho nove vite da
morire” è una promessa, una minaccia, a se stessa - “La prima volta successe
che avevo dieci anni.\ Fu un incidente.\ Ma la seconda volta ero decisa”.
L’immersione
prevale, in lunghi componimenti, di dialoghi a distanza, o a corto muso nel suo
vivere recluso, in ricordi, rimproveri, propositi, di terrificante annullamento,
rabbioso. Cominciando da “Morte&C.”, proseguendo con un cattivissimo,
insistito, “Lesbo” (un componimento che la riedizione paperback del 1999, sempre di Faber and Faber, omette....), e l’altro poemetto famoso, di nichilismo irridente, “Un
regalo di compleanno”.
L’edizione
americana del 1996 era introdotta da Robert Lowell, che la legge come una
poesia “personale, una confessione profondamente sentita”. In forma di “controllata
allucinazione, l’Autobiografia di una febbre”.
Sylvia Plath, Ariel
giovedì 17 marzo 2022
Chi era Pasolini 10
Il cinema dà
felicità, più dell’Ariosto quando si cantava a memoria. Grande invenzione
mitica, che Pasolini ha amato e non demolito. Benché nutrito di visi tenuti con
lo scotch, drogati, alcolizzati, sfioriti. E di promesse di lussuria in corpi
sterili, perfino avvizziti - il diritto alla felicità genera infelicità. Per la
forza del mito, una sorta di preghiera orfica, o di scongiuro: si prega Pan,
dio della paura, per non soccombervi – o Marx, dio della materia, per non
soffocarne. Per l’estro pittorico, colorato classico in “Medea”, “Edipo”, da arte povera nel “Vangelo”. Sin da “Accattone” che fa morire a Olevano
nei paesaggi rarefatti di Corot. Pittore in privato, elegiaco, intimista - di
se stesso. Lo dice pure Sciascia: “La storia, quando
è davvero quello che deve essere, consiste in un’elaborazione di films”. Anche
in tv, che non amava - il cinema è allegro, la tv piagnona - ha portato
freschezza, con Pound novantenne, per la comune ingenuità.
Pasolini è uomo di
cinema come Sergio Leone. Di più, è artista d’immagine. In pittura e al cinema.
Con le parole a volte, specie quelle polemiche. Ma in immagine è sempre felice: curioso,
imaginifico, partecipe. Anche nella misantropia terminale. Nel passato s’illuse
di far rivivere un mondo senza sensi di colpa - così leggeva la “trilogia”,
Boccaccio, Chaucer, Sherazade. Approssimandosi la fine, anche se non ne era al
corrente, finì per fare pornografia della morte. In bianco e nero, moralista, cattivo,
in “Teorema”. A colori, sfacciato, slabbrato, in “Petrolio”, in “Salò -Sade”. Di grammatica – il film - semplice: fa la parodia del nazismo,
della forza come castrazione, della degradazione dei giovani e del corpo, ma in
realtà ne fa l’elogio. Il poeta mite, beneducato, è violento. E gioca con la magia,
il numero quattro che ha preso da Zolla, il simbolo della croce. Per
l’assonanza Salò-salaud, da dannunziano modesto? Per un fascismo di
ritorno, che Calvino diceva stonato, sfocato, e Pasolini fa monumentale,
sacrale. Di turgori che solo si animano tra cuoio e misteri, vergogne non
dette. I riti celebrando con crudeltà, liberando la forza – le vittime fa bei
santi Sebastiani, mentre il fascismo era feroce, con i deboli.
Pasolini era irenico? “Salò-Sade” può ben
essere la solita trovata commerciale, sulla scia del successo del “Portiere di
notte”, dell’erotismo nell’abiezione. La celebrazione del corpo come visto
dalle beghine, e dai beghini, nell’infinito squallore del lager e nel
lordume. Pasolini non si può dire un beghino, anche se ha un forte senso di
colpa – forse il solo, nella cristianità tutta – e va compatito. Ma le
rappresentazioni di sadismo sono sadismo – Barthes, che tanto ha amato
Pasolini, “una vitalità disperata”, ha ragione, Sade è irrepresentabile.
Totalitaria è l’idea semplificata del
marchese, e di Pasolini. Che, se ce l’aveva, ha smarrito l’innocenza: non è
spiritoso e non è buono, è anzi incattivito, e la voce atteggia, non solo in
pubblico, per l’istinto del maestro di scuola più forte delle deprecazioni,
l’urgenza pedagogica a cui lo stesso bisogno d’ordine va ricondotto, esteta
della minuta violenza, il furtarello, l’improsatura, anche l’ipocrisia, piccolo
san Paolo, che del pretume è quintessenza, uno che voleva giudicare gli angeli,
nel mentre che declama il sacro e la tradizione. Vero sarà stato l’odio contro
tutto ciò che è italico, o l’Italia diventa, e di cui lui era espressione,
contro sé stesso cioè, Che tutte le tentava per imbruttirsi, in tv a “Carosello” con la sua vera voce, e
non per soldi, e a “Terza liceo”
di Biagi, per raccontarsi bugie edificanti coi coetanei. Un disadattato,
malgrado il didattismo.
Resta
in immagine. Malgrado le tante parole, che ha speso probabilmente più di ogni
altro – in quantità totale e per generi. Si direbbe il poeta incinto di sé
stesso. Grande tragedia avrebbe potuto farne, di quello che è e non è, con i
mezzi che ha. Traduttore di Eschilo superbo, la sua “Orestiade” è un’altra. E di “Edipo” grande filologo, oltre che pittore, non c’è altra
Grecia. O commedia: è Aristofane, l’“Eautontimorùmenos”? O Plauto, il
soldato vantone? Sembrava si divertisse, nelle marane coi pischelli e le
periferie, ma lì invece è in posa, sempre allo specchio. Si vede dalla foto in
giacca e cravatta sul campo di calcio, il tackle
perfetto secondo i canoni del “Calcio illustrato”,
coi ragazzini sporchi nella fanga. Mentre nel fotoservizio per “L’Espresso” è in maglietta e
calzoncini d’ordinanza, calzettoni, parastinchi, scapini lucidi coi tacchetti ancora
bianchi dalla scatola, i capelli ordinatamente imbrillantinati, il Muccinelli
de noantri, la repubblica delle lettere si vuole romanesca, il Mariolino Corso
perfetto. Imbalsamato nell’impegno, che è l’unica cosa che non sa, e lo rende
nervoso.
(continua)
Aridatece le tre vecchie "i"
Dalle “Confessioni” di sant’Agostino: “Attraverserò i sensi, e il corpo, ed eccomi, sono nelle
praterie, sono nei palazzi immensi della memoria. È qui che sta il tesoro delle
infinite immagini lì trasportate dalle percezioni dei sensi. È qui che sta
anche tutto quello che noi pensiamo, quello che le è stato affidato, che è lì,
in deposito, e che l’oblio non ha ancora assorbito e sepolto”.
Il “palazzo della memoria”, che più spesso ricorre in vari
trattatisti di retorica come tecnica mnemotecnica, è in sant’Agostino la storia.
O l’umanesimo, spiega l’ex rettore di Bologna Dionigi: un umanesimo di cui c’è
di nuovo la necessità, dopo l’ubriacatura di tecnica e tecnologia. Come ha spiegato
in altro ambito, “a Prometeo è necessario affiancare Socrate”. Tornare cioè a Socrate,
alla capacità critica, che solo si raggiunge con la conoscenza e la riflessione
della memoria, di ciò che siamo nel mentre che facciamo e di ciò che siamo
stati.
Questa è la conferenza che lo studioso ha tenuto alla
Biblioteca Vaticana nel 2019, senza la vis polemica ma con chiarezza: la
sperimentazione è già fallimentare delle tre “i” berlusconiane, inglese,
internet, impresa, bisogna al più presto rifondare gli studi su altre tre “i”:
intelligere, interrogare, invenire. Il latino “invenire” nel suo duplice senso
di dissotterrare la storia e di trovare il futuro. L’altro latino, “intelligere”,
nel senso di cogliere
(legere) i problemi nella loro profondità (intus) e relazione (inter).
Ivano Dionigi, Il palazzo della memoria, Biblioteca
Apostolica Vaticana, pp. 32 € 6
mercoledì 16 marzo 2022
Era ieri, il giorno prima
A dicembre Mosca propone a Washington e alla Nato le sue richieste
di sicurezza in Europa, sostanzialmente la fine dell’allargamento della Nato.
Stati Uniti e Nato hanno risposto a gennaio, con due distinte missive, confidate
al quotidiano spagnolo “El Paìs”. La Nato non rinuncia alla politica della “porta
aperta”, per cui ogni paese è libero di aderire all’alleanza. Gli Stati Uniti
si dicono disposti a discutere il controllo reciproco degli armamenti e propongono
iniziative di trasparenza su installazioni e manovre militari, in un quadro di “sicurezza
indivisibile” (un paese non può avvantaggiarsi militarmente a spese della controparte
– delle altre parti aderenti all’accordo).
Si discute, tra gennaio e febbraio, di “finlandizzazione” dell’Ucraina.
Il 10 febbraio il “Financial Times” londinese prospetta nel suo editoriale una
Ucraina “neutrale”, pur sconsigliando il termine “finlandizzazione”, che evoca la
guerra fredda e una imposizione da parte della Mosca di Stalin.
Il 19 gennaio Macron ha indirizzato il Parlamento europeo,
avocando “un riarmo strategico della nostra Europa come potenza di pace ed equilibrio, in
particolare nel dialogo con la Russia”. Proponendo “un progetto europeo per un
nuovo ordine di sicurezza e stabilità”. Secondo questo iter: “Dobbiamo costruirlo
tra europei, poi condividerlo con i nostri alleati nell’ambito della Nato, e in
seguito proporlo alla Russia per una trattativa”.
Il 20 gennaio il “Financial Times” apre così la prima pagina: “Il piano
di Macron per il negoziato con la Russia mette in pericolo l’appello degli Stati
Uniti all’unità”. Che però non c’era stato.
È la Germania che con più forza e più a lungo ha resistito alle
nuove sanzioni contro la Russia. Per la decisa contrarietà del partito di opposizione,
la Cdu-Csu, i cristiano-democratici. Ancora il 20 gennaio il presidente della
Cdu, Friedrich Merz, si diceva contrario all’esclusione della Russia dal sistema
di pagamenti bancario Swift. Il 22 gennaio il presidente della Csu e della Baviera,
Markus Söder, dichiarava la Russia “un partner difficile ma non nemico dell’Europa”,
si opponeva a nuove sanzioni, di qualsiasi tipo, e escludeva “per molto tempo
ancora” l’allargamento della Nato all’Ucraina.
Chi era Pasolini 9
Le Madonne non piangono più, dice Pasolini,
e le lucciole sono sparite. Ripete Montale, le falene, le farfalle, i grilli -
dopo il troppo odio. Lucciole e grilli sono lasciti del
marchesino De Pisis, che fu poeta. Ma partono dal secentista Biagio Guaragna
Galluppo di Morano, barone figlio di baroni, sposato a una santippe “dal
femmineo latrar”, che col titolo “Alle lucciole” rifà “A una zanzara” del
Materdonna. Se non sono la luna di Alvaro, sparita e riapparsa, l’esercizio era
comune al tempo del realismo magico. “Chiudere
le scuole”, l’altra sua proposta, è invece Papini, 1914. Non vedere più la
Madonna, certo, può essere un problema.
Le lucciole di Pasolini
non sono scomparse nella notte. “No”, spiega il filosofo dell’immagine Didi-Huberman,
che dedica loro un intero libro, “le lucciole sono scomparse nell’accecante
bagliore dei «feroci» riflettori” della contemporaneità. E non sono scomparse
in realtà, sono il segno di un disagio. Di cui il filosofo conduce, con sicura
pedagogia, a scoprire connotazioni sorprendenti.
Le lucciole non erano
ignote al Novecento. Didi-Huberman ne scova la presenza in tanta letteratura
francese, e fin nella letteratura nipponica, nel non tradotto (in italiano) “La
tomba delle lucciole” di Akiyuki Nosaka, che le vede scendere dal cielo, “il
fuoco che cade goccia a goccia” della bomba A, e nella chimica del Nobel
Shimomuro, sopravvissuto a Nagasaki, nella bioluminescenza. La biochimica del
“sistema lucciole”, che ci riserva una prima sorpresa: “Mentre in alcune specie
animali la bioluminescenza serve ad attirare le prede o a difendersi dal
predatore…, nelle lucciole si tratta anzitutto di una parata sessuale”.
L’“articolo delle
lucciole” di Pasolini sul “Corriere della sera” dell’1 febbraio 1975 s’intitola
“Il vuoto del potere in Italia”, e tratta dell’Italia che vive nel fascismo,
anzi peggio che nel fascismo, eccetera, in un crescendo d’indignazione che
porta lo stesso poeta a interrogarsi su che demone lo ha invaso. Didi-Huberman
pone allora il quesito: “Perché Pasolini sbaglia così disperatamente e
radicalizza in questo modo la propria disperazione? Perché ha inventato per
noi la scomparsa delle lucciole? Perché la sua luce, il suo fulgore di
scrittore politico si sono così improvvisamente consumati, spenti, inariditi,
annichiliti da sé?” E si risponde: non sono scomparse, distrutte, le lucciole,
ma “qualcosa di essenziale nel desiderio di vedere – nel desiderio in generale,
e dunque nelle speranze politiche – di Pasolini”.
La ricerca il filosofo
sottotitola “Una politica delle sopravvivenze”. Sull’indignazione, la voglia di
apocalissi e non specificata palingenesi, che è sembrato soffocare alla fine il
poeta, confusi disagi trovano qui una profusa spiegazione. Didi-Huberman cita
Derrida, il saggio critico di trent’anni fa “Di un tono apocalittico adottato
di recente in filosofia”: “Ogni escatologia apocalittica si promette in nome
della luce, del veggente e della visione, e di una luce della luce, di una luce
più luminosa di tutte le luci che essa rende possibili”. Che non è possibile:
“Non ci potrebbe essere verità dell’apocalisse che non sia verità della
verità”, e anzi “verità della rivelazione piuttosto che verità rivelata”. Anche
se ineliminabile, e non colposa: “È ineliminabile perché nessuno può esaurire
le sur-determinazioni e le in-determinazioni degli stratagemmi apocalittici. E
soprattutto perché il motivo o la motivazione etico-politica di questi
stratagemmi non è mai riducibile a qualcosa di semplice”.
Meno “assolutorio”,
Didi-Huberman contrappone la “situazione oggettiva” di Walter Benjamin, al
quale si deve il piccolo messianesimo poi sbocciato in apocalissi, personale e
storica, negli anni 1933-1940, a quella di Pasolini a febbraio del 1975. Un
informato, approfondito, amorevole ritracciamento di Pasolini nei suoi gangli
segreti - le lucciole, e lo stesso Pasolini, hanno più attenzione, e forse
intelligenza, oltralpe che da noi, Didi-Huberman cita Bataille, Jean-Paul
Curnier, il fotografo Denis Roche, l’antropologo Lemonnier.
Il fatto è controverso,
la scomparsa cioè delle lucciole. Didi-Huberman le vedeva ogni sera, in
stagione, nel boschetto dei bambù di Villa Medici al Pincio a Roma, “nel cuore
urbano del potere centralizzato”, negli anni dal 1984 al 1986. Ancora nei primi
anni 1990 le ha riviste. Poi il boschetto fu tagliato, ma questa è un’altra
storia, contemporanea e non. Ciò a cui Didi_Huberman ci introduce, nell’opera
di Pasolini e nel Novecento, è la luce intermittente, che segna una
sopravvivenza-persistenza: le parole-lucciole, il sogno-lucciola, il
sapere-lucciola, il segnale nella notte. Un invito, si direbbe: il balenio, un
sorriso.
Didi-Huberman arriva a
Pasolini partendo da Dante: le lucciole sono la sola luce che Dante vede
all’Inferno, al canto XXVI. L’immagine del villano che la sera dal poggio
guarda le lucciole girovagare nella vallata gli serve per dire delle fiammelle
che vagano a luce alterna tra i “consiglieri fraudolenti”. A lungo però
dimenticate, queste lucciole, lo stesso Botticelli ebbe difficoltà a
riprodurle, nell’illustrazione della “Commedia”. Benjamin, che ne parla negli
appunti sparsi pubblicati come “Appendice a «Sul concetto di storia»”, dice
dell’immagine che balena che “s’appoggia (su) un verso di Dante”, ma non lo
cita. In Pasolini Didi-Huberman ritrova le lucciole la prima volta in una
lettera del poeta ventenne all’amico Franco Farolfi, in cui descrive una
scampagnata notturna fra il 31 gennaio e l’1 febbraio 1941 con altri amici,
dapprima al casino, nella carne triste, poi in collina, dove una rivelazione
avviene: “Una quantità immensa di lucciole”, in “boschetti di fuoco dentro
boschetti di cespugli”, gli fa desiderare “comitive di giovani ventenni che
ridono con le loro maschie voci innocenti”, incuranti del mondo intorno.
“L’1 febbraio 1975, cioè
giorno per giorno, o piuttosto notte per notte, trentaquattro anni dopo”, nota
Didi-Huberman, le lucciole del poeta sono spente. La scomparsa delle lucciole è
“la scomparsa delle sopravvivenze”, una sorta di fine della storia. Di più,
delle “condizioni antropologiche della sopravvivenza”, personale questa,
individuale, della speranza: Pasolini ha smarrito “in fine il gioco dialettico
dello sguardo e dell’immaginazione”. Che non è gioco naturalmente, è la forza
di vivere, la quale, smarrita, non lascia le cose come stanno ma apre una
voragine, un’assenza. Sia pure per la “visione apocalittica” che il poeta
coltivava. Che in lui non era gioco retorico.
Ma, poi, per le
lucciole il problema sono i pesticidi. In Giappone lo sanno e le coltivano,
liberandole nei giardini in albergo per la stagione. Fuoco al culo le direbbero
in Valtellina, fuoco morto nelle altre valli. Ma non solo per loro Pasolini è a lutto. Prima delle lucciole, che si dice pure delle puttane, ha pianto
l’aborto. La maggioranza dice “somma dei mediocri” sul “Corriere della sera”, il giornale della maggioranza, e il
buonsenso “autoassoggettamento degli imbecilli”. Eccetto che nel popolo, per
“la faccia umile e generosa della sua povertà”. Fare l’amore è “un atto politico”.
E “un atto di diserzione politica, di dimissione, quando diventa una mania
irresponsabile”. L’aborto “rafforza la comodità del coito eterosessuale”, va
prevenuto. Con tecniche “diverse”, dalla tv: “È folle pensare che un’«autorità»
compaia dal video reclamizzando «diverse» tecniche amatorie?” Una Maria
Antonietta dell’improsatura? Pasolini
sul “Corriere della sera” è un
nobile romano della Repubblica, plebeizzante. Un libertino terrorista, che di
tutto vuole un’altra cosa.
(continua)
La logica del profitto – o la fine dell’Occidente
È il saggio che ha aperto la stagione del capitalismo selvaggio che
tuttora impera, unicamente inteso a massimizzare il profitto degli azionisti.
Friedman concludeva citando dal suo libro di riferimento, del 1962,
“Capitalismo e libertà”: “C’è una e una sola responsabilità sociale del
capitale: utilizzare le risorse disponibili e impegnarle in attività intese ad
accrescere i profitti, a condizione di osservare le regole del gioco, in concorrenza
aperta e libera senza inganno o frode”. Ma dietro la morale puritana, ha aperto i mercati alla corsa sfrenata alle speculazioni libere in Borsa, agli M&A,
acquisizioni e fusioni, senza altro scopo che di massimizzare i profitti nell’immediato,
alle retribuzioni abnormi dei manager in rapporto con i profitti generati, con
la distruzione più spesso di attività e lavoro. E quindi: 1) a una
redistribuzione del reddito a piramide rovesciata, in cui i pochi hanno il più;
2) alla “finanziarizzazione” dell’“Occidente”: una sovversione-riduzione dei
processi produttivi, oggi simboleggiati da una “catena di valore” che vede
l’“Occidente” sempre meno produttivo e più ristretto alla rendita, e i mercati
emergenti, Cina, India, Vietnam, etc., sempre più attivi produttori e protagonisti
del mercato – “la rendita non basta più, bisogna intaccare il capitale”, la vecchia
querimonia delle famiglie in dissesto, è ora la divisa dell’Occidente.
Per i cinquant’anni del manifesto di Friedman un gruppo di economisti
americani pubblicò una contestazione, basata sul solo rilievo che Friedman non
considera il medio e lungo termine, che la sua economia politica è a breve o
brevissimo respiro. In effetti, la dottrina che ha dominato l’“Occidente” per
questo mezzo secolo è all’evidenza errata e perdente. Un libero pascolo per
montoni prepotenti, cui l’economista funge da copertura. Ma è anche una teoria
che echeggia un’opinione diffusa in America – se non è il fondamento
dell’American Dream. Sancita legalmente per esempio in un processo famoso già
nel 1919, dei Fratelli Dodge, allora azionisti della Ford, che fecero condannare
in tribunale John Ford perché voleva mettere una parte degli utili a riserva per
ulteriori investimenti.
Milton Friedman, A Friedman doctrine - The Social
Responsibility Of Business Is to Increase Its Profits, “The New York Times” 13 settembre
1970, free online
martedì 15 marzo 2022
Era ieri
La base militare di Yavoriv, bombardata dai russi sabato, è stata
creata in Ucraina, alla frontiera con la Polonia, per forze Nato in missione di
addestramento: britanniche, canadesi, americane, e dei paesi europei legati
agli Stati Uniti, Olanda, Polonia, Lettonia. È l’esito dell’iniziativa unilaterale,
intrapresa nel 2008 dalla presidenza Bush jr a fine mandato, sull’onda della
prima spallata antirussa con la “primavera” di piazza del 2004, senza il coordinamento
con i paesi europei, di aprire la Nato all’adesione dell’Ucraina.
La “dottrina Macron”, novembre 2020, prospettava un “negoziato
strategico” con la Russia, nel quadro di una autonomia strategica dell’Europa –
pur entro l’Alleanza atlantica. Il presupposto della “dottrina”, poi condiviso
dalla Germania di Scholz, è che la sicurezza dell’Unione Europea non può aversi
senza la sicurezza della Russia.
Nel quadro dell’allineamento della Germania sulla “dottrina Macron”,
il capo della Marina tedesca, viceammiraglio Kay-Achim Schönbach, è stato dimesso
a fine gennaio per avere sostenuto in una conferenza pubblica che la Ue si deve
accordare con la Russia perché il vero nemico è la Cina. Subito poi Scholz ha
costretto alle dimissioni anche la direttrice, da lui stesso nominata, del Dgap
(Deutsche Gesellschaft für Auswärtige Politik), il consiglio tedesco per le
relazioni estere, Kathrin Cluever Ashbruck: aveva chiesto il rigetto del trattato Cai (Comprehensive Agreement
on Investments) voluto da Merkel a fine 2020 tra Ue e Cina, e una presa di
posizione decisa del governo tedesco tra Russia e Cina, cioè pro Russia. Entrambe le prese di posizioni si interpretarono
come di espressione atlantista: ancora a gennaio si sottovalutava il “rischio
Russia” - il “nemico” era quello di Trump, la Cina (ma subito dopo il
cancelliere Scholz varava il riamo tedesco, portando la spesa militare al 2 per
cento del pil, come richiesto da tempo dagli Stati Uniti).
Il 4 febbraio Putin a Pechino per l’Olimpiade invernale firmava
col presidente Xi un “documento delle 5.000 parole”. Molto propagandato dai
media cinesi, il “documento” parte dal principio di “una sola Cina” (contro
Taiwan), e promuove “una nuova era” nei rapporti internazionali, segnata dalla piena
legittimità, costituzionale e politica, dei rispettivi regimi, e da condizioni economiche
di assoluta parità tra tutti gli Stati. La “nuova era” è la parola d’ordine del
presidente cinese Xi da cinque anni a questa parte, dal 19mo congresso del partito
Comunista Cinese.
Al vertice Quad (Quadrilateral
Security Dialogue) del’11 febbraio, il forum di consultazione anticinese tra Stati
Uniti, Australia, India e Giappone, il ministro degli Esteri indiano ha indicato
come interesse preminente dell’associazione, sulla questione ucraina, la “cooperazione”
e non il “confronto” con la Russia – alleato tradizionale di fatto dell’India
nei confronti del Pakistan e della Cina. L’agenzia giapponese Nikkei, proprietaria
del “Financial Times” londinese, ha criticato nell’occasione come “un pasticcio
strategico” l’esposizione degli Stati Uniti su due fronti, contro la Cina e
contro la Russia.
Chi era Pasolini 8
C’è l’ombra della protervia sul poeta che
si dice civile, per le musiche del Decameron
prese a prestito senza riconoscenza. Senza la quale resta lo stesso
monumentale l’opera di Alan Lomax, che ha fatto dopo centocinquant’anni in
Italia quello che Beethoven fece per l’Europa, entusiasta trascrittore, seppure
foraggiato dal ricco mecenate George Thomson di Edimburgo: salvare i canti popolari.
Sapeva?
Certo che sapeva, come tutti. È vero che si poteva non sapere, gli ebrei più
degli stessi fascisti. A Roma, o nei Carpazi, ancora nel ‘44, o a Budapest, pur
ascoltando radio Londra. Neanche Pasolini, per dire, sapeva, che pure era imboscato
nel ‘43, e nel ‘44, a Casarsa, dove passavano la strada e i treni coi
deportati, come non saprà delle foibe. Che ora dice che sa: “Io so. Che cos’è
questo golpe”.
Di
“Empirismo eretico” restano le macerie, mucchi – professarsi eretico? E di
corsa ancora va, ma come al cinema – i corsari sono materia di cinema, d’avventura.
Il poeta si è perduto nel movimento, del ‘68. S’era
perduto prima, con Totò e Riccetto, se lui è l’uccellaccio e non più
l’uccellino, tra borgatari che sfrattano i più borgatari, e fottono le più
sfigate. Nel movimento non s’è ritrovato, non conduceva al “Corriere”, pur
credente nell’innocenza dei giovani. Siamo tutti malati, dice oggi, perché
siamo tutti fascisti, la Dc e la Repubblica, i non violenti per la stupidità. Non
tutti: nella “Enciclopedia dell’antifascismo
e della Resistenza”, in quattro tomi di 800 pagine l’uno, Guido non c’è,
lui si. Nell’episodio
Freud-Einstein di “Porcile”,
non girato ma illustrato nella sceneggiatura che si pubblica con le note, voleva
ebrei che anelano l’impalamento e negroni inastati di nome Cock, Ball e
Balloon: questa estetica è nazista più che fascista – i nazisti erano perversi
conclamati, la forza piccolo borghese mettevano tutta nelle palle.
Il Pensatore di Rodin poggia il gomito destro sul ginocchio
sinistro, torsione più indicata per i mannequin, che non hanno ventre.
Anche per Pasolini, che il fisico mantiene agile con gli attrezzi e gioca al
pallone, il calcio migliora la circolazione, le idee, gli umori – se non lo fa
per i servizi fotografici: non suda. Ma l’argomento sola fide nella democrazia
religiosa non basta, aveva ragione Carlostadio, bisogna che tutti siano preti,
mediatori in proprio del divino - la democrazia si vuole conseguente. Mentre il
Dio di Lutero condanna “i sediziosi e i facinorosi”: il Riformatore perpetuava
i carboni ardenti e i giudizi di Dio, così ogni aspirante luterano. I poeti
possono essere sorprendenti. Rilke, che s’immagina
un figlio dei fiori in anticipo, era un signore austro-ungarico in collo rigido
che si faceva mantenere da signorine mature, e un iperletterato che coltivava
il mito di sé stesso, come D’Annunzio senza l’audere, la sfida al destino baro. La gioventù bruciava con James Dean nel 1955,
quando era appena nata, ben prima dei capelloni al rogo sul “Corriere”.
“Suonatemi questi sonetti!”, intimava du Bellay ai giovani
verseggiatori. C’è verità nel linguaggio, ma suo malgrado. La verità del linguaggio
può essere bugiarda. La rosa più delicata in colore e profumo è detta canina
nei vocabolari, o rugosa, selvaggia, di macchia, e grattaculo. L’occhio di
giaietto non è la stessa cosa che l’occhio di gavazzo, anche se ha lo stesso lampo.
Venere, Lucifero e Vespero sono la stessa stella, ma non la stessa cosa. Ci
sono verità che sovrastano la capacità del singolo, sia esso scienziato o
scrittore, e linguaggi traditori. E coscienze confuse, come a Mosca nelle purghe,
che vittime e testimoni credono ciò che dicono, non ciò che hanno visto o
sentito o fatto. La cornice
ordina la visione, deve aver detto Leonardo. E non la altera? Alma Tadema le cornici fa parte del quadro, il bello della merce è
anche l’esposizione.
Gödel il logico è affranto dai cristiani
convinti che si salveranno, loro, mentre gli altri no. Il cinema d’altra parte, Pasolini è uomo di
cinema come Sergio Leone, era l’ultima cosa che si celebrava in smoking e decolleté, dopo l’obliterazione della
Scala sotto le uova e gli ortaggi di Mario Capanna. Genere romano certo, ma
forte più del teatro d’opera - e dei borghesi milanesi che si mimetizzano - e
la forza è genio. Si dirà Pasolini “uno dei cento poeti incerti”, benché non di avanguardia,
il polemista è elegiaco decadente. Quello che recita la depressione, con arte
per il successo. “Il poeta scrive per il successo”, dice Saba, il Poeta di Trieste: “Ciò che il poeta canta sono le sue colpe. E le canta per liberarsene,
per confessarsi”, pure lui, “per purificarsi. Se il pubblico gli volta le spalle,
le colpe gli ricadono addosso, più tormentose di prima”. È una regola che
sovrasta ogni altra, pena la scomparsa. “The harlot has a hard lot”,
poeterebbe Hemingway, per le puttane è dura.
(continua)
Giallo Ottocento, macabro
Un noir italiano nel 1880, ai limiti dell’ horror, a opera di un polentone fangoso, pio, cioè pieno di buoni proponimenti. Un racconto insistito, ripetuto, ribattuto, di vendetta, e di erotismo macabro. Non tralasciando la reincarnazione – tema, a rifletterci, alla moda all’epoca, praticato anche da De Marchi e da Iginio Tarchetti.
Silvia Rota Sperti lo riscopre come un romanzo di amore e morte, su uno sfondo gotico. E la vena c’è, ma è ben un romanzo di erotismo che si esalta nella violenza, vissuta (subita) che si vuole far rivivere (infliggere), anche se solo in immaginazione. Si potrebbe anche dire un prequel femminista – non s’inventa nulla?
Il più misterioso rimane l’autore. Che esce dagli odori d’incenso e dalla nebbia spiritualista per emergere come il primo dei vicentini ingegnosi del Novecento italiano, dopo Zanella e prima di Comisso, Parise, Berto, Piovene, Meneghello.
La giovane e bella Marina Crusnelli di Malombra, ospite dello zio conte d’Ormengo sul lago di Como, s’immedesima nella madre di questi, Cecilia. Imbattendosi in un autografo della stessa. Che forse il marito ha ucciso, per gelosia. Al punto da convincersi di esserne la reincarnazione, col compito di vendicarne l’assassinio. E quando s’innamora di un giovane scrittore anche lui ospite dello zio, Corrado Silla, vede in lui la reincarnazione dell’ignoto di cui Cecilia era (forse) innamorata.
Difficile dare uno sbocco alla vicenda, ma Fogazzaro ci riesce – anche a costo del lieto fine. Il giovane scrittore retrocede di fronte alle certezze di Marina. Che non la prende bene.
Antonio Fogazzaro, Malombra, Feltrinelli, pp. 434 € 9
lunedì 14 marzo 2022
A che punto eravamo
A che punto eravamo, prima della guerra, peraltro preparata e
minacciata da tempo, anche con insistenza?
Sull’energia – che è la voce di maggior costo per molta industria,
oltre che per i trasporti, non si sottolinea mai abbastanza - affermava Romano
Prodi l’11 febbraio a “Piazzapulita” su La7, non c’è un disegno europeo, ognuno
ha le sue fonti. Per l’Italia, “secondo
me, dobbiamo tornare a un contratto a lungo termine
con la Russia, perché la Russia ha interesse a
proteggerci. Dobbiamo essere fedeli membri della Nato, ma
abbiamo i nostri interessi che sono sacri. Se
i nostri tir pagano il gas 5 volte di più dei tir americani, non ce la
facciamo”.
In
dettaglio, Prodi spiegava: “Noi per
decenni abbiamo ricevuto in buona parte gas prima dall’Urss e poi dalla Russia,
con contratti a lungo termine che favorivano abbastanza anche i russi e ci
davano sicurezza. A un certo punto, abbiamo detto no a questi contratti –
spiega – e abbiamo invocato il libero mercato, perché così il gas costava meno. Per qualche anno il
libero mercato ci ha favorito, ma adesso ha dato il manico del coltello a Putin. Tutto questo è un problema europeo, ma noi in Italia ci abbiamo aggiunto del nostro,
dicendo no al Tap e al gas dall’Adriatico. Siamo, in ogni modo, nelle mani dei russi, almeno
in buona parte. Ai russi conviene avere con noi un accordo a lungo termine con
prezzi più bassi di quelli di oggi, perché anche loro hanno bisogno di
sicurezza”.
Di Putin, che diceva di conoscere bene, Prodi dava questo quadro: “Putin fa gli interessi propri e della Russia. È un empirico che va al sodo e non ha nessun interesse a
essere totalmente nelle mani della Cina - la Cina cresce di una Russia
all’anno, giusto per dare il quadro della situazione. Se c’è un rapporto di
contrattazione, Putin accetta il gioco. Però noi dobbiamo avere la forza
necessaria, perché, se gli lasciamo il coltello dalla parte del manico, la
forza ce l’ha solo lui”.
(continua)
Prima della guerra il futuro era pessimo
Due settimane fa l'Europa già non se la passava bene. I mercati
scontavano l’aumento previsto dei tassi d’interesse della Banca centrale
europea, per raffreddare l’inflazione. In una con l’abbandono del programma di acquisto
delle obbligazioni nazionali lanciato dieci anni fa da Draghi. Il “Financial Times”
titolava in prima pagina: “Le aspettative sui tassi d’interesse della Bce fanno
aumentare i costi del debito per Grecia e Italia”.
Scontato l’aumento dei tassi, il dibattito alla Bce era come
disinnescare le pressioni successive per le perequazioni salariali.
Sotto osservazione era già l’economia italiana, malgrado la ottima
performance del 2021, in quanto maggiore percettrice del piano europeo
Ngeu, Nex Generation European Union. In contemporanea col “Financial Times”, il
ministro della Transizione ecologica Cingolani avvertiva che “l’aumento del
costo dell’energia rischia di avere un costo totale l’anno prossimo superiore
all’intero pacchetto del Pnrr”. Per anno prossimo il ministro intendeva il
2023, ma l’aumento è probabilmente già in atto, che colpirà settori larghi e
sensibili dell’economia.
Chi era Pasolini 7
Sarà
stato di Pasolini come di lui intravedeva Gianfranco Contini nel 1943
benedicendone - invidiabile occupazione in piena guerra, occupazione, miserie – l’impronta poetica: come
“del rimpianto narcisistico … d’uno che leva un pianto continuo sulla sua morte”.
Che non è propriamente un complimento, è come certificare un’adolescenza attardata,
ma è un’anamnesi forse perfetta.
Ci sono due Pasolini. Uno è quello delle
stitiche conferenze sulla lingua e i dialetti, in falsetto con Moravia nelle
Case della cultura e ai Lunedì delle signore, prima del fatidico Sessantotto. Delle nasalità di cui è farcito “Ragazzi di vita”
- l’opposto del dialetto, che è carnale per essere tribale. Del birignao
alle promozioni:
- Utilizzerà la musica nei suoi film?
- Solo Bach. Solo quella è musica. - Quale
Bach?
- Che ruolo attribuisce alla parola nel
cinema?
- Il dialogo è suono di fondo.
Una conferenza peripatetica sulla lingua basata su reperti del
tipo: Citati che sentì “esatto” invece che “sì” quella volta che prese il treno; col corredo del Bel Paese dove il sì suona; Calvino che in commissariato
ascoltò il verbale, quella volta che gli rubarono la macchina; il prontuario
Rai delle parole da evitare; Moro che infligge se stesso.
Un letterato come tanti. Un
po’ cattivo e anche acido, come la professione si vuole. Ma con cattiveria. Non
tanto per le solite, ovvie, polemiche tra scrittori – nel suo caso poeti: Montale,
Sanguineti, Fortini. Per astiose condanne. Gli scrittori e i critici mobilitati
per lo speciale “Pasolini” del settimanale “Robinson” hanno tutti delle riserve
caratteriali, malgrado i toni incensatori. Lasciò l’editore Garzanti, che lo
aveva promosso e imposto, senza preavviso e senza discussione, per passare a
Einaudi, giustificandosi col fatto che pubblicava Bevilacqua – motivazione da
puzza al naso, ammesso che fosse quella vera (con Bevilacqua si frequentavano i primi tempi a Roma, insieme andavano a trovare Caproni, ricorda Silvana Caproni, figlia di Giorgio). Di Quasimodo, tanto amato agli
esordi, disse e scrisse con disprezzo – Pasolini occupa buona parte del libro
di Plinio Perilli, “Quasimodo: dal Nobel alla gogna senza fine”. Salvo chiedergli nel 1959 il voto
allo Strega, per “Una vita violenta” – il premio andò al “Gattopardo”. Quando a
fine anno Quasimodo ebbe il Nobel, Pasolini non si evitò il dileggio: “Prima del Nobel c’era su di te un silenzio sepolcrale: /
oggi di te un po’ si parla: ma solo per dirne male”. E poco prima della morte, su “Gente”
del 17 novembre, 1975, alla domanda sui grandi poeti puntualizzava: “In Italia
il più grande è Sandro Penna, mentre uno dei peggiori è Salvatore Quasimodo”.
A
Calvino, in aggiunta alle scaramucce letterarie, imputò dalla sua tribuna sul “Mondo”
il delitto del Circeo: “Tu hai privilegiato i neofascisti pariolini del tuo
interesse e della tua indignazione, perché sono borghesi” - mentre rubava la
scena alla sopravvissuta, la povera Colasanti.
Contro
Carlo Casalegno, il vicedirettore della “Stampa” che poi sarà assassinato dalle
Br, ebbe l’accortezza di non pubblicare un feroce frammento (che gli eredi
pubblicheranno negli “Scritti corsari”…), che lo dice più odioso del “miserabile fascista di dieci anni fa”,
uno sconosciuto che il poeta ricorda di avere inseguito per un buon quarto
d’ora attraverso tutta San Lorenzo tanto il suo sdegno era inesausto. A
Casalegno Pasolini imputa, per un articolo sulla “Stampa” contro di lui e
Moravia, “la mania che ha preso gli italiani di darsi continuamente dei
fascisti tra di loro”. Mania che però egli stesso aveva avviato qualche mese
prima sul “Corriere della sera”, con “Il fascismo degli antifascisti”. Con
leggerezza, certo, alla Pannella, alla Ottone, i vaffanculisti dell’epoca,
certo tirati ai quattro pizzi, sobri, inappuntabili. Molto borghesi.
Non
fece scuola, malgrado gli inizi a Casarsa, non patrocinò nessuno, diversamente dai
contemporanei Moravia, Morante, Bertolucci naturalmente, Bassani, così
deprecato e così “utilizzato”, Calvino, munifico editor, Citati, perfino
il ritroso Gadda – solo Franco Citti, per un solo film. Franco Fortini, che pure
non gli era nemico, lo voleva “il poeta nuovo della nuova borghesia della
cultura di massa” – fulminandolo con un “La mia prigione\ vede più della tua
libertà”.
Il “Vantone”
invece, che ricavò dal “Miles”
di Plauto per Enriquez e gli altri Quattro, è stato due ore di sballo
all’anteprima alla Pergola, una serata di teatro quale si favoleggia negli
annali, che lasciò gli stessi attori accasciati sul proscenio dalle risate,
incapaci di finire le battute. Grande filologo sarebbe stato, di potenza,
disinvolto, disincantato. E favolista al modo di Boccaccio, Chaucer e le “Mille e una notte”, o degli amati
sconvenienti borgatari. Ne fece una parentesi, e fu poeta sentimentale. Che è
un mettersi da parte e vedere passare la vita, lo sdegno resta finto e l’accoramento.
Ci sono già nelle “Lettere luterane”
i giovani “votati alla morte”.
(continua)
E la donna restò sola
La vita
fausta, e infausta, di una ragazza di belle speranze, che voleva essere medico,
psicologa, fotografa, e infine scrive, un articolo pregiato sul sesso orale. E malgrado
tutto questo riesce a farsi seguire per un’ora e mezza. Una commedia d’interni,
di conversazioni brillanti, teatrali.
Joachim
segue il cinema di Lars (von) Trier, il compagno di sua madre. Con meno sesso esplicito
del patrigno - ma ce n’è. Egualmente anticonformista e provocatorio. Qui del femminismo.
Non detto naturalmente, anzi partecipe, paterno, materno, della confusione della
ragazza, che non sa chi è e cosa vuole ma si diverte a cambiare uomini, e
infine resta sola, a fare le fotografie – a guardare gli altri vivere.
È presentato come drammatico, ma è
divertente. La protagonista Renate Reinsve, una maratona, sempre in scena, è
stata la migliore attrice a Cannes, e si candida all’Oscar.
Joachim
Trier, La persona peggiore del mondo,
Sky Cinema
domenica 13 marzo 2022
Letture - 484
letterautore
Africa – Cazzullo le chiede, a metà di un’intervista di due pagine sul “Corriere della sera” domenica: “Com’era la vostra Africa?” - l’Africa cioè di Moravia, Maria Callas, Pasolini, con i quali viaggiava. Dacia Maraini risponde del solito stregone, e aggiunge: “Mangiavamo scatolette da tre giorni, e incontrammo un vecchio che vendeva uova. Ne comprammo venti. Alla sera le aprimmo pregustando una frittata: erano piene di sabbia. Il vecchio ci aveva ingannati”. È strano che l’Africa venga sempre scoperta.
Amore – È papale? Lucia Berlin in un lontano racconto, “Mamma”, se lo fa dire dalla madre, ma in questi termini – la madre è ubriacona cattiva: “Il papa ha sparso la voce che l’amore rende felici. L’amore ti tende miserabile”.
“Deus Caritas est”, Dio è amore, è la prima enciclica di Benedetto XVI, il papa poi dimissionario, 2006. Il tema è stato riperso dieci anni dopo, per San Giuseppe del 2016, dal papa Francesco, in una esortazione apostolica, “Amoris Laetitia”, la gioia dell’amore – una quasi enciclica, l’“esortazione apostolica” viene per autorevolezza poco sotto l’enciclica.
Feltrinelli – Breve storia di fortuna e morte, si può dire: Giangiacomo Feltrinelli, poi morto sul traliccio di Segrate, nasceva in una famiglia di recenti grandi fortune (industriali del legno) e di morte. Lo zio Giuseppe, cacciatore, racconta Carlo Feltrinelli a Cazzullo sul “Corriere della sera” martedì 8, “si affezionò a un cucciolo di orso, che allevò come fosse un cane”, finché l’orso non lo azzannò, la ferita non guarì, contro il dolore lo zio ai affezionò alla morfina, e morì di trentacinque anni. Lo zio Pietro si suicidò a 28 anni, “per amore di una ballerina romena”. Lo zio Antonio fu investito da un camion militare nel 1942. Il padre Carlo, presidente di Edison e del Credito Italiano, precursore di Unicredit, era morto nel 1934 all’improvviso, forse suicida, forse di emorragia cerebrale. Dopo che la bellissima moglie Giannalisa era stata sparata in volto dal suo amministratore delegato durante una battuta di caccia, forse per errore, forse per gelosia - la madre, diventata poi gelida tiranna (e sposa di Luigi Barzini, che disprezzava il figliastro), perse un occhio.
Fenoglio – Pure Fenoglio è nato cento anni fa. Ma lo ricordano solo Gabriele Pedullà e Cazzullo, in note sparse, incidentalmente. “Il partigiano Johnny”, il romanzo di Fenoglio anglicizzante, viene tradotto in inglese.
Hölderlin – Il suo problema psichico (visse più della metà dei suoi anni in casa famiglia, riconosciuto alienato di mente) era stato provocato da infezioni veneree? Scrivendo a Hegel il 25 novembre 1795, compagno di studi a Tubinga, dove erano in seminario, si dice poco interessato a fare da istitutore (professione di passaggio quasi d’obbligo per i giovani filologi), e lamenta “follie fatte a Tubinga”: “Per ora ho la pretesa di non fare nulla di nulla; a conti fatti, sono poco adatto a questo e a ogni altro stato in cui si ha a che fare con caratteri diversi, con situazioni diverse; e disgraziatamene ho anche motivi particolari, grazie alle follie fatte un tempo a Tubingen”.
Kerouac – L’altro centenario che non si celebra era, si sentiva, si professava, e morì, cattolico. Il cardinale Ravasi lo ricorda sul “Sole 24 Ore”: “Poco prima della morte, avvenuta il 21 ottobre 1969, al «New York Times» aveva dichiarato: «I am not a beatnick, I’m a Catholic». Un’identità mistica sebbene «strana, solitaria e pazza». E il suo ultimo Salmo invocava: «Keep my flesh in Thee everlasting»,mantieni la mia carne nella tua eternità. In sintesi, era la fede cristiana nell’Incarnazione”.
Novecento - Ha perso al bellezza, Paolo Portoghesi: “Penso che la vera tragedia sia stata scoprire nel Novecento che l’arte non corrisponde più al bello. Un tempo la bellezza era la ragion d’essere di un’opera d’arte”. Oggi si pretende che l’arte sia solo il frutto di un’operazione intellettuale”.
No wax – L’“editor” della prima edizione del “tutto Saba”, 1955 (“Il Canzoniere. 1900-1954”), che si sa essere Giacomo Debenedetti, deplora “l’indiscriminata violenza con cui l’arrogante medicina moderna inocula i sieri”.
Pettegolezzo – Oggi dominante nei media, fu parte di molta letteratura nel Seicento parigino, con le “précieuses”, i salotti, le indiscrezioni, i pettegolezzi, la chiacchiera in genere invece dei fatti. Anche oggetto di satira, ma spuntata, anche quella di Molière, e di Boileau, La Bruyère, La Fontaine. Con una produzione vasta, di epigrammi, lettere, confidenze, “pensierini”, cattiverie, analoga a quella oggi del social. Certo, non diffusa, quale è oggi. Ma al centro del potere, incisiva.
Poesia civile – La parola e la cosa ricorrono già nel 1945, definita dall’anonimo (ma si sa essere stato Giacomo Debenedetti) prefatore del “Canzoniere” di Saba. riunito per Einaudi per la prima volta nel 1945, definita “sola igiene delle lettere oggigiorno” – “mentre oggi si va cercando con furia polemica una «guarigione» e di rifabbricano con impazienza una forma e un contenuto alla poesia”. Una delle strade cercate sulle rovine della guerra.
Solitudine – È “un concetto anglosassone”. È l’incipit del racconto “Fool to cry” di Lucia Berlin: “La solitudine è un concetto Anglo-Sassone. A Città del Messico, se siete la sola persona sul bus e qualcuno sale non solo vi verrà vicino ma si appoggerà a voi”.
Però, c’è il rovescio: “In Messico non c’è mai nessun altro lì. Se vai nella tua camera a leggere qualcuno noterà che stai da sola e verrà a farti compagnia”.
Svevo - È Joyce che ha influenzato Svevo o non viceversa? Si sono frequentati ma non necessariamente si sono influenzati reciprocamente? E tuttavia il problema si pone. Non marginalmente come usa: Svevo a scuola d’inglese da Joyce, ne è incoraggiato a scrivere. Il megadirigente Svevo aveva già all’attivo due romanzi e vari racconti.
Traduzione – È il titolo di nobiltà letteraria – l’unico: “È stato tradotto in x lingue”.
Vicenza – È la provincia più fertile per la prosa italiana del Novecento, con Comisso, Gian Dauli, Parise, Berto, Piovene, Meneghello, Rigoni Stern – precursori Zanella e Fogazzaro.
letterautore@antiit.eu
Chi era Pasolini 6
I funerali si sono svolti dall’Argentina a Campo dei Fiori, sotto
la statua di Giordano Bruno. Uomo geniale, il più colto della sua epoca, e il
più reazionario, mai libero, uno del Medio Evo. Sotto le campane a stormo
d’ogni chiesa. Il cielo limpido nell’estate di san Martino. Officiante il
Partito: per coprire lo scandalo della morte indecente il Pci s’è preso la
salma. Fu l’uso dei gesuiti coi morti eccellenti, Leopardi perfino e
Pirandello. La funeralizia è arte gesuita, dice Gioberti, che era abate, e non
era male: si dava ai non credenti, per un giorno, l’illusione della tolleranza,
e ai credenti la conversione in limine d’ogni grand’uomo, a
testimoniare la grandezza della chiesa di Roma. Solo Don Giovanni è sfuggito ai
gesuiti: quello lo hanno ucciso i francescani, lasciando intendere che il
Commendatore lo abbia fulminato - i francescani conoscevano in anticipo
l’elettricità?
È
un genere, il rituale i fratelli Taviani hanno codificato in morte di
Togliatti. È mortuario pure il quadro-manifesto del Partito del nobile pittore
Guttuso: un altro funerale, sempre di Togliatti. Il Partito si vuole
inconsolabile? Ha iniziato con Malaparte, il
quale fece di tutto affinché i gesuiti s’impadronissero di lui, a metà con
Togliatti. Un altro che amava solo se stesso, e il cane, da grembo, con la
leggenda schermandosi di un amore con Virginia Agnelli: la villa a Capri regalò
al presidente Mao, la salma al Pci e a padre Rotondi, per un
funerale con bandiere rosse e messa cantata polifonica. E ha continuato con
Debenedetti, dopo avergli negato la cattedra. Tre volte, per non essere
neorealista, non abbastanza, l’ultima in punto di morte. Il professor Sapegno, che era stato compagno di Debenedetti al
liceo e all’università ne bocciava la nomina, pronunciò il necrologio: il morto
si prende il vivo – onusto collezionista, il professore, del Direttorio: quante
storie riserberà la storia del Partito. In vita Pasolini non poté essere del
Partito, aveva dovuto restituire la tessera.
La procedura è che si firma al Partito alle Botteghe Oscure, per
portare la testimonianza, e si va a piedi fino alla Casa della cultura. Dove
diligenti compagni del servizio d’ordine fanno cordone al corpo squartato e
ricomposto dentro la bara, per una breve camera ardente. Poi la bara si porta a
spalla, in silenzio, a Campo dei Fiori.
In piazza parlano un funzionario del Partito, uno della
Federazione giovanile, e Moravia. Si chiude con la voce del poeta virginale
registrata a un festival della Federazione giovanile. Zero libertà, zero
fantasia, e l’amore non si sa: si torna alla casella base, linguaggio doppio,
fraternità finta, servaggio al Partito che bisognava smantellare. I compagni, che fino a ieri l’hanno criticato su ogni aspetto della vita
e del lavoro, se ne appropriano a
fini politici. E
a lui magari fa piacere, al “dolciastro comunista” di Calvino. Non ci sono altri poeti sui marciapiedi. Ma la poesia si sottrae. E l’intellettuale
è traditore.
Col repertorio gesuitico il poeta
viene inumato: maschere di cera, occhi umidi di collirio, fiori secchi, il
canone della costernazione trascende la morte di Dio. Se non che i gesuiti in
tonaca onorano il poeta protestando: padre Alberto Della Vedova è processato
per direttissima per aver imbrattato i manifesti del lutto. Un secolo fa i
gesuiti furono espulsi dalle scuole, i giornali, i parlamenti, i governi, e
forse si sono liberati. Diderot, lo spirito più libero, sarà stato gesuita. Gioberti, che molti ha indotto in peccato con gli scritti che
l’Indice ha proibito, sarà ancora un reprobo?
(continua)
L’innocenza batte la guerra
La guerra
civile – i “troubles” nord-irlandesi, a partire dal 1968, per trent’anni, sono
stati una guerra civile, cattiva, e con molti morti, anche nell’esercito britannico
mandato per presidiare la provincia, tra protestanti e cattolici – raccontata con
proprietà politica e insieme con leggerezza. Vista con gli occhi di un bambino
(il racconto sa di autobiografia, Branagh si dice “britannico”, ma è nato a
Belfast, e all’avvio dei “troubles”
aveva l’età del suo protagonista). Nella vita normale di ogni giorno: i genitori
preoccupati, la scuola, le infatuazioni (lei, bravissima in matematica, è cattolica),
le visite di rito ai nonni, che si ammalano,
anche, qualcuno pure muore (dopo il funerale in Irlanda si banchetta, bevono e
ballano pure i vedovi, per quanto tristi), l’innocenza.
Riandando
ai fatti veri può sembrare un tradimento, una divertimento a spese della tragedia.
Ma la lettura politica regge anch’essa: c’è la verità storica, che fu una guerra
voluta da alcuni protestanti, contro la volontà della maggioranza dei protestanti
stessi.
Il
problema è: come dare un Oscar (il film è pluricandidato) a un bambino?
Kenneth
Branagh, Belfast
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