sabato 26 marzo 2022
Ombre - 607
Ne sa
di più la Farnesina, il ministero degli Esteri? Se l’Italia ignora il mondo la
colpa non sarà di un ministero derubricato a agenzia viaggi, tutto spesato, per
qualche signora e per Di Maio?
Gli
Stati Uniti non apprezzano i “giri di valzer”. Nemmeno le “alzate di capo”. Il
secondo Conte aveva recuperato su Trump (l’entusiastico tweet del “Giuseppi”)
dopo le sbandate del primo Conte per la Cina. Ma Di Maio, che è ministro degli
Esteri? Sarà per questo che parla solo con alcuni ministri africani – non con
tutti.
Non
abbiamo più saputo nulla delle banche colpite dalle sanzioni anti-Russia, delle
banche occidentali a Mosca, per l’Italia Intesa e Unicredit – che peraltro la
Borsa sembra riapprezzare. Se non che le banche americane, che non hanno attività
sensibili in Russia, insistono per aggravare le sanzioni. Dopo essersi pagati
gli interessi sui btp russi in dollari. E mentre ne fanno ancora scorta. Tutto questo
è bizzarro, molto.
Gravina,
il presidente della Federcalcio (Figc), quello dell’Italia battuta in casa dalla
Macedonia del Nord, si era aumentato a ogni buon esito l’indennità da 36 a 240
mila euro. Quanto il presidente della Repubblica.
Anzi
no, Gravina ha di più. Con amicizie importanti, è nella Giunta del Coni e nell’esecutivo
della Uefa, con altri 150 mila euro di appannaggio. Il calcio sì, è un mestiere
redditizio.
“La
Nazionale ha appena 60-70 calciatori eleggibili in serie A”, Matteo Pinci su “la
Repubblica” - su venti squadre iscritte in campionato, va aggiunto, su una rosa
cioè di 440 calciatori: “Si riempiono le Primavere di stranieri utili solo per
le plusvalenze e a ingrassare le tasche degli agenti”. Senza “sfioramenti”?
Sono cinque mesi che Gualtieri è sindaco di Roma e non ha fatto niente. Ora però è
deciso, deve rinnovare la direzione della Festa del Cinema. Non si crederebbe
ma è la cosa più importane per il Pd romano. Sono in campo “la Repubblica”, con
tutti i grossi calibri di Hollywood (le segreterie dei grossi calibri: quelle
che una volta mandavano la foto con dedica, ora mandano attestazioni, i fans
non vanno delusi), Goffredo Bettini, vecchio cuore rosso del Pd, con Bologna e
la giunta Emilia, e perfino Nanni Moretti.
Anche
la candidatura a una qualche Expo è in gran voga nella capitale a leggere le
cronache romane. Con nomine di ambasciatori e ambasciatrici. Si capisce che Gualtieri
non abbia tempo per altro, le discariche, l’immondizia, le ortiche, i senza
tetto.
Il vertice
Nato contro la Russia campeggia su “la Repubblica” con una foto di gruppo di
gentiluomini soddisfatti e sorridenti. Ma la guerra allora non è una cosa seria?
Subito
sotto, “nel cuore di Odessa che resiste ai russi”, il solito Bernard-Henri Lévy
di tutte le disgrazie passeggia in capotto di cachemire, accanto a un uomo in
mimetica, davanti a una barriera di cavalli di frisia ordinatamente disposti se
dovessero arrivare i russi. Un invito al turismo?
Venticinque
firme del “Corriere della sera”, mobilitate per fare un quadro della guerra
dopo un mese riescono a non dire niente di più delle venticinque pagine quotidiane
di foto e didascalie emotive. Forse è un (buon) servizio all’Ucraina? Chissà. Certo
non alla pace – augurabile, possibile, ogni guerra ha una pace, con dignità
naturalmente.
Nell’entusiasmo
pro-ucraino della sua cronaca satirica di Zelensky a Montecitorio, Roncone ha
una dimenticanza. Nei precedenti interventi, il presidente ucraino ha introdotto
un particolare locale: “In Gran Bretagna ha citato Winston Churchill; negli Usa
Martin Luther King; in Israele si è avventurato in un paragone con l’Olocausto
(non del tutto gradito). Qui molti si aspettano un riferimento alla nostra
Resistenza”. Ma poi non dice se l’ha fatto – non l’ha fatto. Una dimenticanza
come indicazione?
Se Zelensky ha evitato
il richiamo alla Resistenza di proposito, è stato onesto, Nei diciotto mesi
dell’occupazione, tra il 1943 e il 1945, gli ucraini erano accanto ai tedeschi,
nei rastrellamenti e nelle rappresaglie. Ci fu anche una Repubblica cosacca del
Friuli, creata dagli ucraini inquadrati nella Wehrmacht:
http://www.antiit.com/2022/02/il-mondo-come-439.html
Curioso.
Gabanelli augura alla onorevole Granato, “che non ha esitato a schierarsi a
favore di Putin”, in andare a bearsi nella democrazia russa, supponendo che
“vivere in un Paese come l’Italia sia un inferno”. Curioso, era l’argomentazione
al tempo della guerra fredda, contro i comunisti. Ora viene svolta in prima pagina
sul “Corriere della sera”, s’immagina da sinistra.
Rasentano
lo scherzo le motivazioni della giudice bresciana Brugnara che ha assolto Storari,
https://www.pressreader.com/italy/corriere-della-sera/20220322/282149294805958
Storari
è il giudice di Milano che crede nella loggia massonica “Ungheria” dell’avvocato
Amara, o Armanna?, e per questo sollecitò il suo compagno di cordata Davigo,
allora membro del Csm, a intervenire contro il suo capo alla Procura di Milano.
“Irritualità”, “inappropriatezze”, “errori scusabili” trova Brugnara a carico
di Storari.
La
giustizia politica è di uno squallore – oltre che violenta – difficilmente eguagliabile.
Statistiche
giudiziarie e cronache documentano un ricorso ordinario dei Tribunali dei
minori alla Pas, Parental Alienation Syndrome, sindrome di alienazione genitoriale,
che non “esiste”, come si dice a Roma. Teorizzata da uno psichiatra pedofilo,
Richard Gerner, mai accettata in sede scientifica. Per strappare i bambini dalle
madri, solitamente, quando i padri le hanno abbandonate o violentate, e darli
in affido. Un semplice caso d’ignoranza? La solita giustizia ingiusta?
La sindrome
è certificata dagli psichiatri consulenti dei Tribunali. C’è un business
degli affidi?
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L’ordine mondiale senza l’Europa
Ritorna controcorrente,
o comunque in un momento inappropriato, giusto perché previsto da un progetto
editoriale di affari internazionali, l’ultimo lavoro di Henry Kissinger, oggi prossimo
ai 99 anni, nel 2015 (il penultimo, tre anni fa si è prodotto con alcuni
collaboratori sul mondo dell’intelligenza artificiale). Così si è tentati di
pensare – così ci viene detto: con la guerra russa all’Ucraina siamo entrati in un nuovo “ordine
mondiale”, questo di Kissinger sarà al meglio un reperto antidiluviano. E
invece no: la
guerra in Europa, la seconda guerreggiata dopo la fine della guerra fredda - la
prima fu nella ex Jugoslavia, appositamente smembrata -, è parte del conflitto
mondiale per le aree di influenza. Si svolge infatti attorno al tema, una volta
finito nel 1990 l’immobilismo imposto dalla guerra fredda, dell’Europa: se deve – vuole,
può - continuare a essere prim’attore della scena mondiale, o deve accontentarsi
di un ruolo di comprimario commerciale, restando, nell’insieme e singolarmente,
gregaria degli Stati Uniti – nel senso del ciclismo: portatrice d’acqua,
volenterosa collaboratrice, e qualche volta, nelle tappe minori, vincitrice in
proprio, non per la classifica, per la soddisfazione.
Europa, convitato di pietra
Questo non sembra il caso con Kissinger: l’Europa è, come anche per
esempio Israele, la grande assente dai suoi scacchieri. Ma proprio per questo è invece una presenza, in
negativo: un convitato di pietra, il convitato di pietra. Ancora si ricorda il suo fatale “anno
dell’Europa”, il 1973, che vide l’embargo del petrolio, i prezzi del petrolio e
del gas triplicati in una notte, le domeniche a piedi, al buio, inflazione al
10 e al 20 per cento, un mese dopo la sua ascesa al dipartimento di Stato il 3
settembre - in coincidenza con il golpe sanguinoso contro Allende in Cile. È in
Europa e con l’Europa che Kissinger assume la fisionomia di Stranamore, non con
le bombe atomiche.
L’“anno dell’Europa” fu utilizzato da Kissinger per agganciare
il Medio Oriente, fino alla Persia dello scià, in funzione anti-sovietica, e
insieme manifestare la debolezza
(dipendenza) dell’Europa? Nello stesso anno, non si ricorda ma ha progettato
pure questo, ipotizzando un gasdotto North Star, dal bacino russo dell’Urengoy
agli Stati Uniti attraverso il mare di Barents – contro i gasdotti dell’Eni…
(cui tentava di agganciarsi la Germania, è vero). Che bisogna dedurne?Forse Israele c’entra. Forse Kissinger è sempre l’ebreo espatriato
dall’Europa, dalla Germania, un’origine alla quale non ha mai sentito il bisogno
di tornare – benché lo abbia marchiato a vita, nella parlata, nel modo di vita.
Non espatriato, in fuga, nel 1938, con la famiglia, a quindici anni. La storia
è fatta anche di eventi personali. Ma Kissinger, certo, ne sa di più.
Multipolare in Orwell
Si parla di mondo multipolare in “1984”, il romanzo fantapolitico
di Orwell, 1949: nel 1984 il mondo è già diviso in
tre, Oceania, Eurasia, Asia Est – Oceania è la Nato. Il multilateralismo che
Kissinger qui (ri)spiega è la sua dottrina fin dal 1974, scritta in una brochure
che circolò poco, discussa con i ministri degli Esteri di Francia, Germania e
Gran Bretagna. Ai colleghi europei Kissinger prospettò sei fronti: la guerra civile in
Jugoslavia dopo Tito, in Spagna dopo Franco, in Finlandia dopo Kekkonen, in
Italia e Portogallo con i comunisti al governo, e il blocco di Berlino.
L'Europa, dunque, votava alla guerra civile.
Non bisogna sottovalutare Kissinger.
Ai tempi in cui era attivo aveva l’abitudine di scrivere dieci anni prima
quello che avrebbe fatto poi. In pensione, ha sempre saputo quello che stava
per succedere, e come si poteva gestire, con la Cina, e su altri scacchieri. Qui
si parte dalla pace
di Vestfalia, il riferimento non si può evitare, Kissinger è pur sempre un
vecchio trattatista, studioso dei trattati internazionali. Studioso della balance
of power, nostalgico del Congresso di Vienna, il suo studio di dottorato,
di cui non manca mai di fare menzione. Ma prima di Vienna, e non famigerato,
viene l’equilibrio di potenza “vestfaliano”, il primo e più durevole tra gli
Stati nazionali novellamente costituiti in Europa, col riconoscimento e la
definizione del concetto di sovranità – senza contare che fu il capolavoro del
cardinale Mazzarino, lo statista per eccellenza, come Kissinger lo concepisce.
Nel
mondo nuovo post-ideologico e globalizzato ci vorrebbe una Vestfalia della
globalità, un ordine mondiale. Kissinger lo intravede, e sa anche come gli Usa
possono gestirlo – il punto di vista è naturalmente americano. Nell’interesse
proprio e di ogni altro, è ovvio, altrimenti nessuna “pace” tiene - questo è molto importante, è il presupposto della diplomazia, della arte cioè della pace, che la presidenza Biden, in contrasto netto con gli otto anni della presidenza Obama-Biden, non intende praticare: la pace tiene se tutti vi hanno un interesse. Kissinger giunge al punto di prospettare una sorta di quinta colonna, in uno Stato per qualche verso ostile, che ne faccia gli interessi, per evitare uno scontro.
La cattiva opinione
La novità è il posto che Kissinger assegna
all’opinione pubblica. A quarant’anni dalla sconfitta in Vietnam, da molti imputata
al “fronte interno”, alla tensione antibellica che fotografi e televisioni
montarono implacabili, in America, contro la guerra americana in Vietnam. Qui
l’allarme è preventivo. Le opinioni pubbliche sono sempre eccessive, nella
militanza come nella passività, ma oggi sono qualitativamente diverse, e non
per il meglio. Sono praticamente senza giudizio: l’“interazione quasi costante
con uno schermo durante tutto il giorno” che “televisione, computer e smartphone
formano”, è inaffidabile. Per “la sua enfasi sul fattuale piuttosto che sul
concettuale, su valori plasmati dal consenso piuttosto che dall’introspezione”,
dal giudizio.
Per fattuale il realista politico intende superficiale: il vizio della
navigazione oggi rimette in gioco tutti i dati della partecipazione, o
controllo democratico. Non solo sugli eventi internazionali, sempre complessi,
ma su ogni decisione di politica nazionale, dalle elezioni presidenziali alle
scelte locali. Si perdono “la conoscenza della storia e della geografia”, e il
senso comune, “la mentalità necessaria per percorrere sentieri politici poco
battuti”. Lo spettatore inerme di questi giorni, accasciato sotto un profluvio
di immagini di cui non gli viene data il nesso, non può che dargli ragione:
l’opinione è più che mai manipolabile, anzi, la sua manipolazione sembra essere
l’arma migliore – più distruttiva, meno cara.
Condominio con le potenze asiatiche
Con questo limite, se esso non dilagherà sugli
sviluppi internazionali, un ordine mondiale tuttavia si prospetta. Con al
centro sempre gli Stati Uniti - nella “pax americana” cioè, che Kissinger mai
pronuncia, insieme lenta e vincolante. Come un condominio multilaterale,
allargato alle potenze asiatiche, Cina, India, Giappone, e a una voce
latino-americana. Se la balance of power, Vienna-Vestfalia, è il
pilastro dottrinale del Kissinger studioso, il multilateralismo è l’opera sua
di statista da cinquant’anni, da quando nel 1969 fu associato alla Nsa, la
National Security Agency, e poi al dipartimento di Stato. Teorizzato nel 1974,
subito dopo la crisi del petrolio, è rilanciato ora su scala mondiale. Senza
l’Europa.
Un multilateralismo, con assenza inclusa
dell’Europa, che è lo stesso che si prospetta a Pechino, va aggiunto, all’altro
estremo del manifesto globale – è un merito di Kissinger, un demerito? Anche a
Pechino l’ordine americano è assunto nei fatti, non contestato. In un quadro
multilaterale: Usa, Cina, India, America Latina (Brasile-Messico). Con un
dubbio: se ci sarà una “potenza Europa”.
Una lettura che è una ventata di rinfrescante
conservatorismo: Kissinger sarà stato l’ultimo maestro dell’arte diplomatica,
ossia della politica intesa a tenere i popoli fuori della guerra. Lo studio e
l’applicazione diplomatica sono in bassa stima, in questa epoca di wilsonismo a
perdere, di moralismo e superficialità. Mentre le insidie sono dietro l’angolo.
La politica dei brand
Già nel 2015 Kissinger parla di campagne presidenziali
trasformate in “confronti mediatici tra operatori internet”. Ancora senza QAnon
e le spie russe, ma con i candidati ridotti a brand, a
“portavoce di operazioni di marketing”. Anzi no, c’è pure il Russiagate: il
Kissinger cyberanalfabeta sa già che “un portatile può avere conseguenze
globali”. Anche senza complotto: “Un attore solitario con sufficiente capacità
di calcolo può accedere al cyberdominio per disabilitare e potenzialmente
distruggere infrastrutture chiave, da una posizione di quasi completo
anonimato”.
Kissinger va anche un passo più in là, a un
accordo sull’uso del cyberspazio analogo a quelli suoi sui missili e la potenza
nucleare. “Una qualche definizione di limiti”, chiede, in “un accordo su regole
di reciproco autocontrollo”. Il realpolitiker si fa a questo
proposito profetico: il cyberspazio è “strategicamente decisivo”. Di più: la
“prossima guerra” si combatterà in rete – che è la guerra di oggi, quale la
vediamo.
Ha pure il populismo invasivo dei primi
arrivati, “individui di oscura estrazione” liberi di manipolare la politica, al
punto che “la stessa definizione di autorità statale può diventare
sfuggente”. Le opinioni pubbliche sono sempre eccessive, nella militanza
come nella passività, ma oggi sono praticamente senza giudizio: l’“interazione
quasi costante con uno schermo durante tutto il giorno” che “televisione,
computer e smartphone formano”, è inaffidabile. Per “la sua enfasi sul fattuale
piuttosto che sul concettuale, su valori plasmati dal consenso piuttosto
che dall’introspezione”, dal giudizio.
Fattuale per il realista politico è
superficiale: il vizio della navigazione oggi rimette in gioco tutti i dati
della partecipazione, o controllo democratico. Non solo sugli eventi
internazionali, sempre complessi, ma su ogni decisione di politica nazionale,
dalle elezioni presidenziali alle scelte locali. Si perdono “la conoscenza
della storia e della geografia”, e il senso comune, “la mentalità necessaria
per percorrere sentieri politici poco battuti”.
Henry Kissinger, Ordine mondiale,
“Corriere della sera”, p. 405, € 9,90
venerdì 25 marzo 2022
Problemi di base bellicosi 5 - 690
spock
Si fa la
guerra per scegliere la data della morte – magra soddisfazione?
Si fa la
guerra ora totale, anche alle rovine?
Ma noi, volevamo
allontanare la guerra all’Ucraina, o la volevamo?
Una guerra
annunciata?
Ci voleva una
guerra per rilanciare la ricerca e la produzione di gas e di petrolio?
E l’industria degli
armamenti?
spock@antiit.eu
Povero Pasolini
Così pieno di vita
Morire per caso
E scoprire che la morte
Cancella il mondo
O se è una festa
È per tutti
Senza di noi.
Borghesia corsara
La recensione di “Un po’ di febbre”, la raccolta
di racconti di Sandro Penna, esordisce: “Che paese meraviglioso era l’Italia,
durante il periodo del fascismo e subito dopo!” Con “la felicità «reale»” dei
contadini e sottoproletari, perduta con lo sviluppo. Il poeta voleva
sconcertare, e ci riesce. Ma non di più.
Questi sono gli articoli migliori di Pasolini, i più quotati: i capelloni, le lucciole, io so, la rivoluzione antropologica, le recensioni. Ma sono passatisti. Paesaggistici, vedutistici. Si sono letti come ribelli, dissacratori, anticonformisti, si leggono come perbenisti – il vero liberale è sempre un po’ anarchico (“superiore”). Anche “strapaese”, quarant’anni dopo - Malaparte però e Longanesi, altrettanto mordaci, erano nel ruolo, e quindi restano vivi.
Si leggono ancora, ma come reperto. Come scritti d’autore hanno perduto lo smalto di quando uscirono. E bisogna chiedersi se la loro forza straordinaria non stava nel veicolo, il “Corriere della sera”, più che nel testo - “Il Pci è un paese pulito in un Paese sporco, un Paese onesto in un paese disonesto, un Paese intelligente in un Paese idiota, un Paese colto in un Paese ignorante”: detto sul “Corriere della sera” indubbiamente fa rumore. L’unica cosa onesta resta il titolo.
La raccolta è stata curata da Pasolini qualche
mese prima della morte. Nella riedizione postuma di Garzanti era preceduta da
una introduzione, impacciata, di Alfonso Berardinelli. Qui è sostituita da una,
meno impegnata, di Paolo Di Stefano, che cura la collana Pasolini per il
“Corriere della sera”.
C’è anche l’articolo non pubblicato contro Carlo
Casalegno, presto vittima delle Brigate Rosse. Pasolini dice di odiarlo, più
del “miserabile fascista di dieci anni fa”, uno sconosciuto che il poeta
ricorda di avere inseguito per un buon quarto d’ora attraverso tutta San
Lorenzo tanto il suo sdegno era inesausto. A Casalegno Pasolini imputa, per un
articolo sulla “Stampa” contro di lui e Moravia, “la mania che ha preso gli
italiani di darsi continuamente dei fascisti tra di loro”. Mania che però egli
stesso aveva avviato qualche mese prima, con “Il fascismo degli antifascisti”.
Con leggerezza, certo, alla Pannella, alla Ottone, i vaffanculisti dell’epoca.
Certo tirati ai quattro pizzi, sobri, inappuntabili. Molto borghesi.
Pier Paolo Pasolini, Scritti corsari,
“Corriere della sera”, pp. 303 € 8,90
giovedì 24 marzo 2022
Secondi pensieri - 477
zeulig
Cretino – La filosofia non ne tratta, ma lo pratica. Lord Russell, all’inizio della “Filosofia Occidentale”, sostiene che Socrate fu condannato giustamente. E perché? Perché Senofonte, cui si deve la tesi della condanna ingiusta, era un cretino. Lo Zenone di Yourcenar ha ragione, gli dei e i demoni che risiedono in noi sono reali. E se l’interlocutore appartiene a una setta, possiamo adoperare contro di lui nell’argomentazione i principi di quella setta. È il topico – la topica? – VIII, 9 di Aristotele. La filosofia lo consente, la quale stabilisce che “il vero può conseguire da premesse false, ma mai il falso da premesse vere”. Da cui lo stratagemma numero cinque di Schopenhauer, usare liberamente le premesse false.
Natura – Suggerisce la
bellezza: l’elegia, l’idillio si legano alla natura. Le albe e i tramonti, i cieli
trascoloranti, i fiori, i frutti, la materializzazione delle stagioni, gli
animali, anche se sempre meno accomunati alla natura e sempre più domestici.
Anche nei sui aspetti ostici o minacciosi o catastrofici: la foresta, il
dirupo, il terremoto, il tifone.
Per trasposizione
dall’aristotelico “in tutte le cose della natura c’è sempre qualcosa di
meraviglioso”. Che però non è la stessa cosa. È una proiezione, ma anche un
modo di essere: la bellezza (l’idea, l’ideale) non deriverà dalla natura, dal
suo proporsi e dalle sue metamorfosi, anche nefaste? Il bello è meraviglioso, il meraviglioso è bello, è vecchia estetica, che si dice romantica, ormai bisecolare. Che però non si supera, l’ecologismo la fa anzi legge fisica. Contro ogni evidenza.
Nichilismo – Può essere etico,
una proposizione, un programma. In fisica, e in metafisica, non ha risolto
tutto il verso di Lucrezio, “Non può nascere nulla\ dal nulla”? Il creazionismo,
sia pure nella forma ridotta del Big Bang, riciccia ovunque.
Le leggi naturali
non sono la spiegazione dei fenomeni naturali. Il lemma di Wittgenstein (“tutta
la moderna concezione del mondo si fonda sull’illusione che le cosiddette leggi
naturali siano la spiegazione dei fenomeni naturali”) constata un’ambiguità,
criticamente.
Pornografia – Esclude
l’erotismo – lo ha cannibalizzato, eraso. La pornografia libera e diffusa ha
svuotato l’erotismo – in una col succedaneo alcol, la vera droga delle nuove generazioni,
il disinibitore, cieco. Non ci si innamora più, solo si scandagliano moti e
misure sulle posizioni del coito. Che peraltro è esso stesso privato d’urgenza
– ridotto a ginnastica e pratica igieniche, doverose. Per i ragazzi allo stesso
modo, ora, che già per le ragazze: non c’è passione, colpo di fulmine, attesa,
corteggiamento, ma solo curiosità, poca, e mutevole, con facilità.
L’attesa,
l’incontro, la scintilla, la lontananza (separazione), la lettera, tutto
svanito. I profumi (ora scaduti a odori), i colori, il contatto, l’epidermide,
il calore, l’incertezza, la gioia, “il miele e il fiele”, tutto il fondo
dell’erotismo, sono cancellati dalla pornografia, che l’amore riduce al coito, alle
tecniche del coito. Sguardi, sfioramenti, carezze, calori, aspettative, sogni,
timori, illusioni, immaginazione, tuto svanito. Di colpo. Anche per le
generazioni precedenti: la scomparsa dell’erotismo, scacciato dalla
pornografia, non è una novità o un assetto generazionale ma epocale, vale per i
figli come per i genitori: l’erotismo non trova più alimento, non nell’immaginario
né nella realtà. Il coito stesso riducendo peraltro a un momento, con la sola
varietà delle posizioni.
L’eliminazione
dell’erotismo è l’eliminazione dell’amore, malgrado le tante storie che se ne
scrivono e si serializzano. Che è ora anch’esso incerto, e unicamente legato
agli esiti del rapporto sessuale – soddisfacente, insoddisfacente, e comunque occasionale
e circoscritto.
Una reductio ad
bestiam? No, è un fatto, evidente, incontestato. In un quadro semmai più
ampio, degli orizzonti e le prospettive ristrette, delle ambizioni, le
passioni, le attese dell’umanità, e a maggior ragione di chi vi entra. Gli
epistolari, oggi pubblici – messaggi, social, immagini – sono tutti mirati a
ridurre l’infinita varietà dell’erotismo all’atto. Spogliato di ogni mistero,
cioè di attrazione. L’erotismo, peraltro eraso, sarebbe comunque uno spreco -
una “perdita di tempo”: non è utile, non produce, non serve. La sessualità ridotta alla pornografia, una
sorta di ginnastica, a fini di fitness, è parte della mercificazione
totale dei rapporti umani nel quadro del mercato.
Psicoanalisi – È una pratica
esorcistica? “La psicanalisi insegna e promette un esorcismo a regola d’arte:
fa vomitare fuori i diavoli e gli ospiti maligni, li rimanda nel deserto, nella
terra di nessuno, donde è sperabile che non tornino più a insidiare il
territorio civile abitato dal paziente. Li restituisce al caso, come è dovere
di ogni buon esorcista. Propone inoltre la figura del medico con la sua disponibilità
ad accollarsi il transfert del paziente, come il tipo insieme dell’esorcista
e del capro espiatorio”, Giacomo Debenedetti, “La sua Quinta Stagione” (in
“Italiani del Novecento”).
Rivoluzione - La rivoluzione è di tutti. Anche di
tutti contro tutti, non si può sapere quando si è dentro, a ogni passo bisogna
fare il punto. Le rivoluzioni, dice Lessing, vanno col tempo,
sono il divenire storico. E il
divenire storico cos’è? È Salamina, Cesare, Attila, la scoperta dell’America,
l’Ottantanove, Lenin, la Bomba? O basta Cristo? E Omero? E le larve, le stelle,
i dinosauri?
Fede è
certezza di cose sperate, come diceva Dante? Rivoluzione rivelazione, questo è.
La rivoluzione ha il ruolo che era della vita eterna, salva quelli che ci
sperano. Ciò è stato scritto da un dannunziano minore, il Malraux ladro d’arte,
già nel 1933, cinico nella Speranza. Ma la
storia non è mai come appare.
La rivoluzione è un coitus interruptus,
si è argomentato per decenni, per giustificarne la prudenza. Per una ragione
anche nobile, evitare di essere cannibalizzata dalla borghesia. Il movimento rivoluzionario,
che era fervido fino poco più di trent’anni fa, ha temuto che l’astuta
elasticità del sistema ne fagocitasse le richieste, qualora venissero
formulate. Ma l’unico suo obiettivo, giusto, non compatibile, non assorbibile,
non domesticabile, era “rovesciare il sistema”.
La rivoluzione non è in Hegel buona cosa,
al famoso capitolo “La legge del cuore e la follia della presunzione di sé”. La
legge del cuore è la rivoluzione. È “coscienza impazzita”, “non-essenza”,
“irrealtà”. Hegel fu conservatore, si sa. Ma la rivoluzione spregia la ragione,
“la tanto disprezzata realtà delle cose”. Rivoluzione viene col basso latino,
per dire svolgimento. Nelle lingue moderne è documentata nel 1267, e sta per
ciclo, giro. È quindi una fine, che non implica un principio, un salto. Il
problema è di chi è la fine. Un sinonimo greco per rivoluzione è metastasi.
Tommaso d’Aquino sancì il diritto di
rivolta. San Tommaso era suddito di Federico II, re illuminato e quindi scomunicato.
Era domenicano e quindi per il papa, anzi teologo della curia - mentre i
francescani, si sa, erano agenti della propaganda imperiale, nella lunga lotta
tra papato e impero.
La rivoluzione è avversione al salaud,
che è meno di salope, assicura
Barthes, ma è sempre un piccolo borghese. O salaud
o vacanze intelligenti, fra romanzi di avventura e mostre didascaliche. È
l’avversione alla civiltà di massa, alla democrazia. Non da aristocratici ma da
sdegnati, declassati senza classe. Da insofferenti. Per anzianità,
pusillanimità. È un fallimento, individuale e della ragione, cosa dice Marcuse
che ne ha fatto l’analisi? Eccetto Camus, che è morto, gli altri sono finiti male,
bolscevichi non marxisti, ministeriali, uxoricidi, pedofili, e fra le chiappe
delle allieve, o degli allievi. Surrogati di surrogati. Come bere cicoria
pensandola caffè, di orzo. Per tornare a Hegel, il quesito subito, essenzialmente,
è: che filosofia è questa? I tedeschi, siccome Platone è morto e il greco pure,
se la cavano con allusioni.
zeulig@antiit.eu
Drago in affari, perduta nella vita
Lo stentato
recupero delle sale nell’allentamento della pandemima ha costretto molti film
fuori scena. Quest’ultimo di Soldini meritava di più, specie per la semplicità
del soggetto. E per la forza trascinante della protagonista, Kasja Smutniak,
che lo rende credibile: uno sdoppiamento, tra la massima sicurezza, certezza di
se stessi, e il nulla – incomprensibile, intrattabile.
Una brillantissima
avvocatessa d’affari, impermeabile ai sentimenti, se non sotto forma di foja di
un momento con questo o quell’amante, di impazienza con la figlia, di superbia verso
i colleghi e protettori, in un momento d’ira resta vittima di un incidente
stradale. Marginale per lei, mortale per un degli investitori, in motorino. Un
incontro\scontro con un’altra vita, di curiosità e impulsi, che invece non sa dominare.
Silvio
Soldini, 3\39, Sky Cinema
mercoledì 23 marzo 2022
Problemi di base bellicosi 4 - 689
spock
“Non c’è mai
stata una buona guerra o una cattiva pace” (B. Franklin)?)
“Facciamo la
guerra per poter vivere in pace” (Aristotele)?
“Fanno il
deserto e lo chiamano pace” (Tacito)?
“La guerra
nutre se stessa” (Tito Livio?
“La guerra può
essere abolita solo con la guerra”, Mao Tse-tung?
“Una spada
costringe l’altra a rimanere nel fodero”, G. Herbert?
“Un uomo può
essere distrutto ma non sconfitto”, Hemingway?
spock@antiit.eu
Il canto ai sordomuti, da Oscar
Rifacimento
di “La famiglia Bélier”, film francese del 2014, di Éric Lartigau. Una ragazza,
piena di energia, voglia di vivere, unica parlante in una famiglia di
sordomuti, pescatori, che deve aiutare a ogni uscita, riesce anche a
frequentare il liceo, ed è specialmente accudita dal maestro di musica, che ne
apprezza la voce. Il coro prestigioso a Parigi cui la ragazza concorreva nel
vecchio film è sostituito dalla borsa di studio di una università a Boston cui
la ragazza deve concorrere per il canto.
Una
trama semplice, raccontata con gusto. Con Emilia Jones, adolescente, possible Oscar attrice debutante
lunedì prossimo.
Stan
Herder, I segni del cuore, Sky Cinema
martedì 22 marzo 2022
Il mondo com'è (442)
astolfo
Kerč – La cittadina sull’istmo
tra il mar Nero e il mare di Azov, annessa con tutta la Crimea alla Russia nel
2014, innesco della guerra ora in corso, annoverava fra gli abitanti una folta
colonia di italiani, soprattutto pugliesi, che vi erano immigrati a metà
Ottocento. Erano contadini e pescatori, attratti dalla penisola, ricca di frumento
e di pesce. Sette anni fa i superstiti avevano avviato una pratica di
riconoscimento delle origini italiane, e quindi di concessione del passaporto
italiano. Erano rimasti in pochi, e avevano avuto brutte esperienze con Mosca
negli anni di Stalin.
La Russia
rivendica la Crimea sulla base dell’annessione al tempo di Caterina II, dell’espansione
che la zarina progettò e realizzò verso Beirut, verso il Mediterraneo. La
colonia di emigrati italiani, originariamente russi, poi sovietici, poi
ucraini, infine di nuovo russi, consistente all’origine di alcune centinaia di persone,
era l’ultima delle tante colonie franche, cioè genovesi, disseminate per il
Mediterraneo orientale – Odessa, Galata o Pera, etc.
L’Ucraina,
compresa la Crimea, fu conquistata dalla Germania nella prima offensiva contro
l’Urss, a settembre del 1941. Col concorso degli stessi ucraini. Ma fu
riconquistata quasi subito dall’Armata Rossa, quattro mesi dopo, e Stalin ordinò
l’epurazione dei collaborazionisti. Il 29 gennaio 1942 anche i cittadini di origine
italiana furono deportati: svegliati all’alba, consigliati di portare un bagaglio
non superiore ai 16 kg., e imbarcati per la città russa di Novorossijsk. Da qui
furono indirizzati, con un viaggio lungo un mese, in Kazakistan, disseminati in
borghi rurali. Dove le donne furono assegnate ai kolchoz, le fattorie collettive
create dopo la confisca della terra ai contadini, e gli uomini impiegati nelle miniere,
e nell’impianto metallurgico di Cheljabinsk, a 200 km. da Ekaterinburg. Alla
fine della guerra molti sono rimasti a Cheljabinsk o in Kazakistan – moli dei
sopravvissuti all’inverno della deportazione, rigido. I pochi che si
ristabilirono a Kerč provarono a riprendere i contatti con l’Italia.
Kerč era uno dei pochi luoghi nominati
degli ebrei kazzari, la “tredicesima tribù”. Era ottimo porto, che signoreggiò il Bosforo Cimmerio, attesta Algarotti. “La morta Kerč”, una città che trasloca,
così la vede invece Sklovskij nel “Punteggio di Amburgo” (1928),
con le donne sedute su cuscini alla finestra, verso una fabbrica in costruzione.
Obsolescenza pianificata – È stata introdotta nella produzione
industriale un secolo fa per limitare o ridurre il ciclo vitale di un prodotto,
e accelerarne il ricambio. Al fine di tenere sempre attivo e incrementare il
ciclo produttivo. Una sottocategoria allora analizzata e codificata è l’obsolescenza
simbolica, o percepita: quella indotta dalla pubblicità o dalla moda.
Le storie industriali la fanno
nascere come politica industriale nel 1924, quando il cosiddetto Cartello Phoebus,
dei principali fabbricanti europei e americani di lampadine, stabilì di
limitarne la vita a cica mille ore di esercizio. Giustificando la limitazione
con la maggiore efficienza rispetto alle lampadine di durata superiore o
indeterminata.
Il termine è invece fatto risalire
al 1932, quando fu avanzata la proposta (da un Bernard London, mediatore
immobiliare americano), di imporla per legge, come misura anti-depressione e
di stimolo all’economia.
Sloanismo – È da quasi un
secolo la tecnica di fabbricazione delle automobili: la creazione di una “piattaforma”
che consenta la fabbrica di più modelli di automobili, di costo\prezzo e
qualità diversa, per ridurre i costi di fabbricazione, e insieme venire
incontro alle esigenze di una clientela diversificata, come Chevrolet, Pontiac,
Buick, Cadillac, Oldsmobile. Elaborata e adottata, in concorrenza con Ford, negli
anni 1920 dall’allora presidente-direttore generale della General Motors, Alfred
Sloane, che con questa tecnica superò in produttività e produzione la rivale Ford
nel 1926 - per circa settant’anni GM sarà poi il più grande gruppo industriale
americano (da cui il motto “ciò che buono per la General Motors è buono per gli
Stati Uniti” – solitamente attribuito al presidente Wilson, che però era stato
presidente fino al 1921, in epoca fordiana cioè, ed era morto nel 1924).
A Sloane e alla
General Motors è anche attribuita l’innovazione\introduzione del design nella
fabbricazione dell’automobile. Per concorrere, benché l’automobile sia un
prodotto costoso e quindi di lusso, all’obsolescenza pianificata, all’esigenza
di cambiare modello con rapidità. Moltiplicando la diversificazione (colori,
forme, novità di vario genere - gadget, optional).
Viaggio a Weimar – Il primo
Convegno dell’Associazione Europea degli Scrittori promossa dalla Germania di Hitler, dall’8 all’ 11 ottobre
1942, si tenne a Weimar, con la partecipazione di una folta delegazione
italiana, comprendere anche Vittorini e Giaime Pintor. L’Associazione era stata
creata il 24 ottobre 1941, sempre a Weimar, al termine di un “Incontro degli
scrittori della Grande Germania” convocato dal ministero tedesco dell’Istruzione
e della Propaganda (Goebbels), al quale però per la parte italiana avevano partecipato solo il filosofo fascista Alfredo Acito e il germanista Arturo Farinelli. Hans
Carossa ne era stato nominato presidente. E come vice la Germania avrebbe
voluto Riccardo Bacchelli. Che però declinò l’invito. Si scelse allora Papini.
Per il primo
convegno Carossa invitò Papini, e ancora Bacchelli, Farinelli e Pastonchi,
quali membri designati dall’Accademia d’Italia), con Alfredo Acito, Corrado
Alvaro, Enrico Falqui, Giaime Pintor, giovanissimo ma acclarato germanista,
Mario Sertoli, Bonaventura Tecchi, Elio Vittorini. Il ministero italiano si adoperò
per dare consistenza alla partecipazione, estendendo l’invito anche a Montale. E
aggiungendo alla delegazione Giulio Cogni, il teorico razzista. Mentre l’Accademia
modificava le sue indicazioni: Emilio Cecchi e Antonio Baldini prendevano il
posto di Bacchelli e Pastonchi. Montale si disse indisponibile “per malattia”.
Alvaro, già corrispondente a Berlino, e Tecchi, prigioniero di guerra nel 1918
a Celle in Germania (con Gadda), non risultano aver partecipato. La delegazione
italiana fu comunque cospicua: Baldini, Cecchi, Falqui, Farinelli, Pintor, Vittorini, oltre a Acito,
Cogni e Sertoli. Il convegno fu chiuso da un’allocuzione di Goebbels.
Pintor risulta,
nel curriculum che il ministero inviò all’ambasciata a Berlino, “proposto dall’Addetto
culturale germanico presso l’Ambasciata di Roma, dott. Hoffmann”. Scriverà del
convegno per “Primato”, la rivista di Bottai, ma l’articolo non fu pubblicato. Si
può leggere ne “Il sangue d’Europa”, la raccolta postuma di suoi scritti. Il
suo resoconto non fu negativo, se letto in parallelo con la relazione che
Sertoli scrisse per il ministero della Cultura Popolare (il parallelo è in
Maria Clotilde Angelini, “1942. Note in margine al Convegno degli scrittori
europei a Weimar”). Farinelli dice “generoso di parole e di abbracci… a volte
impaziente”, Cecchi “placido”, e “acuto” Baldini: “In realtà la loro educazione
rondista non corrispondeva al clima di folklore cosmopolita che inevitabilmente
si era creato a Weimar”. Di Falqui notando che “aggiungeva alla reazione dei
due maestri un rapido e vivace commento” (a Falqui si accredita il sommario: “un
covo di cretini”).
Sertoli, a Weimar
per conto del Ministero, riferisce invece di un convegno “inutile”, molto
disorganizzato, “alloggiamento da caserma”, cibo da rancio, “una disorganizzazione
grave in un Paese, la cui forza è basata sull’ordine”. Critica perfino il discorso di Goebbels.
Il “clima di folklore
cosmopolita” peserà molto sui partecipanti francesi - i quali però al ritorno
ne avevano fatto resoconti entusiastici. Il viaggio fu uno dei principali capi d’accusa
per i collaborazionisti. Brasillach è stato fucilato, Drieu La Rochelle si è
ucciso, Ramon Fernandez, ex comunista divenuto hitleriano, era intanto morto annegato
nell’alcol. Bonnard e Fraiganux saranno emarginati. Jouhandeau si giustificherà
con la caccia al giovane biondo – “i miei viaggi furono viaggi di nozze”.
A un viaggio a Weimar
aveva partecipato nello stesso anno Pasolini, Che ne scrisse sul mensile della
Guf bolognese, “Architrave”, “Cultura italiana e cultura europea a Weimar”. Un
resoconto molto positivo, fra i giovani dell’Europa hitleriana, di svecchiamento
per gli italiani seppelliti nel provincialismo. Sotto una citazione dallo “Zibaldone”
di Leopardi, 1106: “... le illusioni quando sono nel loro punto fanno
un popolo veramente civile”.
Yalta - Gli “Accordi di
Yalta” in Crimea, del 4-11 febbraio 1945, sono di fatto di Livadja, a Ovest di Yalta,
dove furono discussi e firmati nell’hotel omonimo. Ma, sempre di fatto, già
concordati a Mosca, fra Churchill e Stalin, nell’ottobre 1944 – il presidente
americano F.D.Roosevelt essendo impegnato negli Stati Uniti nella campagna per
la rielezione. Furono Churchill e Stalin a dividere l’Europa – con la soglia d’incertezza
sulla Grecia che poi portò alla guerra civile.
astolfo@antiit.eu
L’alcol è buono e fa bene
Quattro
professori di liceo trovano che l’alcol aiuta. Al divertimento, all’autostima,
anche di qualche studente, e perfino con le mogli, fugata qualche incomprensione.
Una commedia, Oscar 2021 per il miglior film straniero.
Ci
voleva la Danimarca per il miracolo, l’Oscar una commedia. Per di più
politicamente scorretta – l’inno all’alcol. Non si ride, ma è garbato.
Thomas
Vinterberg, Un altro giro, Sky Cinema
lunedì 21 marzo 2022
A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (486)
Giuseppe Leuzzi
“Il
padrino, quando la mafia imita il cinema” è la colonna di Morreale sul cinema
per “il Venerdì di Repubblica”. “Il padrino” di Coppola mezzo secolo fa salvò
la Paramount dal fallimento, influenzò molto cinema americano, e aprì un genere
all’Italia, tra giallo, violenza, e una Sicilia mafiosa: “I film italiani sulla
mafia furono almeno una quindicina”. Subito, ora sanno dieci volte tanti, tra
film e serie tv, il genere e il filone più vasto e seguito. Un regalo?
Fra
le tante evocazioni di Aldo Moro emerge Alberto Ronchey, che lo disse
“l’incarnazione del pessimismo meridionale”. Un peccato, cioè. Ma il meridionale
pecca più per pessimismo o non per ironia? C’è differenza. Moro era ironico, per costituzione, negli occhi e nel taglio della bocca.
Il
pessimismo è anche difficile da definire. Pessimista si direbbe per esempio
senz’altro Baudelaire, che invece fu inguaribile ottimista, malgrado i lamenti.
iperattivo, curiosissimo, e sempre in palla.
“Montalbano”,
“Màkari”, “Imma Tataranni”, i grandi successi Rai del lunedì, il giorno più
difficile, sono meridionali: i personaggi, i luoghi, esterni e interni, le psicologie,
i parlati. Il Sud è più avventuroso, più invidiabile?
O
gli spettatori sono al Sud più assidui alla televisione – ci vorrebbe un auditel
regionalizzato?
Il
pesce spada è di stagione nello Stretto di Messina nei mesi “senza la r”. È una
regola inderogabile, nessuno consuma pesce spada fuori di quei mesi. In
Danimarca, si apprende dal film premio Oscar “Un altro giro”, il merluzzo è di
stagione nei mesi “con la r”.
I
danesi essendo considerati i meridionali della Scandinavia (famiglia, sole,
canto, vino, manca solo il mandolino), sarebbero le fisse alimentari cosa meridionale?
A Milano l’università Bicocca elimina un
corso su Dostoevskij, per protestare contro l’invasione russa dell’Ucraina.
Dopo che il sindaco Sala ha chiesto al maestro Gergiev un atto d’accusa contro
la Russia, la sua patria, per poter dirigere alla Scala come da programma. A Bologna
la Fiera del libro per l’infanzia elimina la letteratura russa. Il Nord parte
alla guerra: non costa niente, solo un po’ (molto?) di stupidità. C’è però da
averne paura.
L’“Io” è “una popolazione”, Carlo Dossi:
“Non ho io forse in me stesso una popolazione di lì, l’uno diverso dall’altro” (“Note
azzurre”, 2369). Si nasce radicati, e si resta radicati, anche nella
lontananza-assenza.
Il comune di Grizzana Morandi, sull’Appenino
bolognese, 3.916 abitanti, 547 m. di altezza, riceve 20 milioni di euro dal
Pnrr. Quattro bilanci e mezzo del Comune. Per le sue frazioni di La Scola, sedici residenti, e
Campo, quarantaquattro. Per “riqualificare” i due borghi “fortemente spopolati”:
scuola per scalpellini, recupero di (poche) case abbndonate, completamento e
restauro di una Rocchetta Mattei (un rudere), con studi cinematografici
all’interno. È uno dei perni del programma della Regione Emilia-Romagna. Simpatico.
Fosse avvenuto in Sicilia?
Contrordine, non è il Sud che bara sull’ecobonus.
L’inchiesta della Guardia di Finanza di Rimini che denunciava una banda di
criminali di Abruzzo, Puglia, Basilicata, Campania, Sicilia (in realtà di riminesi,
con qualche comparsa da queste regioni: manovali, subappalatatori), è superata
dalla Guardia di Finanza di Roma che “in due sole operazioni” ha recuperato il
56 per cento dei 2,3 miliardi di crediti d’imposta illeciti recuperati finora
in Italia. Bisogna guardarsi anche dalla Guardia di Finanza?
Nell’autunno del 1978 Sciascia, avendo deciso
di fare per un breve periodo il critico teatrale per “L’Espresso”, comincia col
rivedere il teatro di Racalmuto, della sua infanzia. Racalmuto aveva un teatro,
nell’Ottocento e nel primo Novecento: “La stagione teatrale era lunga e splendida”,
con la partecipazione delle migliori compagnie, “dall’anno in cui l’architetto Dionisio
Sciascia (non parente, n.d.r.) aveva consegnato all’amministrazione comunale,
dopo cinque anni, quel piccolo capolavoro. Anno 1879”. Lo trova in rovina – “mi è parso di trovarmi
dentro una delle carceri di Piranesi”. La storia va “n’arreri” – Domenico
Tempio?
Mafiosa diventa la memoria
Il Canzoniere delle Lame, il complesso
emiliano che animava le “Feste dell’Unità”, del partito Comunista, fu mandato
nell’autunno del 1970 a Reggio Calabria per provare a rianimare gli anti-“boia-chi-molla”
della rivolta fascista. Vi composero all’impronta, come erano soliti lavorare,
canzoni di circostanza, scrivendo parole e musica in accordo con le persone che
animavano le proteste o le feste, “Alle Sbarre qui di Reggio Calabria”, “La
rabbia esplode a Reggio Calabria”. E furono mandati anche a Rosarno.
Qui, nel docufilm del Canzoniere, “Gli
anni che cantano”, l’animatrice del gruppo Janna Cairoti ha un lapsus. Lei racconta,
e il regista Vendemmiati fa vedere, di una serata in una piazza vuota. Cioè,
ricorda che, avendo deciso di non cantare, i compagni di Rosarno avevano insistito:
“Non fa niente, cantate pure, la gente vi ascolta dietro le finestre”. E Janna
commenta, ma un po’ incerta: “Avevano paura della mafia”.
È probabilmente un lapsus. Sarà stato a Reggio
che il Canzoniere avrà avuto difficoltà a farsi ascoltare, lì il seguito era
sparuto. Rosarno votava socialcomunista, con un sindaco ora socialista ora comunista. Il Canzoniere sarà stato a Rosarno, una delle
sue due o tre uscite fuori dall’Emilia, per l’insistenza dell’amministrazione, se
non per una “festa dell’Unità” paesana. Ma il nome oggi è legato alla protesta
degli immigrati dodici anni fa. E la cattiva fama legata a quell’evento
riverbera sulla memoria.
Gli immigrati protestarono a Rosarno
perché in qualche misura sindacalizzati, Rosarno avendo continuato a votare a
sinistra. Ma questo è fuori del cliché.
Pasolini non amava il Sud
Per il centenario di Pasolini anche il Sud
si mobilita, a partire da Lecce, Melpignano e Arnesano, per un ciclo di
manifestazioni itineranti dedicate a lui e alle culture vernacolari del Sud.
Musica, parole, proiezioni, “ispirate all’amore di Pasolini per il Sud”, su
proposta del Collettivo Quo Vadis? dell’associazione Patr’Act, patrimonio
attivo. Un ciclo organizzato dal comune di Melpignano e dall’associazione
Manigold. Con un progetto drammaturgico, “Volgar’Eloquio. L’amore di Pasolini
per il Sud”. In ricordo anche della sua ultima conferenza, tenuta al Liceo
Palmieri di Lecce il 21 ottobre 1975.
Ma Pasolini non amava il Sud – Pasolini non
amava, e il Sud gli era estraneo.
“Il Sud per Pasolini non fu solo un luogo
geografico ma una regione dell’anima”, nota Marino Niola presentando il
progetto. È vero, per alcune, poche, occorrenze della sua multiforme attività: Matera,
Ninetto Davoli, il ragazzo napoletano che gli sfida il borsello durante le effusioni, la “Medea”. Ma
fu – non era, fu – giusto un luogo diverso, come lo fu l’Africa, l’India. Di
curiosità.
“Il Mezzogiorno per Pasolini fu sempre l’altra
faccia della mutazione antropologica italiana”, continua Niola: “Non un luogo
in ritardo dello sviluppo, ma la testimonianza di una differenza, custodita nella
lingua e nelle tradizioni. Una sorta di antidoto contro il genocidio culturale
prodotto dalla modernizzazione che a suo avviso stava sfigurando il volto
dell’Italia. Rendendola un paese straniero a se stesso”. Non un antidoto: Sud e
Nord Pasolini accomunava nel “genocidio”.
Del Sud si occupò di passata, distrattamente.
Non solo nel viaggio in due giorni per tutta la costa italiana quanto è lunga,
ma sempre altrettanto di fretta.
Il Sud come colpa
Di Commisso, l’imprenditore americano che
ha rilevato la Fiorentina, la squadra di calcio, e la sta dotando di un “Viola Park”, centro sportivo molto
grande, da 25 ettari, e di uno stadio ammodernato, non si fa che accularlo alle
origini, a Marina di Gioiosa Jonica in Calabria. Per sottintendere, siamo
furbi, l’inevitabile legame ‘ndranghetista. Anche a costo di rovesciare il cliché
dell’emigrato, non più vittima della patria ingrata, ma, chissà, avventuriero,
intrigante, capobastone – dove c’è Calabria c’è ‘ndrangheta è assioma corrente,
anche dei giudici, calabresi.
Niente al confronto avevano fatto per la
Fiorentina in molti anni i fratelli Della Valle, gli imprenditori del lusso. Sempre
però omaggiati, non erano calabresi. Un meridionale di successo non la conta
giusta.
Geraldine Ferraro nel
1983 maturò l’idea di candidarsi alla vicepresidenza degli Stati Uniti l’anno
successivo in ticket col candidato democratico di sinistra
Walter Mondale. Subito un investigatore fu inviato dal partito Repubblicano a
Messina e sui Peloritani, per cercare tra i parenti di Geraldine un qualche
mafioso. La famiglia di Geraldine risultava originaria di Marcianise, in
provincia di Caserta, ma un suo parente prossimo, pare uno zio, forse materno,
risultava essere o essere stato nel messinese. O così si premurava di far
sapere l’investigatore subito mandato dagli Usa, anche alla “Gazzetta del Sud”,
il quotidiano locale: l’amerikano non si nascondeva, e anzi si premurò di far
sapere che era lì per quello.
Non ebbe da faticare, la
lauta parcella anzi se la guadagnò con gaudio: tutti furono felici di
raccontargli che Geraldine aveva uno zio pregiudicato. Che lei non ne sapesse
l’esistenza non voleva dire nulla. Una lezione per i Carabinieri, che sempre
lamentano l’omertà.
L’investigatore
anti-Ferraro voleva “sapere” tutto, a prescindere dal fatto che lo zio ci
fosse, o ci fosse una parentela riconosciuta. Aveva il compito d’indagare,
disse, su tutto: sulla cartella penale ma anche sulle cartelle fiscali, su
quelle mediche, se l’uomo non aveva barato con le assicurazioni o la sicurezza
sociale, se aveva pagato i contributi delle sue colf e baby-sitter, etc.
Costruiva con elementi sicuri un colpevole. Di cui gli sarebbe rimasto da
provare, se necessario, un qualche legame con la vice-presidente candidata. Ma
non fu necessario: il ticket Ferraro-Mondale si scontrò male col Reagan
bis.
Ferraro personalmente uscì
bene dalla sconfitta: la sua campagna elettorale fu apprezzata, la sconfitta fu
attribuita al freddo Mondale. Ma quando si candidò al Senato, i Repubblicani
fecero circolare voci di sue connessioni con la mafia, sull’evidenza delle sue
origini italiane, e non fu eletta.
Il corrispondente mafioso di Sciascia
In “Nero su nero”, il diario in pubblico
nei dieci anni dal 1969 al 1979, tenuto su “L’Ora”, “La Stampa”, “Corriere
della sera”, Sciascia racconta per alcune pagine una sua corrispondenza col mafioso
Giuseppe Sirchia, confinato a Linosa, a partire dal giugno 1972. Notevolissima.
Di elocuzioni perfette in lingua. Di retorica sottile. Di argomentazioni mai scontate.
“La sua prima lettera diceva: è venuto qui
a Linosa un giornalista tedesco, mi ha parlato dei suoi libri; vorrei leggerli
ma non so come fare per averli”. Sciascia glieli fa spedire. Sirchia lo
ringrazia e, scusandosi, gli pone il quesito: “Perché io sì e «loro» no?” Per loro intendendo i suoi soci in affari, non
ritenuti, chissà perché, mafiosi, perché politici o professionisti.
Le lettere s’indovinano molteplici. Di Sciascia
Sirchia apprezza la “cruda verità” sulla Sicilia, “non sempre coerente alla
vita civile e morale”. Ne riferisce anche una curiosa, ma non balzana, teoria dell’omertà: “In
Sicilia l’omertà bisogna rispettarla in qualsiasi settore, politica, polizia,
giustizia, etc.”. La sua personale condizione Sirchia assimila allo “schiavismo”: “Le
mie figliole … studiano e spero che, almeno loro, riscatteranno il marchio
dello schiavismo di cui io sono stigmatizzato”. La possibile tentazione di Sciascia
di rendere pubblica la corrispondenza vanifica in anticipo: “Ora smetto,
pregandola che le sue confidenze siano solo sue, perché voglio vivere in pace,
voglio rifarmi una vita, non potrò essere io a cambiare qualcosa. Io sono
soltanto una piccola tessera di un grande mosaico (che è la Società) e se non
voglio essere schiacciato, bisogna che mi stia incastronato nella mia casella”.
Incastronato Sciascia apprezza
più che incastonato. Ma la Società maiuscola legge, come tutti, come cupola mafiosa.
Mentre più verosimilmente è la società in senso proprio, un mammut, più cattivo
che insensibile – il mafioso è anarchico.
leuzzi@antiit.eu
Poesia confessionale
“Il delfino” è la raccolta di poesie scritte per
la moglie Caroline, la seconda moglie. Le “altre poesie” sono per Elizabeth, la
prima moglie, e per Harriet, la figlia decenne cui la quotidianeità tocca
vivere come uno spettacolo, tra un padre “genio, non savio, non brillante, strambo”,
come si dice nei suoi versi, e una madre “brillante, non savia, non stramba,
nervosa”. La storia insomma di un uomo che risposa. Un passo difficile per un
cattolico convertito, anche se già mezzo agnostico. Tra sintomi di follia che
si ripresentano ogni anno.
“La storia di un uomo che si risposa” è la diminutio
dello stesso poeta alle obiezioni dei critici, delusi che mettesse in
mostra in versi le sue minute vicende personali – alcune poesie sono brani di
lettere della moglie ripudiata. Lowell celebra “il nostro ventesimo
anniversario di matrimonio” con Elizabeth, e poi la lascia. Fatto traumatico
per un cattolico convertito, cresciuto alle lettere per una poesia
politico-religiosa. sotto l’ombrello atomico.
“Cal”, Caligola, nomignolo familiare del poeta da
bambino, aristocrazia bostoniana, ricco erede di grosse sostanze, poeta per diletto,
animatore della poesia americana di metà Novecento – “poeta laureato dell’età
dell’ansia” (Massimo Bacigalupo), degli anni della guerra fredda - è qui curato
da Rolando Anzilotti, il suo devoto interprete e apostolo in Italia. Ma con
qualche perplessità, quasi con dispetto. È una raccolta prosastica, molto
descrittiva, di cose dette e fatte. Che indispettì la critica in America.
Elizabeth, la moglie abbandonata, è Elizabeth Hardwick, nota scrittrice,
Caroline , di quindici anni più giovane di Elizabeth, era la moglie di Lucien
Freud. Indispettito, sotto traccia, è lo stesso devoto Anzilotti. Che però si diede
cura di farne un’edizione di peso per “Lo Specchio”, la grande poesia Mondadori.
È una prova singolare, che i grandi temi della
vita scioglie nella routine giornaliera. Con un verseggiare piano, ritmato ma
sintatticamente prosastico. Non una poesia d’amore – non c’è nel Novecento
poesia d’amore, non in italiano né in francese, o inglese, forse in tedesco, Rilke.
“Il quadro è troppo perfetto per le
nostre vite”, lo stesso poeta si dice per “Il nostro ventesimo anniversario”:
un materiale autobiografico fin troppo ordinario. Ma (Anzilotti) “il tono è
sincero, le immagini sono raramente scialbe, i versi hanno un tensione morbida,
asciutta, il ritmo è spontaneo e virile”.
Unico lirismo nell’ultima composizione, quella del
titolo, “Il delfino”: “Mio Delfino, solo di sorpresa tu mi guidi,\ schiavo come
Racine, l’uomo dell’arte,\ attratto nel suo dedalo di ferrea composizione\ dall’incomparabile
voce delirante di Fedra….”.
Un poeta bizzarramente uscito di catalogo,
lamentava “Poesia” quattro anni fa, che gli dedicò uno speciale per il
centenario della nascita. E fuori è rimasto. Questa raccolta recepisce e consacra
la poesia “confessionale”, di Anne Sexton, Sylvia Plath, di molta poesia
hippie, soprattutto Kerouac. Prosastica, a distanza, aneddotica, ma di svolta,
in America e fuori.
Robert Lowell, Il delfino e altre poesie
domenica 20 marzo 2022
Problemi di base bellicosi 3 - 688
spock
E dunque chi
aspira alla pace prepari la guerra?
Non c’è pace
senza guerra?
Chi non è con
me è contro di me?
Si fa la
guerra contro qualcuno o per se stessi?
Muoiano pure
gli amici purché i nemici muoiano con loro?
Non c’è verità
nella guerra?
spock@antiit.eu
Letture - 485
letterautore
Boccaccio – Non
è solo l’autore del “Decameron”, e un dotto umanista. Ha lanciato strofe e generi
letterari, in particolare il poema in ottave.
Quindi ha iniziato e “formattato” la novellistica. E ha influenzato
l’epica cavalleresca, fino all’Ariosto e al Tasso. Il filologo spagnolo Francisco
Rico, specialista di Petrarca, spiega in “Ritratti allo specchio (Boccaccio,
Petrarca)” che in Spagna è stato moto amato e imitato il suo romanzo d’amore in
prosa, “Fiammetta”.
Cadaveri – Sono stati larga parte della
letteratura erotica noir nell’Ottocento. Non in funzione del coito o
dell’orgasmo, quanto di un’eccitazione ambigua – nell’erotismo macabro
l’orgasmo ha piuttosto la funzione di far morire di voluttà. Barbey
d’Aurevilly, “Le diaboliche”, ne è stato l’autore più rappresentativo. Petrus
Borel, “Racconti immorali”, sul frontespizio allineava un teschio, una donna
coi seni nudi indifesi, le braccia legate dietro la schiena, una ghigliottina,
e altri utensili macabri, con la qualifica di “licantropo”. Théophile Gautier ha
il morto vivente in forma di vampiressa. Camillo Boito, “Un corpo”, fa giurare
a un giovane medico viennese, folgorato da una dama intravista al caffè, che
presto giacerà sulla sua talvolta anatomica, per mostrare i segreti della sua
bellezza.
Fellini –
Celebrato senza riserve retrospettivamente, ebbe in vita successo di pubblico
ma non di critica, non in Italia – fu “riconosciuto” e consacrato in Francia
(“La dolce vita” a opera di Simenon, presidente della giuria a Cannes) e in America
con gli Oscar. In Italia era sospetto, a
sinistra come cattolico, e inviso naturalmente ai cattolici, sessuofobi.
“La Dolce vita” l’“Osservatore Romano” ribattezzò “La sconcia vita”. Franco
Fortini sull’“Avanti!” disse il film di “ripugnante cattolicesimo di fondo”.
Luigi Russo su “Belfagor” di “un cattolicesimo putrefatto e massoneggiante”.
Sul “Corriere della sera” Arturo Lanocita bocciava “i dialoghi mediocri, gli
interpreti che tradiscono dilettantismo”. Mario Gromo sulla “Stampa” spiegava
che “la materia non vibra”. Su “l’Unità” Mario Alicata si limitava a invitare
Fellini: “Venga on noi”. Il successivo “8 e mezzo” Buzzati sul “Corriere della sera”
disse “la masturbazione di un genio”. Su “La Stampa” Guido Aristarco ci vedeva
“l’inconsistenza della visione felliniana”. Su “Paese sera” Flora Volpini lo
liquidava, di “una noia spaventosa”. Morando Morandini su “Le Ore” si chiedeva
se era “opera d’arte o esercizio di stile”. Filippo Sacchi su “Epoca” dichiarava di non essere
“riuscito a capire il capolavoro”. Per “Prova d’orchestra” Fofi su “Ombre
Rosse” non aveva dubbi: “L’aspetto più costernante del film è la sua
sciocchezza”.
Fondazione Feltrinelli – È stata l’idea
di un prete. Lo spiega Carlo Feltrinelli a Cazzulllo sul “Corriere della sera”,
8 marzo: Togliattti propone a Feltrinelli la creazione di una biblioteca delle
lotte operaie in ogni parte del mondo, e gli dice “che l’idea veniva da un prete.
La Fondazione Feltrinelli nacque così”.
Gadda - “Me
lo ricordo come una comica”, il suo vecchio editore Livio Garzanti,
intervistato per i suoi novant’anni da Nello Ajello su “la Repubblica” il 15
aprile 2011: “Grande, strano, ossequioso”. Gli scriveva lettere come a persona
di grande autorità, o a un padre: “Gadda mi professava una deferenza ridicola. Era
un grade nevrotico. Non aveva mai dato un bacio a una donna. Mi mostrava – io all’epoca ero un giovanotto
di trent’anni o giù di lì – l’adorazione che si può provare per uno zio, un
principe del sanghe o per Gheddafi”.
Gattopardo – “Rifiutato da
tutti gli editori. Fu Elena Croce, la figlia di don Benedetto, a segnalarlo a
Bassani, dicendo che era opera di «una signorina aristocratica siciliana… » -
Carlo Feltrinelli a Cazzullo, sul “Corriere della sera”.
Intellettuale\sessuale – “Il meditare da solo è onanismo – il pensare con
altri (conversare) è coito”, Carlo Dossi, “Note azzurre” 1589
Latino - Ce n’è di ottimo, notava Luciano
Canfora commentando l’addio al papato dei Benedetto XVI (“Un esempio di latino
moderno”), “una specie di mosaico che abbraccia due millenni di latinità, dal
ciceroniano «ingravescente aetate» al «portare pondus» che ricorre in Flavio
Vegezio”. Con “un disinvolto «ultimis
mensis» che figura in scritti ottocenteschi (addirittura del calvinista
Bachofen)”. È “prelievi dal dotto e audace Rufino traduttore di Origene, nell’espressione
«incapacitatem meam»”. Mentre altre “solide attestazioni di epoca classica, da
Quintiliano a Plinio, sorreggono la frase più importante di tutto il testo e
cioè: «Declaro me ministerio renuntiare»”. Ma “nella frase cruciale” viene
“inferta una ferita alla sintassi altina, visto che al dativo ministerio
viene collegato l’intollerabile accusativo commissum («incombenza
affidatami»). Mentre doveva esserci, “per necessaria concordanza, il
dativo commisso”. Come “addirittura nella frase di apertura”, dove il
Pontefice annuncia di “«comunicare una decisione di grande momento per la vita
della chiesa», ma si legge pro ecclesiae vitae laddove avremmo
desiderato pro ecclesiae vita”.
Succede, conclude Canfora, il latino condensa
molte novità successive. Per scurare il pontefice, ricorda di passaggio “i rari
ma disturbanti errori di latino che macchiavano le «Quaestiones callimacheae»
di un grande filologo come Giorgio Pasquali, rettificate nella ristampa
realizzata poi dal bravissimo Giovanni Pascucci, grammatico fiorentino”.
Manzoni - Un
personaggio molto solido malgrado le fobie, un believer: Umberto Eco
tutto sommato lo assolve, nella plaquette “Tra menzogna e ironia”. Nella
quale Manzoni figura per un saggio intitolato “Linguaggio mendace di Manzoni”.
Dell’autore dei “Promessi sposi”, che non ama ma
teme, Eco traccia i vari linguaggi nel romanzo: erudito, convenzionale,
“popolare”, figurato, ironico, etc.. Facendone un giocatore linguistico – un
organista abilissimo ai vari registri, si direbbe, il Bach del romanzo – più
che un ideologo e un uomo di fede. Ma tale, tanto immerso è in questo gioco, da
rendere i suoi giochi linguistici irrilevanti, “prova ne è che tanti lettori
hanno capito il romanzo saltando, per giustificata pigrizia, tutti gli esempi
di discorsi inconcludenti”.
Petrarca – Riconosceva la grandezza di Dante,
della “Divina Commedia”, a malincuore, “con una certa considerazione” ma “con reticenze
e ambiguità”. Il suo studioso spagnolo, Francisco Rico, “Ritratti allo
specchio”, lo fa emergere di carattere difficile. Il conterraneo e quasi coetaneo
Boccaccio considerava “a volte come un servitore e a volte come un fratello”. Ma “un fratello minore che s’istruisce e
incoraggia ma il cui talento non si apprezza”. Avvantaggiato peraltro, spiega,
dalla devozione di Boccaccio, invece indefettibile.
Riflusso – “Un orologio che va male non
segna mai l’ora giusta; un orologio fermo la dà esatta due volte al giorno. Si
può spiegare così il riflusso verso la moderazione, la conservazione e la
reazione dell’elettorato di sinistra in Europa” – Leonardo Sciascia, “Nero su
nero”, 247.
letterautore@antiit.eu
Chi era Pasolini 13
“L’estate del 1943 era bellissima e la
guerra aveva reso Casarsa un luogo ancora più desiderabile”. Pasolini, 21 anni,
e Naldini, 14, trovavano compagnia in abbondanza per giochi erotici.
Pasolini di preferenza con un Bruno, “ragazzotto né bello né dolce, ma plebeo,
violento e sgarbato che coronò in modo sbrigativo e brutale il sogno così a lungo
cullato da Pier Paolo”, Naldini con un Attilio.
I racconti di Nico Naldini, “Come ci si
difende dai ricordi”, una successione di ordinari dragaggi, dell’uno e
dell’altro, che non lascia mai traccia, se non dell’inappagamento, rappresentano e spiegano il tema della colpa, che sarà centrale in Pasolini: la sessualità non
sarà mai diletto e gioco, come a volte si diceva, ma tormento. Perfino nella forma della gelosia, cupa e violenta, in almeno un caso (Ninetto Davoli adolescente, una storia che la riedizione delle lettere denuncia con la censura...).
Saranno storie di ragazzi più che di
amori. Di cacce di ragazzi. Anche rischiose legalmente. Ma più indispettite che lussuriose. Già nei primi
anni, a Casarsa e Versuta, gli anni della guerra, anzi quelli più brutti, 1943
e 1944, dei bombardamenti, dell’occupazione, della resistenza o guerra civile. La guerra non c’è, se non per il bello del biondo teutonico, e per i
lampioni abbuiati, che lasciano spazio per “gli insaziabili abbracci” nel “buio
più fitto”. Naldini lo sa, che si giustifica: “Non sapevamo quasi nulla della
guerra”. Nell’inappagamento, la vera condanna, la vera colpa. Della “libidine
compulsiva soprannumeraria”, la dice Naldini, incontenibile e insoddisfatta.
Nel caso di Pasolini nevrotica, sempre “per bene” e sempre in “situazioni
allarmanti”.
Compresa, si direbbe, la religiosità. Non
praticata ma vissuta. Specie nelle idolatriche - decadenti, affettate – rappresentazioni
del sacro, mitico oppure cristiano, a partire dalla figura del Cristo, seppure
femminilizzata. Pasolini è l’unico autore religioso del secondo Novecento, ne
“L’usignuolo”, “In forma di rosa”, e altrove, anzi di tutto il secolo. Voleva
fare San Paolo, dopo aver fatto il Vangelo. Non il prete, chiesastico: un
rivoluzionario, seppure con la parola. Ma anche questo non del tutto: si
riporta il papa Bergoglio a Giovanni XXIII, ma si potrebbe meglio riportarlo a
Pasolini, strada, borgate e omosessualità comprese.
Pasolini fu e rimane solo. Non un
amico, uno della squadra di pallone, un compagno di viaggio, anche occasionale,
purché non di marchette, non un discepolo. Benché socievole, di tutti i
convegni, le manifestazioni, le iniziative, le tavolate, quasi un
presenzialista. Non per carattere: non era solitario in gioventù, prima di
Roma, fino quindi ai 28 anni. Isolato anche dopo morto: senza ora, pur nelle
celebrazioni, un interprete, un “sistematore”, l’esegeta folgorante che pure
meriterebbe, se non altro per la molteplicità delle espressioni: poeta, narratore,
regista, drammaturgo, critico letterario, linguista, moralista, giornalista,
pittore - “L’affollata solitudine di Pasolini” è il titolo centrato con cui il
“Corriere della sera” presentava il 26 ottobre 2015, per i quarant’anni dalla
morte, la testimonianza di De Ceccaty, uno dei suoi prefatori: “Non so se fosse solo. Aveva probabilmente il
sentimento della solitudine ma c’erano tanti amici attorno a lui. Il sentimento
di solitudine per un creatore, per un genio come lui, è molto relativo.
Pasolini, anche se si identificava molto con Rimbaud, non era Rimbaud. Era
infatti molto più coinvolto nella vita sociale, era un poeta civile, non era un
poeta isolato”. Ma lo era, da poeta civile. Della sterilità dell’impegno si potrebbero
fare libri.
Pasolini sbaglia che lamenta, nella
“Supplica a mia madre”: “Non voglio esser solo. Ho un’infinita fame\ d’amore,
dell’amore di corpi senza anima” - può finire male. Pasolini si lamenta vittima dell’iterazione, della compulsione a
rifarlo, con chiunque, ovunque, vittima della sua diversità, da intendere
l’omofilia, e non sa di dare ragione agli omofobi, che l’omosessuale è senza
cuore, mentre è probabile che subisse l’incontinenza dei cinquanta, dell’età
che fugge. È impossibile amare i moralisti.
Perché questa cosa è importante? Perché Pasolini ne è
morto, già prima di finire a Ostia. Nel tradimento,
continuato, di Susanna, la madre vezzosa sempre a tiro, sui tacchi nel fango di Versuta, sposa pur
sempre di un Carlo Pasolini dell’Onda, padre amorevole, sebbene reduce di
guerra trascurato, rifiutato, amareggiato. La madre
dolce che cancella il marito, il tremulo nibbio di Leonardo e Freud - lo è nei
geroglifici in Egitto. Nella leggenda cristiana il nibbio è solo femmina,
fecondata dal vento, novella Vergine. Se l’omosessualità, forzatamente senza
figli, è narcisista, la moltiplicazione delle marchette diventa un martello
pneumatico contro se stessi, una forma di autocrocefissione, la morte oscena.
Non si sa di un erotismo goduto
infernalmente, neppure in Sade. Non nell’esercizio esasperato
dell’omosessualità, la retorica del genere è mite. Pasolini voleva essere il
Poeta della Vita, di ciò che è. E la realtà, essendo beffarda, gli ha
restituito odio e umiliazione. E disattenzione, nella baldoria.
(fine)
Flaubert narratore imberbe
Due racconti di Flaubert a quattordici anni,
quello del titolo, “I girovaghi”, un racconto lungo, e “La nobildonna e il suonatore
di gironda o La madre e il feretro”, titolo e soggetto impegnativi ma di un
racconto breve, abbozzato. Due racconti che Flaubert non pubblicherà e non
riscriverà, e tuttavia di buona lettura – da antologia, nella media di oggi.
La “Nobildonna” è un racconto di amore e morte
attorno a un incesto. Su un doppio rovescio di fortuna, economico e morale.
Causato da un ignaro menestrello. Derivato, questo, forse dalla saga di
“Tristano”, lettura di Flaubert da piccolo. L’insieme del racconto – contemporaneamente
abbozzato da Flaubert come scenario teatrale, ma il tema non sarà da lui mai
più ripreso – è modellato sullo specialista best-seller di “amori e morte” di
quegli anni 1830, Petrus Borel.
Il racconto del titolo è dei saltimbanchi e gli
artisti di strada, tema che poi diventerà “flaubertiano”. Tra sublime e
grottesco, ma anticipatamente verista. Perfino eccessivo: né Zola né Verga, né
il neo neorealismo avrebbe saputo concentrare in così poche pagine tante
disgrazie: fame, freddo, incidenti sul lavoro, malattie, disperazione,
violenza. Ma il Flaubert imberbe, di più, già “sa” cosa e come scrivere, e
perché, nelle note che antepone e pospone al racconto dei poveri circensi
girovaghi: lo svelamento gli si impone delle verità dell’amore, “scienza così
bene esposta in «Faublas», le commedie di second’ordine e i «Contes moraux» di
Marmontel”.
Chiara Pasetti, che cura la traduzione, fornisce un’ampia
presentazione, in particolare sulla “malattia nervosa” che proprio a partire da
quegli anni ha poi afflitto Flaubert.
Gustave Flaubert, Due racconti giovanili,
Aragno, pp. 126 € 15
Un parfum à sentir ou Les Baladins, Folio, pp. 113 € 2
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