sabato 23 aprile 2022

A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (489)

Giuseppe Leuzzi


Siamo ladri di sguardi, di occhiate assassine. E quanti cuori dunque spezzati, senza saperlo. Si vive dentro.
 
Siamo stati in prima fila con e contro Garibaldi. Senza demerito suo. Ma sapevamo di che si trattava?
 
La corsa al Sud degli errori giudiziari
Se fosse una corsa al merito, il Sud ne vincerebbe una: quella degli errori giudiziari. L’ingiusta detenzione, sette casi su dieci, quale è testimoniata dagli indennizzi pubblici, è meridionale. La città con il maggior numero di indennizzi dello Stato per errori giudiziari è stata nel 2020 Napoli, con 101 casi. Seguita da Reggio Calabria, 90 casi, Bari, 68, e Catanzaro, 66.
La graduatoria di dove lo Stato ha speso di più, presumibilmente per detenzioni più lunghe, vede anch’essa ai primo posto il Sud: Reggio Calabria con circa 8 milioni di euro, Catanzaro, oltre 4,5 milioni, Palermo, 4,3 milioni.
È l’effetto probabilmente di una situazione degli uffici giudiziari, Procure e Tribinali, poco organizzata, o comunque non di buon livello. Ma anche di una sorta di abdicazione della giudicatura di fronte all’accusa: l’accusato al Sud è colpevole, gip e tribunali si adeguano. 
Mediamente lo Stato spende ogni anno 27 milioni per risarcimenti da errore giudiziario – ha speso poco meo di un miliardo nei trenta anni di vigenza della legge. Per circa un migliaio di casi in media ogni anno - più di 30 mila nei trent’anni. Nel 2021, causa covid?, c’è stato un dimezzamento degli errori giudiziari, 565 in tutto.
Le statistiche non dicono qual è la parte degli errori giudiziari nell’insieme delle sentenze. L’inncidenza degli errori giudiziari sul totale dei casi è comunque ritenuta in Italia elevata. Anche se la valutazione di professionalità positiva dei giudici italiani è quasi totalitaria, il 99,2 per cento.
 
Il Terzo mondo distrugge
Nell’immagine riduttiva che a lungo, aggressivo, Pasolini andò costruendo dell’Italia naturalmente c’è il Terzo mondo. Ma di un tipo particolare: è la Calabria che per l’Italia fa la parte del Terzo mondo.
In questi termini Pasolini delinea la cosa nell’intervista scritta, elaborata, con Ferdinando Camon nel 1968 o 1969 (Camon la pubblicò in “La moglie del tiranno”, 1969, poi includendola in “Il mestiere di scrittore”): “L’Italia è un paese da laboratorio perché in essa coesistono il mondo moderno industriale e il Terzo mondo. Non c’è differenza fra un villaggio calabrese e un villaggio indiano o marocchino, si tratta di due varianti di un fatto che al fondo è lo stesso”.
Una semplificazione. Tanto più provocatoria (ammesso che la Calabria per Pasolini, o per Camon, fosse una cosa reale, un paragone forte) in uno scrittore fissato sulla tradizione, ossessionato dall’abbandono della tradizione. Il villagio calabrese è o era un mondo a parte da quello indiano, e i due erano ben diversi da quello marocchino – non c’era bisogno di viaggiare molto per saperlo. Ma Pasolini conclude con una citazione vera: “In Italia abbiamo visto che il contadino calabrese il suo mondo lo perde, non lo conserva e non ne ricava qualcosa da suggerire”. Lo vuole perdere, non lo tralascia: lo distrugge, si accanisce.
 
Pasolini passò da qui
Nel centesimo anniversario della nascita di Pier Paolo Pasolini, nella Biblioteca comunale di Reggio Calabria, il Centro Internazionale Scrittori della Calabria, col patrocinio del Comune di Reggio, promuove la conferenza “Pasolini e la Calabria”. Relatrice Paola Radici Colace, ordinario di Filologia Classica a Messina. Che non sa che dire, se non che Pasolini dev’essere passato da qui nell’estate del1959, quando fece il giro pazzesco in Millecento di quattro-cinquemila km di coste italiane, da Venitimiglia a Siracusa, e ritorno via Taranto fino a Trieste. Della Calabria scrivendo poco, si dice al convegno, se non il vituperio di Cirò e Cutro come “terra di banditi”. Il Comune di Cutro ssendosi querelato, Pasolini poi tornò qualche anno dopo per rappacificarsi. Ma sempre dell’idea di una terra senza legge, “anarchica”, incapace, “infantile”, e all’età della pietra, “prima della storia”.
In Sicilia no, ma da Napoli a Bari e a Reggio Calabria è stata ed è una corsa a celebrare Pasolini. Non per quello che ha scritto o detto o fatto, ma per qualle volta che Pasolini passò da qui – ha fatto un convegno celebrativo anche Cutro. In un certo senso dando ragione a Pasolini. Che della Calabria non si poccupò mai, malgrado i tanti punti di congtatto: il premio Crotone per “Una vita violenta” nel 1959 (di risarcimento per il mancato premio Strega, andato al “Gattopardo”), alcune location del “Vangelo” e dei “Comizi d’amore”, il rapporto ventennale, intensissimo, di amore pedofilo (in senso classico) con Ninetto Davoli, di San Pietro a Maida – che, Pasolini non lo sa, lo innamorava per i modi delle origini calabresi, di linguaggio (spontaneità, meraviglia), fiducia, rispetto - oltre che di carattere, l’allegria.
Nel famoso viaggio Pasolini saltò la Calabria. All’andata scrisse fino a Maratea, e poi di Siracusa. Al ritorno,  le poche note su Cutro non si saprebbero dire ingiustificate: la 106 da Reggio a Taranto era - è - un’allucinazione, non finisce mai.  
 
Milano
Ha smesso il birignao per il sopracciò – da vecchio maestro di scuola, da questurino. Sempre sa essere solo sopra le righe. Ne ha bisogno?
 
La città non ha fiatato curiosamente, moralista e tutto, quando i milanesi del week-nd hanno sequestrato il vagone prenotato dai disabili per il ritorno a Pasquetta dalla Riviera. Non è più ipocrita – l’ipocrisia è uno spreco?
 
Non si è data - altra curiosità - la caccia agli occupatori dei posti prenotati, il solito birignao del pettegolezzo. Né si è aperta un’inchiesta di polizia o giudiziaria. Neanche una amministrativa - come mai le Ferrovie vendono dei posti che poi non garantiscono. Non è omertà, perché non siamo  al Sud - i Carabinieri, si attengono ai regolamenti. È una maniera di essere. 
 
Cuccia, minacciato a suo dire ripetutamente per alcuni anni nella persona e negli affetti da Sindona, non lo denuncia. È finito bene e quindi ha fatto beene, si è protetto da sé. Ma al Sud darebbe stato colpevole di associazione mafiosa.
 
“Ed a Milano, dove non si sogna\ d’arte felicemente, me pensare\ potevo già fra le spente persone”: Umberto Saba, pure tanto mite, così ricorda la città, in “Autobiografia”, come un cimitero.
 
Pasolini la vuole (in un’intervista collettiva su un periodico torniese del 1961, “Sirena”) corrotta. Per uno speciale ragionamento. Roma s’arrangia, “non è mai stata moralmente e civicamente pura, quindi non è corrotta”, Milano al contario è “una città moralistica, con aspetti puritani. Chi cede sa di cedere e quindi pecca”. I Milanesi “tendono a esere biblici, catastrofici a fare la tragedia dal nulla”, ecetera. Per conludere: “Dato che sono anch’io, in fondo, come i milanesi”, cioè un moralista, “vivo meglio a Roma”.
 
Tanti scrittori lombardi, anche scapigliati, hanno preferito vivere a Roma, benché l’editoria sia milanese, Gadda e Arbasino per esempio - e in fondo Carlo Dossi, che “visse”solo a Roma, benché da burocrate. Senza essere moralisti – per non esere moralisti, quelli dei gaddiani “accoppiamenti giudiziosi”?
 
Suscitava i furori di Gadda più di Mussolini, che pure l’aveva impoverito, con la rendita finita carta straccia in  guerra. Contro la “sacra e buseccherita città della saggezza moraleggiante” era costantemente furibondo – “Vorrei essere il Robespierre della borghesia milanese ma non ne vale la pena”.

leuzzi@antiit.eu

Alle origini dell'acedia

Il drogato non può toccare la vita, e allora tenta la morte. Una lunga introduzione a una lunga giornata di un Bloom parigino e drogato. Di delusione rabbiosa, nella memorialistica. La vita del drogato è “ordinata, casalinga, pantofolaia” - “i drogati sono i mistici di un’epoca materialista”.
Un racconto che anticipa la letteratura dell’acedia, dalle mattinate tristi di Hemingway, di cui Drieu presentava contemporaneamente, bizzarra coincidenza, la traduzione di “Addio alle armi”, a Françoise Sagan. Il protagonista, mezzo scrittore fallito mezzo gigolò, in cerca di americane ricche da sposare, tenta di rinunciare all’eroina. Senza convinzione, non finirà bene. Come poi nella vita dell’autore: è un Alain molto selfie, che ha le stesse ossessioni conosciute dello scrittore, la diffidenza verso le donne, qui raccontate peraltro con vivacità, la crisi delle ideologie, la società vuota.
Pubblicato nel 1931, tra la rottura con Breton e Aragon, col comunismo, e la militanza di destra estrema. Ideologo da ultimo di un’E uropa aristocratica e socialista, Drieu La Rochelle sarà lo scrittore del movimento fascista in Francia, del Partito Popolare Francese di Doriot, e uno dei più stretti collaboratori dei tedeschi durante l’Occupazione. Farà in tempo a pentirsene, raccontando nel 1943, “I cani di paglia”, le illusioni perdute nel fascismo, finirà latitante alla Liberazione, rotetto anche da Malraux, e presto suicida, il giorno in cui sa che c’è un mandato di arresto per collaborazionismo.
Un racconto che si vuole innescato da un fatto vero, il suicidio di Jacques Rigaut, poeta, compagno in surrealismo, amico personale di Drieu. Ma un finale già scritto nel racconto breve “Addio a Gonzague” che solitamente si allega. Un addio al femminile, detto da una donna, nel quale ricorre anche il fuoco fatuo del titolo del racconto lungo. Gonzague è il credente, poi sartriano, del “grande niente”.
Un racconto epigono immediato di molte novità letterarie: il romanzo di una giornata, alla Bloom, e l’autoanalisi della “Ricerca”. Ma prodromo di molte novità, nei tempi, nelle materie, nei titoli. Un altro viaggio al termine della notte, il primo (1931), solitario e non corale, autodistruttivo più che distruttivo.
Pierre Drieu La Rochelle, Fuoco fatuo, seguito da Addio a Gonzague, SE, pp. 125 € 18
Passigli, pp. 125 € 14

venerdì 22 aprile 2022

Inflazione 2 - c'è la guerra

Niente manca, e gli aumenti tarrifari attesi, per la guerra in Centro Europa, non si sono ancora materializzati, ma sono da tempo ormai presentati e fatti scontare ai consumatori. Dall’impennata fantastilionaria di mezzo euro al litro di benzina due mesi fa, agli aumenti generalizzati, su tutti i prodotti, energetici come alimentari, e sui beni strumentali, la guerra viene fatta pesare con un aumento esorbitante di prezzi e tariffe. Si dice che l’economia sconta (si paga in  anticipo, cioè), future ristrettezze, ma la verità di fatto è che la speculazione anticipa i rincari, e li rende irreversibili. Senza una ragione economica, se non il guadagno degli intermediari.
Costano subito il triplo concimi e antiparassitari in agricoltura, di cui poco o niente viene fornito dai paesi in guerra. Si diradano o si interrompono produzione di beni strumentali, per esempio di contenitori in vetro, per “mancanza di materia prima” – che per il vetro è il volgare silicio, sabbia. La prospettiva per l’Europa è che, continuando la guerra, il suo sistema dei prezzi sia effettivamente esposto a situazioni di carenza o di rincari, anche perché l’Europa è impegnata in una serie di sanzioni che, a differenza per esempio degli Stati Uniti, colpiscono la sua propria attività produttiva. Il mercato opera come se quella prospettiva fosse già in atto.

                     


Inflazione 1 – senza politica monetaria

Che fine hanno fatto le banche centrali? È la domanda in America per l’inattività della Federal Reserve, malgrado l’inflazione sia già al 10 per cento, e in progressione mese dopo mese. La risposta è che, la Federal Reserve essendo di nomina presidenziale, non voglia   “disturbare il manovratore”, contrastare la politica keynesiana di Biden, che punta a incrementare produzione, produttività  (infrastrutture) e occupazione. Ma singolarmente inattiva è anche la Banca centrale europea, che pure è organo tecnico: l’inflazione in Europa non è al livello americano, ma s’incrementa da ultimo di pari passo – e l’aspettativa è quasi certa che si dilaterà per effetto della guerra della Russia all’Ucraina, e delle sanzioni europee, con conseguente rincaro delle materie prime alimentari e energetiche per il mercato europeo ben più che per quello americano.
La banche centrali sono evolute, dopo la crisi bancaria del 2007, a meri sensori del sistema del credito? O si sono acconciate anch’esse al ruolo di facilitatori della crescita continua, il dogma della globalizzazione. Per cui tutti gli indici, di Borsa, delle materie prime, e dell’inflazione, non sono più regolati, ma invece alimentati?
L’inflazione come crescita continua sarebbe una ricetta che è una malattia?

Il giallo va meglio veloce

Il thriller forse più famoso di G. Greene. Dapprima film di successo, costruito con l’amico produttore e regista Carol Reed, con una grande produzione (Orson Welles, Alida Valli, Joseph Cotten), con la quale vinse il terzo festival di Cannes, nel 1949. Riscritto l’anno dopo per i fasti letterari – con dedica a Reed. Su un plot effettivamente sorprendente. Che comincia con un appuntamento mancato a Venna, città aperta nel dopoguerra per gli spioni di mezzo mondo, perché l’amico da incontrare è morto. Forse. Ma un divertissement di cui più degli altri (Greene divideva le sue opere tra serie e divertimenti) l’autore si vergognerebbe a rileggersi. Tanto è tirato via, come un copione per un film d’azione. O il segreto del giallo, del racconto “girapagina”, èla sciatteria. 

Graham Greene, Il terzo uomo, Sellerio, pp- 216 € 14

giovedì 21 aprile 2022

Problemi di base temporali - 694

spock


Non c’è mai tempo, per che cosa?
 
Andiamo per i novanta, e forse per i cento, un peso insostenibile per il sistema delle pensioni, e  di quanto altro tempo avremo bisogno?
 
Si consuma il tempo come l’aria, senza saperlo, invece che come un bigné?
 
 Si nasce con un capitale di tempo, o lo si acquista vivendo?
 
Si mangia il tempo, si consuma al respiro, o si viene da esso consumati?
 
Andiamo incontro al tempo, o lo andiamo perdendo?


spock@antiit.eu

L'islam si vuole triste

Dopo vent’anni, rinnovandosi i riti talebani, le rondini che chiudevano in primavera questo tetro racconto non c’è più speranza che si materializzino. Resta il racconto, sempre molto vivace, di cos’è la vita nell’Afghanistan talebano. La riproposta è funestata dalla sopravvenuta guerra in Europa, dalla violenza di casa nostra, ma in fondo anche l’Afghanistan è stato per vent’anni casa nostra, anche se non lo sapevamo, non ce ne accorgevamo. C’è chi associa Kabul agli aquiloni, Yasmina Kadra alle rondini, i fumatori al paradiso in terra, ma sono false rappresentazioni. Si lapida una donna – l’adulterio è femminile. Lo stadio si riempie per le esecuzioni pubbliche. Mogli, figlie, sorelle sono condannate all’oscurità forzata del burka. Ogni gioia è svanita, ogni attesa di un rinnovamento, sia pure religioso. Il giovane, coraggioso mujahid, convertito carceriere, sopravvive a se steso, inciampa sui suoi piedi.
Un apologo senza morale. Un racconto, si direbbe, maupassantiano, tal quale – “Khadra”, di suo Moulessehoul, è un ex colonnello dell’esercito algerino al tempo della jihad trent’anni fa che fece un milione o poco meno di morti, sa di che si tratta. E però più di un sospetto alimenta: la rivoluzione si mangia i suoi figli, come si suol dire, delude per primo chi ci crede.
Yasmina Khadra, Le rondini di Kabul, Sellerio, pp. 248 € 14

mercoledì 20 aprile 2022

Ecobusiness

C’C'è la guerra ma non c’è il ririsparmio di energia. Si corre a ddestra e a manca facendo finta che il petrolio e il gas siano dietro l’angolo,  invece di imporne il risparmio, con regole restrittive e con la verità dei prprezzi – salvando solo la produzione e le fasce sociali. Questo fu fatto nella prima crisi del petrolio, 1973-74, e in parte con la seconda, 1978: una politica di risparmio energetico. Oggi che la situazione è potenzialmente ben più grave – e l’ambiente figura, nelle enunciazioni, al di sopra di ogni altro problema – no.
C’è resistenza a tornare al lavoro di presenza, si preferisce da remoto. Per motivi magari anche reconditi  (poca voglia di lavorare?), ma per uno sicuramente eccellente: evitare il pendolarismo casa-lavoro: una e due ore ogni giorno di traffico, senza contare la ricerca del parcheggio, in prima-seconda, il maggior consumo di combustibile - oltre che di energie nervose. Un esercizio giomaliero, cinque giorni a settimana, di decine di milioni di persone.
IIn una città come Roma, molto estesa, con una metro antiquata e inefficiente, il problema del traffico fu temporaneamente
risolto dala sindaco Rutelli, peraltro benemerito, col motorino. Con gli incentivi della libera circolazione, anche in centro, e del libero parcheggio. Col mezzo inquinante più di ogni altro semovente - tolti i mezzi pesanti -  Cche ha obbligato i pronti soccorsi cittadini a sdoppiarsi e triplicarsi, tanti sono diventati i traumi da circolazione – con costi enormi per il sistema sanitario, e per le schiene degli avventurati.

 

Diderot critico disappetente

L’originale accompagna la traduzione, con un apparato critico molto esteso, e una lunghissima presentazione: i nove saloni coperti dal critico Diderot, dal 1759 al 1781, coprono un quato del testo, poco più. Di cui nulla resta di memorabile – a parte, nell’ultimo saggio, da critico già in età e deluso, l’individuazione del debuttante David, col “Belisario”: “Lo vedo ogni giorno e mi sembra sempre di vederlo per la prima volta”.
Diderot amava la pittura e amava la società. Ma fece il critico d’arte per la pagnotta, recensendo anonimo la mostra periodica a Parigi dei nuovi artisti, dapprima ogni paio d’anni, poi a caso. Per la “Correspondance littéraire, philosophique et critique” di Friedrich Melchior von Grimm, che si forniva agli abbonati, eletti e pochi, manoscritta per evitare la censura.
Sono scritti che Diderot volle anonimi, per non offendere la sensibilità degli espositori, che comunque avevano faticato. Testi ritenuti all’origine della critica d’arte. Ma non per altro memorabili, a parte uno o due aneddoti diderotiani, piccanti – l’erezione incontrollabile di Diderot nudo modello per un ritratto della “capricciosa artista prussiana” madame Therbouche, donna “non molto giovane, nè carina”, che voleva sdebitarsi di una recensione favorevole. O la censura di Boucher, che per “L’odalisca” aveva “prostituito” la moglie, dipingendola nuda. O dell’amato Greuze sottintendendo che anche la moglie (di Greuze) era stata da lui (Diderot) amata – ma in passato, ora “la tinta giallastra e la mollezza sono della signora”. Materialista e edonista, rifiuta la pittura libertina dei Boucher, Baudouin, Fragonard ("Mi sembra di aver visto abbastanza tette e culi"),
Un catalogo anche utile, ma non di più. Diderot censura la licenziosità camuffata da mitologia neopagana, perché vi scorge gli eccessi di una civiltà distrugge il desiderio banalizzandone il mistero in cliché. Una maniera - “Dove mai si sono visti pastori vestiti con tanto lusso ed eleganza?” E si fa paladino della naturalezza – specie nella prolissa trattazione di Vernet, il pittore delle marine. Salvo aggiungere: “L’imitazione rigorosa della natura renderà l’arte povera, misera, meschina”.
Scritti umorevoli, che riletti adesso risultano avariati, tipo quelli in cui all'arte assegna il compito di creare una nuova religione civile sulle macerie morali del cigolante Ancien Régime. Sono anche le tare dei suoi “drammi borghesi”, congegnati per rinnovare il teatro . malgrado il paradossale “Paradosso dell’attore”. E se Diderot fosse, fosse stato, un battutista? Naturalmente no. Forse è la critica d’arte un genere di poco fondo . si vedano oggi gli stucchevoli diluiti chiacchiericci attorno alla Biennale di Venezia – il cui tema peraltro è il “postumano”, di che épater tutti i borghesi.
A cura di Maddalena Mazzocut-Mis e Massimo Modica.  
Denis Diderot,
I Salons, Bompiani, pp. 1980, ril. € 70

martedì 19 aprile 2022

Secondi pensieri - 480

zeulig


Destra – Politicamente, è molto di sinistra – Gabriel Marcel. Nella primavera del 1961, a una delle prime riunioni del Centro di Vita Italiana, da lui appena fondato a Roma, Ernesto De Marzio, esponente allora di primo piano del Msi, invitò Gabriel Marcel, a discutere sul tema: “Che significa uomo di destra” – sull’intervento romano di Marcel, Andé Parinaud innestò una diffusa intervista per la rivista parigina “Arts”, ripresa dal quotidiano conservatore spagnolo “Abc” il 2 agosto 1962. La prima e maggiore differenza, o caratterizzazione della destra, secondo Marcel, è “la posizione di fronte al passato, che è anzitutto un atteggiamento di discernimento: consiste nell’ammettere che gli uomini che ci hanno preceduto hanno diritto a un certo rispetto”. Mentre l’uomo di sinistra legge il passato in funzione del presente. L’uomo di destra sarebbe cioè l’opposto, oggi, della cancel culture. Non sarebbe invece di destra, arguisce Marcel, la conservazione: “Possono esserci cose da esumare, cose da ravvivare, ma conservare mi sembra una parola di cui non si sa a che serve”.  Patria, religione, lavoro non dividono. Nemmeno la scienza divide, o innovazione. Anche nella sua riduzione tecnologica. Né divide la questione sociale: una destra “non sociale” è secondo Marcel una contraddizione. La grande differenza è la considerazione riservata, insieme con la storia, della “persona umana”: agli antipodi dell’uomo-massa, ma di un individualismo temperato.   
 
Guerra - La “guerra giusta”, cioè accettabile e anzi necessaria, molto dibattuta senza esito, da ultimo da Norberto Bobbio, trova una formulazione efficace in un testo breve, a suo tempo celebre, di Elizabeth Anscombe “Mr Truman’s Degree”. Un pamphlet di dieci pagine col quale l’“assistente” di Wittgenstein contestava nel 1956 la decisione dell’università di Oxford di conferire la laurea honoris causa che all’ex presidente americano Truman. La combattiva Miss Anscombe, la “vecchio mio” di Wittgenstein, la sola donna ammessa ai suoi seminari, una dei pochi che lo capirono e per questo non l’ha seguito, poi buona moglie e madre di sette figli, che si vedeva in facoltà in pantaloni sformati e giacche maschili, fumava il sigaro e scalava i monti, articola contro Truman un ragionamento semplice. Non si oppone alla guerra da pacifista, anzi crede che le guerre vadano combattute, ma spiega che quella contro le potenze dell’Asse era diventata ingiusta col concetto di “resa incondizionata”, e col passaggio, sempre da parte Alleata, dal concetto tattico di “bombardamento per obiettivi” a “bombardamenti d’area” – al bombardamento sistematico di tutte le città tedesche, e infine con i massacri atomici. La guerra diventa ingiusta per l’utilizzo di “mezzi immorali”.
Il bombardamento atomico del Giappone, la cui responsabilità è unicamente del presidente americano, lo è stata per una serie di motivi che Anscombe elenca: il Giappone cercava un armistizio (lo aveva chiesto a Stalin), il bombardamento di Hiroshima e Nagasaki non era contro obiettivi militari, si sapeva che avrebbe distrutto tutto, che non ci sarebbero stati superstiti, e avrebbe lasciato l’area contaminata. “Scegliere di uccidere l’innocente come mezzo per i vostri fini è sempre un assassinio”, stabilisce Anscombe recisa a metà ragionamento, dopo avere continuato a porre il problema in forma ipotetica.
Il governo britannico Anscombe collega a Truman nella responsabilità per l’eccesso di difesa. Aveva dichiarato di attenersi al trattato internazionale del 1923 che ripudia come criminosi i bombardamenti aerei di obiettivi privati e civili, e poi lo ha poi ripudiato esplicitamente, portandosi dietro gli Stati Uniti.
 
Uno studioso successivo, storico della filosofia antica, Jonathan Barnes, nel suo contributo alle celebrazioni a Ginevra di Jeanne Hesrch nel 2001, “Jeanne Hersch – La Dame aux paradoxes”, analizza il pamphlet di Anscombe alla luce del diritto “feziale” romano, il diritto che governava le relazioni internazionali, che prevedeva condizioni restrittive affinché una guerra si potesse combattere sulla base di una giustificazione. I feziali, il collegio sacerdotale elettivo che dichiarava la guerra per conto del Senato e del popolo romani, non poneva in realtà limiti alla distruzione bellica. Analizzava però ed elaborava i motivi per cui i Romani dovevano dichiarare guerra. Dava cioè uno scopo alla guerra, non la pura e semplice distruzione del nemico. Se non di una guerra proporzionata all’offesa, di una guerra comunque limitata nello scopo.
 
Libertà – Un paradosso? Serve l’oppressione per sentirsi (essere) liberi? Ne “Il mito virtuista” Pareto ha questo aneddoto storico: “In tutti i Paesi il bestiame che viene dai paesi forestieri viene giudicato molto pericoloso per l’igiene. Nei Paesi vinicoli il vino di uva secca è proprio cattivo per la salute. Vi si proibisce l’alcol, ma non si ardisce restringere l’uso del vino. La Finlandia aveva votato una legge che proibiva ogni bevanda alcolica. Anche il vino della messa dei cattolici, ma permetteva la piccola birra fabbricata in paese. Il Governo «dispotico» dello Czar non avendo sanzionato questa legge, i finlandesi hanno ancora la «libertà» di bere del vino; essi non l’avrebbero più, se il loro Paese fosse stato «libero»”. E commentava: “Tale è il nuovo senso della parola «libertà». L’uomo è tanto più «libero quante più cose gli sono proibite. In questo modo il massimo della libertà tocca all’uomo chiuso in cella”. Toccherebbe. Il carcere (l’oppressione) può essere senza luce, né prima né in fondo al tunnel.
 
Oscenità - È il portato di una mente lussuriosa. Cioè, dal suo punto di vista virtuoso, malata. È ovvio – è nella natura dei concetti, che si precisano per opposizione. Ma è di fatto storicamente, nella psicosi che la chiesa ha – avuto fino a non molti anni fa – del peccato carnale, degli atti impuri. Come lo diceva Pareto, più ironico che scandalizzato ne “Il mito virtuista” già un secolo e passa fa, nel 1911 – “Il mito virtuista e la letteratura immorale” sarebbe il titolo completo: nessuno vi è più impegnato dei Padri della Chiesa, che in teoria dovevano disinteressarsene. “Presso un gran numero di Padri della Chiesa c’è una vera smania”, nota, “si occupano con compiacente orrore del rapporto fra i sessi; ne parlano e vi ritornano a ogni proposito”. Anche volendo trattare dell’opposto: “La castità stessa è per essi un eccitante: la donna vergine, soprattutto, è sempre presente al loro spirito”. In “perfetta buona fede”, argomentava Pareto, ma essi “non si avvedono che, sotto il pretesto di ascetismo, finiscono per dare soddisfazione dell’istinto stesso che vorrebbero reprimere”.
 
Populismo –È nato a sinistra, politicamente. Risentito, sempre a sinistra, come una degenerazione dal corretto impegno politico, una deriva della ragione critica verso un passionale confuso umanitarismo. Ma non sempre.
Nel libro intervista “Pasolini su Pasolini”,, realizzato nel 1975 con lo storico inglese Jon Halliday - – fratello di Fred, l’animatore della “New Left Review” londinese e professore alla London School of Economics - il populismo viene rivendicato, da Pasolini, con poche resistenze dell’interlocutore inglese. “Crede di poter definire Gramsci un populista?”, è la domanda di Halliday. “No, non credo che si possa”, è la risposta. Ma Pasolini aggiunge: “Non annetto alcun significato peggiorativo alla parola «populista». La adoperano (in senso spregiativo, come accusa evidentemente, n.d.r.) i moralisti marxisti, insieme con il termine «umanitarismo». Non sono assolutamente d’accordo. Per me, populismo e umanitarismo sono due fatti storici reali: tutti gli intellettuali marxisti hanno radici borghesi, l’impulso a diventare marxista può solo essere di tipo populista umanitario, per cui questo fattore si trova inevitabilmente in tutti i marxismi borghesi, compreso Gramsci. Io non lo giudico un fattore negativo, rientra semplicemente nell’inevitabile transizione…”, etc. è il modo per convincersi e convincere, fare massa, a vere consenso.     

zeulig@antiit.eu

La Befana viene col romanesco

I film in copia, che si fanno dopo il successo dell’originale, sono condannati a non ripeterlo – non c’è un numero 2 migliore del numero 1. Qui, poi, non è un seguito ma si vorrebbe un prequel, come si è arrivati poi al film già famoso e che avete visto, l’antefatto cioè. E tuttavia l’idea originaria funziona ancora. Non per come si ha una Befana invece di una strega, il tema del film, ma come si anima una realtà scontata, marginale, minima, o di maniera, col fattore linguistico.
Basta uno scoglio linguistico per fare scena, per fare storia. Come con i Brancaleone o, per stare al romanesco della Befana, col “Marchese del Grillo”, da cui Randi prende molto, “Nell’anno del Signore”, “In nome del popolo sovrano”. È un film sul romanesco, più che sulla Befana: Zoe Massenti, benché debuttante e ragazzina, prende con le sue battute lo spessore di Sordi, di Manfredi.
Paola Randi, La Befana vien di notte II – Le origini, Sky Cinema

lunedì 18 aprile 2022

Ombre - 611

Benigni dicitore sempre in palla, fa due monologhi pasquali, sulla Resurrezione e sulla “Madonna Sistina” di Raffaello a Dresda. Da probabile agnostico, incurante, si fa convincente apologeta della vita oltre la morte, della vita oltre i materiali inerti (il “miracolo dell’arte”), con la Vergine che “esce dal quadro”. Non c’è bisogno di battersi il petto per testimoniare la vita invece della morte - che è poi il messaggio cristiano, anche quello mediato dall’ostilissimo islam.


La Gran Bretagna si accorda col Ruanda per deportavi gli immigrati indesiderati – clandestini, non aventi diritto, rifiutati, etc. Scandalo, perché il Ruanda è classificato, dalla stessa Gran Bretagna, di “scarsa trasparenza sui diritti umani”. Quanto basta, evidentemente, per un trattato di deportazione. A pagamento. Senza nessuna base in diritto, e anzi contrario al diritto – il migrante indesiderato va deportato al luogo di origine, non in una colonia penale.

Un “trattato di deportazione”. Un accordo di tipo coloniale, anche, povera Africa.

 

Si accordano col Ruanda per la deportazione due inglesi figli di immigrati, il ministro dell’Interno Patel, e il premier Johnson, di ascendenze turche recenti. Immigrato scaccia immigrato.

 

Il Ruanda è un po’ la pattumiera del Commonwealth. Ma ne trae profitto. Un accordo analogo è costato l’anno scorso all’Australia 460 milioni di sterline, per ricollocare 239 persone.


Da quindici anni un progetto Umubano porta in Ruanda ogni agosto un gruppo di deputati inglesi conservatori, per insegnare ai locali a giocare al cricket. L’Africa si diverte, e l’Inghilterra?

 

Twitter, nota Riotta di passata, “conta su 220 milioni di utenti nel mondo, capaci di generare ogni giorno mezzo miliardo di microblog, massa sterminata che innesca Brexit, vittorie di Trump negli Usa e Modi in India…”. La libertà di opinione è il perno della democrazia?  

 

“Troppi vaccini, anche l’Africa li rifiuta. 240 milioni di dosi finiscono in discarica”. Come per dare ragione ai no-Wax?

 

“Nei frigo del mondo stipati 2,3 miliardi di fiale. I Paesi poveri ne hanno bisogno. Ma arrivano quando la scadenza è vicina”.

 

“In Italia il flop di Novavax: scorte per un milione, trentaseimila le iniezioni”. Certo, melius est abundare quam deficere, siamo sempre latini. Saggi?

 

“Il pranzo di Pasqua in campagna”, propone “Il Trovaroma” di “Repubblica”, “i ristoranti dove scoprire il gusto del territorio”. Per Pasqua 150 euro, a persona (anche 140). Per Pasquetta un po’ meno, 100 (anche 95).

 

A Roma attorno a 73 mila titolari di permessi disabili per la circolazione figurano associate tre targhe in media per permesso. Per il parcheggio riservato e la circolazione libera anche in centro. Un segno incoraggiante, di sicuro benessere, malgrado la disabilità.

Il cristiano può morire

Mossul, “una città da un milione di abitanti”, deserta sotto i colpi del califfato. I borghi cristiani della piana di Ninive, distrutti, con accanimento, pietra su pietra, legno su legno. I cristiani, caldei, armeni, siriaci, uccisi, violentati, costretti a lasciare case e villaggi bruciati – a centinaia di migliaia attendati per una decina d’anni nella piana di Erbil. Si vede la guerra nei suoi aspetti reali, qui peggiorati dalla voglia terroristica di fare del male: non di sconfiggere, ma di tagliare, mutilare, decapitare, incendiare. Due ore da togliere il fiato.
Tutta roba che esisteva dunque negli archivi. Bicicchi ne parla in prima persona, come di cose viste e registrate da lui personalmente. Ma mostrate ora, a un anno dalla visita del papa in Iraq. A due o tre dalla sconfitta dell’Is, del califfato (a opera di Putin….). Insieme con le immagini della ricostruzione. E questa è la sensazione peggiore di tutte che si ricava dallo speciale – di montaggio specialmente efficace: dov’era la resistenza, come è stata da noi aiutata e organizzata, e dov’era la solidarietà, italiana, europea, cristiana, quando gli iracheni cristiani erano inseguiti per l’Asia minore? Dov’erano le carovane che andavano a prenderli e metterli in salvo, le famiglie che li ospitavano, i governi che li armavano? Sì, si commuovevano per il bambino, di Alan Kurdi si sono compiaciuti di fare un simbolo, ma giusto per asciugarsi la lacrima e lavarsi le mani.
La visita del papa, che si vuole trionfante, è a un numero immiserito di cristiani superstiti: “Qui non ci sono più di sessanta famiglie, sessanta famiglie sono tornate”, lamenta un sacerdote, dove invece erano migliaia. L’impressione è devastante: il cristiano non è più cittadino del mondo, altre forze lo reggono, si vede al confronto in Ucraina. Senza complotti, ma ci sono guerre giuste che dobbiamo combattere, e guerre di cui possiamo disinteressarci, sia pure contro congiunti prossimi.
Riccardo Bicicchi, Ritorno a casa. Papa Francesco in Iraq
, Speciale Tg 1, Raiplay

 

domenica 17 aprile 2022

Problemi di base divini - 693

spock
 
C’è Auschwitz, quindi non può esserci Dio?
 
“Le nostre contingenze colorano l’eternità di Dio”, Biagio Marin?
 
“Dalla fede si può evadere, uscirne è più difficile”, G. Greene?
 
O ha ragione Calvino: “I nazisti possono essere largamente superati in crudeltà in ogni momento”?
 
“Dio è sempre con i battaglioni più forti”, Federico il Grande re di Prussia?
 
“La causa del vincitore piacque agli dei”, Lucano?
 
spock@antiit.eu

La felicità prima della fine - Nietzsche a Torino

“Molto strano! Da 4 settimane comprendo tutti i miei propri - anzi, li stimo. In tutta serietà, non ho mai saputo che cosa significassero; mentirei se volessi dire che, a parte ‘Zarathustra’, mi avessero impressionato” – p.160. È lo stato di particolare aura, prima dell’evento: di chiarezza anche autocritica. Al termine di un autunno “di sfrenata bellezza” ancora a dicembre, ottimi cibi, cortesia, musica  eccezionale – “sono appena tornato, il 2 dicembre 1888, una domenica pomeriggio, “da un grande concerto, che è stato a conti fatti, la più forte impressione  concertistica della mia vita”, commosso fino alle lacrime, per “un pubblico sceltissimo”, scrive al musicista Köselitz (“Peter Gast”), “tutte cose estremamente raffinate”: l’ouverture dell’ “Egmont”,  la marcia ungherese (probabilmente il “Divertimento all’ungherese”, n.d.r.) di Schubert, un pezzo per gli archi di Rossaro, musicista torinese morto trent’anni prima (è questo pezzo che lo ha fatto piangere), la “Sakuntala Ouverture” di Karl Golmark, “otto volte una tempesta di applausi”, ancora un pezzo per archi, il “Canto ciprio” di Vilbac, quindi l’amatissimo Bizet, l’anti-Wagner, l’ouverture “Patrie”.
Nietzsche a Torino è di un entusiasmo senza limiti, sfrenato, incontinente. Pensare di scrivere all’imperatore, di scrivere e Bismarck, di abbozzare comunque le lettere, per annunciare la rivoluzione, o di rivoluzionare il mondo con gli annunci editoriali, delle proprie opere, è eccessivo ma non strano. La concitata corrispondenza si segue divertiti ma non perplessi. Complici di una bizzarra efflorescenza di benessere. Una produttività straordinaria, quattro libri in quattro mesi, tutti “capitali”, e corrispondenze fitte, elaborate, con gli amici, gli editori, le conoscenze, i critici. Con progetti di edizione ovunque, in francese, in inglese. Per l’italiano pensa a Carducci, per il quale abbozza una lettera, a Natale del 1888, poco prima del crollo: “Stimato signore, so fin tropo bene quanto lei comprenda il tedesco: consideri se non vuole presentare agli italiani” anzitutto “Nietzsche contra Wagner”, l’ossessione principale.
“Un attentato” dice le sue ultime opere “volto alla totale distruzione dei tedeschi”, rei di non riconoscerlo, di con apprezzarne la grandezza, Ma, insieme, di perfetta lucidità nelle argomentazioni, contro Wagner e la décadence, per la creatività come gioco, lieve, e contro le nebbie della filosofia tedesca. Opinabile ma comprensibile.
La serie di lettere messianiche predisposte già molto giorni prima del crollo, all’imperatore, a Bismarck, a Taine, a vari interlocutori, alcuni fittizi per i progetti di edizioni multilingue, date per reali, e per annunciare l’“attentato al cristianesimo”, sono di evidente mania di grandezza. Una sorta di sindrome di onnipotenza. Declinata ragionevolmente (grammatica, sintassi, consequenzialità, titoli, personalità e qualità del destinatario). Ma in una sorta di hortus conclusus, in uno stato irenico, insensibile alla stagione – celebra l’eterna primavera a Natale a Torino, dopo la nebbia e il nevischio.
Una condizione di “entusiasmo”, in senso filosofico e teologico, un invasamento. L’esaltazione è confortata dagli apprezzamenti di Strindberg, entusiasta, e di Taine. Ma si nutre dell’ossessione di Wagner – ne è minata. Della Germania sempre. E anche degli ebrei, contro il cognato e la sorella antisemiti, ma in filigrana ubiqui: “Senza ebrei non c’è immortalità”, spiega da ultimo all’amico Köselitz (“Peter Gast”), “non a caso sono «eterni»”. Allo stesso ha spiegato il 9 dicembre, ancora presumibilmente lucido: “Lei sa già che per il mio movimento ho bisogno di tutto il grande captale ebraico?”.
Curate da Giuliano Campioni (sulla traduzione di Vivetta Vivarelli), che le dota di molte note, purtroppo come al solito in queste edizioni Adelphi di notevole perdita di tempo e distrazione, così complicate da compulsare.  
Friedrich Nietzsche, Lettere da Torino, Adelphi, pp. 269 € 15