Giuseppe Leuzzi
Siamo
ladri di sguardi, di occhiate assassine. E quanti cuori dunque spezzati, senza
saperlo. Si vive dentro.
Siamo
stati in prima fila con e contro Garibaldi. Senza demerito suo. Ma sapevamo di
che si trattava?
La
corsa al Sud degli errori giudiziari
Se fosse una corsa al merito, il Sud ne
vincerebbe una: quella degli errori giudiziari. L’ingiusta detenzione, sette
casi su dieci, quale è testimoniata dagli indennizzi pubblici, è meridionale.
La città con il maggior numero di indennizzi dello Stato per errori giudiziari
è stata nel 2020 Napoli, con 101 casi. Seguita da Reggio Calabria, 90 casi, Bari,
68, e Catanzaro, 66.
La graduatoria di dove lo Stato ha speso
di più, presumibilmente per detenzioni più lunghe, vede anch’essa ai primo posto
il Sud: Reggio Calabria con circa 8 milioni di euro, Catanzaro, oltre 4,5
milioni, Palermo, 4,3 milioni.
È l’effetto probabilmente di una
situazione degli uffici giudiziari, Procure e Tribinali, poco organizzata, o
comunque non di buon livello. Ma anche di una sorta di abdicazione della
giudicatura di fronte all’accusa: l’accusato al Sud è colpevole, gip e
tribunali si adeguano.
Mediamente lo Stato spende ogni anno 27
milioni per risarcimenti da errore giudiziario – ha speso poco meo di un
miliardo nei trenta anni di vigenza della legge. Per circa un migliaio di casi
in media ogni anno - più di 30 mila nei trent’anni. Nel 2021, causa covid?, c’è
stato un dimezzamento degli errori giudiziari, 565 in tutto.
Le statistiche non dicono qual è la
parte degli errori giudiziari nell’insieme delle sentenze. L’inncidenza degli
errori giudiziari sul totale dei casi è comunque ritenuta in Italia elevata. Anche
se la valutazione di professionalità positiva dei giudici italiani è quasi
totalitaria, il 99,2 per cento.
Il
Terzo mondo distrugge
Nell’immagine riduttiva che a lungo,
aggressivo, Pasolini andò costruendo dell’Italia naturalmente c’è il Terzo
mondo. Ma di un tipo particolare: è la Calabria che per l’Italia fa la parte
del Terzo mondo.
In questi termini Pasolini delinea la cosa
nell’intervista scritta, elaborata, con Ferdinando Camon nel 1968 o 1969 (Camon
la pubblicò in “La moglie del tiranno”, 1969, poi includendola in “Il mestiere
di scrittore”): “L’Italia è un paese da laboratorio perché in essa coesistono
il mondo moderno industriale e il Terzo mondo. Non c’è differenza fra un villaggio
calabrese e un villaggio indiano o marocchino, si tratta di due varianti di un
fatto che al fondo è lo stesso”.
Una semplificazione. Tanto più
provocatoria (ammesso che la Calabria per Pasolini, o per Camon, fosse una cosa
reale, un paragone forte) in uno scrittore fissato sulla tradizione, ossessionato
dall’abbandono della tradizione. Il villagio calabrese è o era un mondo a parte
da quello indiano, e i due erano ben diversi da quello marocchino – non c’era
bisogno di viaggiare molto per saperlo. Ma Pasolini conclude con una citazione
vera: “In Italia abbiamo visto che il contadino calabrese il suo mondo lo
perde, non lo conserva e non ne ricava qualcosa da suggerire”. Lo vuole
perdere, non lo tralascia: lo distrugge, si accanisce.
Pasolini
passò da qui
Nel centesimo anniversario della nascita
di Pier Paolo Pasolini, nella Biblioteca comunale di Reggio Calabria, il Centro
Internazionale Scrittori della Calabria, col patrocinio del Comune di Reggio,
promuove la conferenza “Pasolini e la Calabria”. Relatrice Paola Radici Colace,
ordinario di Filologia Classica a Messina. Che non sa che dire, se non che
Pasolini dev’essere passato da qui nell’estate del1959, quando fece il giro pazzesco
in Millecento di quattro-cinquemila km di coste italiane, da Venitimiglia a
Siracusa, e ritorno via Taranto fino a Trieste. Della Calabria scrivendo poco,
si dice al convegno, se non il vituperio di Cirò e Cutro come “terra di
banditi”. Il Comune di Cutro ssendosi querelato, Pasolini poi tornò qualche anno
dopo per rappacificarsi. Ma sempre dell’idea di una terra senza legge, “anarchica”,
incapace, “infantile”, e all’età della pietra, “prima della storia”.
In Sicilia no, ma da Napoli a Bari e a
Reggio Calabria è stata ed è una corsa a celebrare Pasolini. Non per quello che
ha scritto o detto o fatto, ma per qualle volta che Pasolini passò da qui – ha
fatto un convegno celebrativo anche Cutro. In un certo senso dando ragione a
Pasolini. Che della Calabria non si poccupò mai, malgrado i tanti punti di congtatto:
il premio Crotone per “Una vita violenta” nel 1959 (di risarcimento per il
mancato premio Strega, andato al “Gattopardo”), alcune location del “Vangelo” e dei “Comizi d’amore”, il rapporto ventennale,
intensissimo, di amore pedofilo (in senso classico) con Ninetto Davoli, di San
Pietro a Maida – che, Pasolini non lo sa, lo innamorava per i modi delle
origini calabresi, di linguaggio (spontaneità, meraviglia), fiducia, rispetto -
oltre che di carattere, l’allegria.
Nel famoso viaggio Pasolini saltò la
Calabria. All’andata scrisse fino a Maratea, e poi di Siracusa. Al ritorno, le poche note su Cutro non si saprebbero dire
ingiustificate: la 106 da Reggio a Taranto era - è - un’allucinazione, non finisce
mai.
Milano
Ha smesso il birignao per il sopracciò –
da vecchio maestro di scuola, da questurino. Sempre sa essere solo sopra le
righe. Ne ha bisogno?
La città non ha fiatato curiosamente,
moralista e tutto, quando i milanesi del week-nd hanno sequestrato il vagone
prenotato dai disabili per il ritorno a Pasquetta dalla Riviera. Non è più
ipocrita – l’ipocrisia è uno spreco?
Non si è data - altra curiosità - la
caccia agli occupatori dei posti prenotati, il solito birignao del
pettegolezzo. Né si è aperta un’inchiesta di polizia o giudiziaria. Neanche una
amministrativa - come mai le Ferrovie vendono dei posti che poi non
garantiscono. Non è omertà, perché non siamo
al Sud - i Carabinieri, si attengono ai regolamenti. È una maniera di
essere.
Cuccia, minacciato a suo dire
ripetutamente per alcuni anni nella persona e negli affetti da Sindona, non lo
denuncia. È finito bene e quindi ha fatto beene, si è protetto da sé. Ma al Sud
darebbe stato colpevole di associazione mafiosa.
“Ed a Milano, dove non si sogna\ d’arte
felicemente, me pensare\ potevo già fra le spente persone”: Umberto Saba, pure
tanto mite, così ricorda la città, in “Autobiografia”, come un cimitero.
Pasolini la vuole (in un’intervista
collettiva su un periodico torniese del 1961, “Sirena”) corrotta. Per uno
speciale ragionamento. Roma s’arrangia, “non è mai stata moralmente e
civicamente pura, quindi non è corrotta”, Milano al contario è “una città
moralistica, con aspetti puritani. Chi cede sa di cedere e quindi pecca”. I Milanesi
“tendono a esere biblici, catastrofici a fare la tragedia dal nulla”, ecetera.
Per conludere: “Dato che sono anch’io, in fondo, come i milanesi”, cioè un
moralista, “vivo meglio a Roma”.
Tanti scrittori lombardi, anche
scapigliati, hanno preferito vivere a Roma, benché l’editoria sia milanese,
Gadda e Arbasino per esempio - e in fondo Carlo Dossi, che “visse”solo a Roma,
benché da burocrate. Senza essere moralisti – per non esere moralisti, quelli dei gaddiani “accoppiamenti
giudiziosi”?
Suscitava i furori di Gadda più di
Mussolini, che pure l’aveva impoverito, con la rendita finita carta straccia
in guerra. Contro la “sacra e
buseccherita città della saggezza moraleggiante” era costantemente furibondo –
“Vorrei essere il Robespierre della borghesia milanese ma non ne vale la pena”.
leuzzi@antiit.eu