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sabato 6 agosto 2022

Pelosi a Taipei, la “piccola Ucraina americana”

La visita della Speaker della House of Representatives del Congresso americano, ufficiale e in pompa, la prima visita ufficiale americana dopo venticinque anni, si è rivelata essere un atto di politica estera dell’amministrazione Biden, calcolato. Dagli scopi non dichiarati, ma probabilmente intesa a ricordare alla Cina “assertiva” del presidente Xi, un altro presidente a lunga vita, che Taiwan, seppure non sia considerata una “seconda Cina”, è tuttavia sotto protezione americana.

Nelle capitali europee, non preavvisate di questa iniziativa, l’opinione è ovunque perplessa sui suoi esiti, se non sui suoi moventi. È un rivolgimento della politica americana ormai cinquantennale, avviata da Kissinger con i viaggi segreti a Pechino, seguiti dalla visita di Nixon nel 1972, improntati alla collaborazione con la Cina comunista, in tutti i campi. La visita è anche servita al rilancio del militarismo cinese, da molti decenni tenuto fuori dalla politica di Pechino. E si allontana ogni possibilità di mediazione cinese nella guerra della Russia all’Ucraina – nella quale anzi Pechino potrebbe ora assumere perfino un ruolo di sostegno a Putin, anche se solo a fini negoziali - qualche diplomatico in vena di facezie si spinge perfino a dire la visita di Pelosi “la piccola Ucraina americana”, a ruoli invertiti. I rapporti economici (globalizzazione, catene di valore cinesi) non dovrebbero risentirne, ma potrebbero: non si esclude che Biden, che finora ha evitato l’incontro diretto con Xi, se non per videoconferenza, abbia un disegno di ridimensionare la potenza economica cinese, che alla vigilia della sua elezione si voleva la maggiore al mondo.  

Questo secondo logica. Ma non si esclude che la cosa non sia una rivalsa tra vecchieti - la rotoccatissima Pelosi ha qualche anno in più del presidente anziano Biden. In fondo, Biden aveva assicurato che l visita non si sarebbe fatta, lo aveva detto pubblicamente - che la visita non si sarebbe fatta su suggerimento del Pentagono.

Cronache dell’altro mondo – di destra (206)

Il governatore della Florida De Santis ha fatto rimuovere dalla polizia il Procuratore Capo (State Attorney) di un grande distretto, Andrew Warren, per non avere assolto agli obblighi di legge, perseguendo i crimini “come defniti dalla legge” e non “in base alla sua personale agenda”.

Il giudice Warren, Democratico, De Santis accusa di essere al soldo di George Soros, che ne ha finanziato la nomina. Uno dei tanti, aggiunge in un’intervista, spiegando che il finanziamento dei procuratori da parte di Soros ha creato una giustizia di parte, che prescinde dalle leggi o le aggiorna per i suoi convincimenti.

Nelle primarie repubblicane per le elezioni dei governatori a novembre, i candidati di Trump vincono quasi ovunque.

Un “ecofascismo” è sempre più individuato alla base di molte delle stragi degli ultimi anni, per dichiarazioni o programmi espliciti degli autori delle stragi, o per i convincimenti che avevano professato e per cui erano noti in precedenza. Un “nativismo” bianco, contro gli immigrati nuovi o recenti, e anche contro le minoranze.

Restanza senza – pos, benzina, bancomat

Partire o restare, restare per partire, partire per tornare, il professor Teti si interroga sulla “restanza”, il vecchio desiderio di casa delle fiabe, se non sia proficuo per una nuova ripartenza. Ma che dire se, avvicinandosi alla Calabria, dove l’antropologo ha deciso di restare. Non c’è stazione di servizio tra Sala Consilina e Frascineto Ovest, 102 km.: c’è a Galdo, c’era, ma Galdo Ovest, quella per chi scende, è chiusa da cinque, sei?, sette?, anni, in attesa di rifacimento. In attesa? E perché in 102 km ci deve essere solo una stazione di servizio? Per vendere a Frascineto Ovest la benzina più cara d’Italia, anche di venti e trenta centesimi, al litro?

Viene poi il pranzo, in località amena del Pollino. È fresco, ma è funestato dalle mosche. E dal pos che non funziona – ma ogni anno non funziona.

Dove il pos funziona, alla stazione di servizio Esso di Lamezia, funziona tanto che addebita sulla carta di credito, “in attesa di registrazione”, quattro pieni invece di uno. Questa veramente è sorpresa del giorno dopo, ma ha richiesto lunghi conversari col numero verde della carta. Con la pena suppletiva di richiamare il giorno 23, quando si contabilizzano i pagamenti, per controllare se “il sistema” ha cancellato i tre pieni - altrimenti bisogna farlo di forza.

La pipì, invece, alla stessa stazione di servizio, ha richiesto uno sforzo subito, turandosi il naso e chiudendo gli occhi, non potendo non farla in luogo appartato, detto toilette.

La sorpresa dello stesso giorno è che alla meta il bancomat non funziona. Non per il nostro arrivo, questo no, non funziona da una settimana. E quindi bisogna rimettersi in marcia, dopo una giornata di automobile, per trovare una banca dove funziona. Si può “restare” senza bancomat?

Il problema è sempre quello. “C’è chi in fondo al suo cuore ha una pena\ chi invece c’ha un altro problema\ e c’è sempre lì quello che parte\ ma dove arriva se parte?”.Ma questa non è un’altra storia (un altro mondo), Jannacci (Milano)?

Non c’è problema invece per le barche, le quali, circumnavigando la Calabria, se la godono da lontano. Da qui il fascino, intatto. Anche se senza calabresi.

Romanticismo demoniaco

Per la ricorrenza della nascita di Percy Bysshe Shelley, il 4 agosto 1782, il settimanale ripesca online il saggio che il poeta Adam Kirsch (specialista di Leopardi) gli ha dedicato nell’edizione del 27 agosto 2007, “Avenging Angel”. Un ritratto dal vero, che fa breccia nelle nebbie del romanticismo, di cui il romanticismo amò addobbarsi e spesso si ripresentano: niente di angelico, e anzi molto fuoco, e distruttivo.

“Dentro la mente manichea di Shelley”, così il settimanale sintetizzava il saggio nel “catenaccio”. Un giovane di “ambizione luciferina”, lo dice subito Kirsch. Che però si voleva “come Gesù, che bestemmiava, ammirava, e a tratti riproduceva”. Un aristocratico che scelse presto il radicalismo e l’anarchia. Morirà di appena trent’anni,  (nel mare di Lerici, per il naufragio della sua goletta, con un’opera immensa, (“Prometeo liberato”, “Adone”, “Ode al vento occidentale”, “Ozymandias”, “A un’allodola”), “senza mai un pensiero per il domani”. Al primo anno a Oxford si volle distinguere pubblicando “La necesità dell’ateismo”, che mandò a tutti i dirigenti dell’università, di nomina più o meno ecclesiastica, “come se chiedesse di essere espulso” – e lo fu.

Morì nel mare di Lerici, per il naufragio della sua goletta – il corpo fu avvistato a Viareggio dieci giorno dopo, il 18 luglio 1822. A Lerici Shelley si era stabilito con la seconda moglie Mary Wollstonekraft, l’autrice di “Frankenstein”, figlia del filosofo anarchico William Godwin (“Caleb Williams”, da Shelley molto ammirato - che però ripudiò la figlia, per quel suo amore libero col poeta.   

Adam Kirsch, Avenging Angel“The New Yorker”

venerdì 5 agosto 2022

Il maestro Rusticucci

Questa è la storia di un liutaio, con pretese nobiliari, che si era coltivate nella solitudine del laboratorio dacché, era ancora ragazzo, Mussolini aveva demolito i borghi per aprire la via della Conciliazione, e in fondo ai borghi, appetto a San Pietro, aveva demolito largo Rusticucci, ma che il paese rispettava e in fondo amava. Liutaio è una professione nobile, ben-ché in paese renda poco. Sua moglie Linda prese ad andare in città, e il pretore Martorello lo avvertì che aveva una tresca. In principio non volle credergli. Sapeva che il pretore, scapolo a tarda età, aveva una cotta per Linda, e che ne era stato respinto. Ma l’uomo era fissato, portò gli orari degli incontri di Linda, il nome dell’amante, un ufficiale, e il nome del luogo, un albergo. Il maestro ritenne di dover accertare la cosa, se non altro per far tacere il pretore e le chiacchiere che egli già spargeva, e un pomeriggio lo seguì, sulla macchina che il giudice si offrì di affittare, in un viaggio che fu interminabile con il cuore in gola. Dove infatti gli ri-mase, pover’uomo. La visione insistita della moglie nuda com’egli non l’aveva mai vista, abbrancata avidamente al suo ufficiale, la carne è uno spettacolo emozionante, gli fu probabilmente fatale.

Il maestro risultò essere morto di cuore in un albergo equivoco della periferia Est, sulla Tiburtina. Niente di più risultò. La moglie, scon-volta dalle cattive abitudini del marito, che aveva scoperte nella ferale circostanza, vendette casa e negozio e si prese un appartamentino in cit-tà. Il pretore finì in macchietta, ripetendo a tutti non creduto la storia del-la bella Linda, del gran sedere e delle cosce abbrancate alla schiena del-l’ufficiale, che evidentemente avevano sconvolto anche lui.

Restare per ripartire

“Andare per restare”, sono “il recto e il verso di un radicamento «in cammino»”. Programma semplice, ma in apparenza. Da un posto da cui “tutti” fuggono, Teti decide di restare. È una scelta che merita il neologismo. Da antropologo emerito, lo studioso indaga però il fenomeno, che vede nuovo, non come deposito residuo, ma come ipotesi, di apertura di un “nuovo processo”, dinamico e creativo.

Una riflessione avviata da tempo, “su un aspetto apparentemente controintuitivo: il viaggio da fermo di chi resta e, contemporaneamente, sul radicamento archetipico ad un luogo di chi parte”. Col sussidio - o forse con la memoria storica, comunitaria - personale. Quando gli emigranti eravamo noi, “restavano” la moglie e madre, e i figli. Avvenne anche col padre di Teti. Nel lockdown imposto dal covid, con “l’elogio del piccolo borgo … dal quale lavorare a distanza”, senza la fatica del pendolarismo e in sicurezza, l’esigenza si è imposta di un progetto più sostanzioso, “riabitare i paesi interni, riabitare la montagna, guardare al centro dalla prospettiva inedita e umanissima della periferia”. Non “un invito all’immobilismo” dunque, né un rigurgito di nostalgia, ma il progetto di identificare “il rimanere come nucleo fondativo di nuovi progetti, di nuove aspirazioni, di nuove rivendicazioni”.

Si parte dall’antico, e quindi dal pane. Anche dalla “retorica delle rovine”, ma il pane è di tutti. “La civiltà contadina tradizionale, definita «civiltà del pane», descrive, nella sua fenomenologia conservativa, un culto fondativo ed ideologico del pane della restanza”. Del padre in Canada Teti ricorda che la sua abitazione, un edificio “in cui vivevano trentatré paesani”, veniva chiamata “la casa dei trentatré pani”, quanti ne lasciava alla soglia il panettiere ogni mattina. Si viaggiava e si viaggia, a milioni, per “cercare pane”. Ma il pane, come a dire il bisogno? Il pane è cumpanis, compagno, ma è anche, in una storia diagrammatica, nella storia, il necessario, il bisogno elementare. E quindi, bisogna stare al pane o bisogna liberarsene? L’uno e l’altro: “Restare come principio di libertà, non per isolarsi, ma per inscrivere la propria piccola patria nel cuore del mondo”. Il senso, semplice, è nella dedicatoria finale: “Ricerca costante e attiva di nuovo senso e di nuove possibilità di appaesamento”..

Di grande lettura il capitolo centrale – malgrado il titolo: “La metafisica distrazione dell’oltre”. Con una trattazione approfondita della nostalgia. Termine recente, introdotto da un Andreas Hofer, “giovane studente alsaziano di medicina”, presentando il 22 giugno 1688 una “Dissertatio medica de nostalgia”, parola che aveva creato er crasi tra l’omerico nostos, il ritorno degli Achei, e algos, dolore, tristezza. Una doppia connotazione negativa, dunque, in origine, poi elaborata come memoria grata. E con una trattazione originale – anche se con riferimenti a riflessioni specifiche, di Magris, Jankélévitch, Prete - di Ulisse, della sua odissea: “Il termine nostos non significa soltanto ritrorno, ma allude anche all’idea di andare. Ulisse, allora, eroe del ritorno, non smette mai di tornare, ma, in un certo senso non smette mai di arrivare”. O anche – Jankélévitch: la sua è una strategia per “non tornare”, per non arrivare mai, non finire.

Un’analisi in più passaggi radicale, di un sogno, incerto, più che di una prospettiva. A cavaliere tra la “casa vuota” e la casa “popolata”, nelle new town dell’arte borbonica di ricostruire dopo i terremoti, o nei piani comunali di ripopolamento con la cessione “a un euro” di case abbandonate, Testi scegli il rifiuto. “Un’idea devastante” dice quella delle case abbandonate – le new town probabilmente rifiutando per il sentore di affarismo che accompagna le ricostruzioni. Sotto un duplice profilo. “Restituisce l’idea che la casa venduta al prezzo di un euro valga esattamente un euro”. Mentre, “sotto un profilo simbolico, è come svendere la memoria comunitaria”.

Come progetto è intricato – Teti si obbliga a ritornare spesso sul già detto. In epoca di nuove migrazioni, e in Italia per la prima volta dopo secoli di vasta immigrazione, le due esigenze vanno conciliate – e si conciliano, malgrado tutto, lo spirito di comunità è oggi più vivo di prima grazie ai nuovi apporti. Nello sport, nelle arti, nella letteratura, nei social naturalmente, e anche nei quartieri e nei borghi.

Teti è anche contro i progetti di ripopolamento, specie a ridosso delle aree urbane. In Abruzzo, per dire, satellite di Roma con l’autostrada, in Terra di Lavoro di Napoli, in Cilento dell’asse Battipaglia-Salerno. Che invece sono realtà vive e vifviicanti: lo sviluppo è troppo facilmente dimenticato e anzi vilificato, mentre è il motore di ogni cosa – l’evoluzione, il miglioramento, la creazione di ricchezza: si può fare finta di deprezzarlo, il concetto e la pratica, ma a che fine? Le case dei padri e dei nonni rivivono, tornano a respirare, l’aria di oggi certo, non quella di due e tre generazioni fa. Perché non sarebbe valido, anzi entusiasmante, il progetto di rivitalizzare i centri classici come Riace con africani e asiatici – sia pure solo per entrare nel business dell’accoglienza? 

Con rimandi a Benjamin, Hillman, Heidegger. Teti arriva subito alla conclusione che “l’anima del luogo dev’essere scoperta allo stesso modo dell’anima di una persona”. Ma non a condizione che i luoghi abbiano un’anima? Per esempio in Calabria, dove Teti vive: c’è una società tradizionale, un’anima, ancora in Calabria? Teti la trova nel culto mariano, nella sacralizzazione comune al Mediterraneo: “Nella società tradizionale calabrese, come in altre aree del Mediterraneo, esiste un legame indissolubile tra luoghi, santi, madonne, paesi, individui”. Sì, ma la società tradizionale c’è ancora?

Con una bibliografia aperta sulla letteratura. E una panoramica degli scrittori contemporanei della “restanza”: Di Pietrantonio, Marco Balzano, Franco Arminio, Sonia Serazzi, Maurizio Fiorino, Gianmarco Di Biase, sorella Chiara, la badessa delle Sorelle Povere di Santa Chiara – fose a Scigliano (Cosenza). Ma il tema, Teti giustamente avverte, è già tra i più trattati, da Omero in poi: i “luoghi” – nascita, vita, morte – sono sacri.

Resta da dissodare l’atto pratico della restanza, fuori dall’orgoglio di chi, malgrado tutto, è rimasto. La casa di famiglia – eh sì, di questo stiamo parlando – è da qualche tempo fiscalmente “seconda casa”, nell’Italia che con la Repubblica si è distinta per la forte, forsennata, migrazione interna. E quindi un onere, anche pesante. Il futuro, anche prossimo, non è il ritorno al paese, il lockdown è solo una pausa, ma l’abbandono del paese. L’Italia che si distingueva per il fortissimo decentramento, con il putto o la sirena alla fontana e una piazza anche nel borgo più remoto, si avvia a estinzione, lo spirito comunitario vecchio, o nazionale o identitario, si è già dissolto in quello condominiale, l’iperubanizzazione si accentua e non si restringe, non abbiamo le banlieu e i ghetti etnici, non ancora, ma sono il futuro che si vede.

Vito Teti, La restanza, Einaudi, pp. 158 € 13


giovedì 4 agosto 2022

ll mondo com'è (451)

astolfo

Sirene – In origine erano terrestri. Uccelli a forma di donna, a simboleggiare probabilmente l’anima umana. Uccelli perché cantavano, e in forma di donna perché il canto femminile è melodico.

Quelle di Ulisse erano di questo tipo. Ma già sulla via di diventare marine: al continente preferivano le isole, per essere più a contatto col mare. Emersero dal mare con la coda di pesce ai tempi di Plinio, che così le tratteggia. Ma nella lenta metamorfosi avevano illeggiadrito almeno metà corpo, il collo sottile flessuoso, da fanciulla, i seni, le braccia ben tornite.

 

Bona Sforza – La milanese (1494-1557) figlia di Gian Galeazzo e d’Isabella d’Aragona (figlia del re Alfonso II di Napoli), detta anche Bona Sforza d’Aragona, fu regina di Polonia, sposando il re Sigismondo I, vedovo – nipote a sua volta di Bianca Maria Sforza, che aveva sposato l’imperatore Massimiliano I. Nata a Vigevano, fu anche, per parte di madre, principessa di Rossano, in Calabria, e “duchessa sovrana di Bari”, dove trascorse gli ultimi mesi di vita e dove è sepolta (onorata da una associazione culturale Regina Bona Sforza) – nonché pretendente, sempre a nome della madre, che si diceva erede dei Brienne, al regno di Gerusalemme. Gli Sforza avevano già un intreccio con gli Aragona, opera del consigliere ducale Cicco Simonetta, di Caccuri (Crotone): Isabella era figlia di Alfonso II e Ippolita Maria Sforza.

A Napoli e a Bari Bona era stata cresciuta e educata, la madre Isabella essendosi allontanata da Milano poco dopo la morte del marito Gian Galeazzo, forse avvelenato dallo zio Ludovico il Moro – che già in passato aveva tentato d’impadronirsi del ducato, quando Gian Galeazzo, erede del titolo a soli sette anni, era in realtà governato dal gran consigliere Simonetta. Negli anni d’esilio, Ludovico il Moro era stato duca di Bari, negli ultimi venti anni del Quattrocento. Isabella se n’era tornata a Napoli nel 1500, poco prima che il Moro morisse. E fra alterne vicende ci rimase, Milano essendo stata pretesa come feudo personale dal re di Francia Luigi XII, che a Isabella, malgrado manovre e promesse, non diede affidamento che il ducato potesse essere restituito al suo figlio, Francesco Maria Sforza. “Nel 1518, a 24 anni”, spiega wikipedia, “testimone la cugina Vittoria Colonna, Bona sposava a Napoli nel Castel Capuano il re di Polonia Sigismondo I; vedovo cinquantunenne di Barbara Zapolya”, figlia del conte palatino d’Ungheria.

“Fece in tempo a dare a Sigismondo I, non più giovane, sei figli”, racconta di lei Wyslava Szymborska: “Non fu colpa sua se si trattò di quattro femmine e di due soli maschi, dei quali soltanto uno rimase in vita”. E si preoccupò che il suo unico maschio contraesse matrimonio con donna forte. Per questo obiettando al disegno d’impalmare un’Asburgo per legare gli Jagelloni alla casa d’Austria: Elisabetta d’Austria era soggetta dall’infanzia al mal caduco. Per la stessa ragione non vide di buon occhio il terzo matrimonio del figlio con la sorella di Elisabetta, anch’essa affetta dalla stesa malattia. Anche il secondo matrimonio non andava bene, con Barbara, perché imparentava Sigismondo Augusto con l’ambizioso clan dei Radziwill, e quindi lo assoggettava alle famiglie magnatizie, la rovina della Polonia. Sigismondo Augusto aveva fatto incoronare a dieci anni, vivente ancora il padre, senza chiedere l’approvazione di rito della nobiltà, per affermare insoluto il diritto dinastico.

Per questo, per avversare l’invadente nobiltà polacca, non fu amata. Non si perse l’occasione di dire che aveva avvelenato le tre nuore. Le venne rimproverata – dalla nobiltà – la sua “diversità”, come fosse la prima principessa non polacca sul trono. Soggetto di molte storie e romanzi cattivi e cattivissimi. Si disse che aveva avvelenato anche Barbara Radziwill, la seconda moglie del figlio, morta giovane. Una cronaca sua contemporanea, redatta per maggior dileggio in italiano, riportava questo commento di Sigismondo alla sua prima notte con Bona: “Regina Bona attulit nobis tria dona: faciem pictam, vulvam non strictam et pecuniam fictam” - la vagina “non strictam” intendendosi non più vergine, mentre fra i 100 mila ducati della dote sarebbero state rinvenute molte monete false. Del suo primo amante, a Bari, Ettore Pignatelli, figlio di Alessandro Pignatelli, amante di sua madre Isabella, si disse che era morto avvelenato da lei quando si era rifiutato di seguirla in Polonia, e anzi si era sposato a Bari. La fecero anche un’affarista.

Aveva lavorato per trent’anni alla potenza degli Jagelloni. Nel 1523 la Prussia era divenuta tributaria della Polonia. Stipulò con l’impero ottomano un trattato di pace vantaggioso, nel 1533. Migliorò i rapporti con la Lituania, che nel 1563 si unirà alla Polonia, e con la Francia, in funzione antimperiale, anti-Asburgo. Mentre sposava il figlio Sigismondo Augusto con una principessa d’Asburgo, Elisabetta – figlia peraltro di una Jagellone, principessa polacca.

Lo stesso tragitto, con ben altri esiti e forse con più determinazione, sarà seguito qualche anno dopo Bona Sforza da un’altra principessa italiana, Caterina dei Medici, regina di Francia.

Il figlio non ne riportò le spoglie al Wawel di Cracovia, come le sarebbe toccato, da regina, accanto al re suo marito.

 

Wandervogel – Erano i Greta boys di un secolo fa, primo Novecento, in Germania e in tutto il mondo germanico. Non occasisonali manifestanti, ma aderenti a un’organizzazione.

I Wandervogel erano i membri della Jugendbewegung, movimento fondato nel 1901 per stimolare il ritorno alla natura e alla tradizione, il Volk etnico, e alla stessa giovinezza intesa come valore. Tipicamente tedesco, il mito giovanile e quello della purezza etnica legando alla natura, un “ritorno viziato” ai miti originari, dice Furio Jesi, “tipico della moderna cultura borghese tedesca”. Fu subito popolare, specie al Nord, e sarà fatto confluire dagli storici tra le fonti dell’ideologia germanica, quella dei lutti.

I Wandervogel non erano innocenti, cantavano l’avventura e la pirateria. Ma furono anche ebrei: Walter Benjamin ne fece parte a Berlino, nel Club dei dibattiti, al tempo in cui si ispiravano all’opera di Gustav Wyneken, Scuola e cultura della gioventù. I Wandervogel esercitarono un’influenza riconosciuta anche su Blau-Weiss, il movimento della gioventù ebraica di prima della grande guerra. Alla rivista Der Anfang, l’inizio, che proclamava la negazione radicale della storia e il valore assoluto della gioventù, sulla scia di Wyneken, Benjamin collaborò firmandosi Ardor. E per un periodo presiedette l’Associazione berlinese degli Studenti Liberi. Wyneken, pedagogo, autore di opere rinomate sulla riforma dell’insegnamento e sulla gioventù che furono all’origine dei Wandervogel, è stato l’unico, tra i milioni di giovani uccelli erranti, a sopravvivere alle due guerre e ai tre regimi infausti, a sopravvivere fisicamente, poiché ha percorso tutta l’epoca di Adenauer.

La natura è violenta. Anche gli Artamani, giovani nazionalisti d’ogni partito, furono contrari all’alcol e alla nicotina e alla vita disgregatrice delle città.

Il fiore blu fu il simbolo dei Wandervögel - simbolo di lealtà, dirittura e salutismo. Anche nell’alimentazione: i negozi “riformati” furono i primi a commerciare cibo organico.

Il realismo di Pasolini è fiabesco

La fascetta editoriale propone il libro come “Monteverde nella vita e nell’opera di Pasolini”. E questo c’è, anche nella documentazione fotografica che arricchisce il libro: Pasolini ci ha vissuto alcuni anni, ci ha ambientato il suo primo romanzo, “Ragazzi di vita”, ci ha intessuto rapporti stretti con altri letterati che sentiva vicini e abitavano il quartiere, i Bertolucci, suoi condomini, e Giorgio Caproni, di sfuggita anche Gadda. Con scambi antologici ottimi, che Capitolo documenta, fra i tre monterverdini di più lungo periodo, Caproni, Bertolucci e Pasolini. Con le amabilità del luogo, villa Sciarra soprattutto, e il parco del Gianicolo. Ammirate, ma non a occhi chiusi, da queste eccellenze intellettuali immigrate: “La «spina della nostalgia» che tormenta Caproni accomuna gli amici scrittori di Monteverde. Roma è per tutti amore e disamore”.

Tutti sono immigrati a Roma, quelli di Monteverde – compreso Rodari, che non fa parte della cerchia: di loro volontà, ma con inevitabili riserve. Forse così è sempre stato, Roma è città di meteci, anche intellettuali. Capitolo richiama Catullo e Virgilio, ma quanti a Roma non lo sono stati? E la città vivono gradevole, ma dall’esterno, come osservatori. A Monteverde (peggio ancora, per Pasolini, all’Eur) più che altrove. Per esempio i Parise, Arbasino, Malerba, La Capria, Citati, lo stesso Calvino, del Centro Storico o dei Parioli, invece non se ne fanno problemi.

E dunque? Ma prima di venire al dunque, bisogna dare atto a Capitolo di una lettura fra le più pregne, anche invoglianti, fra le tantissime in circolazione su Pasolini, nella seconda parte del libro: “L’ossessione del sacro e della morte”, e ci si potrebbe fermare qui, ma d’obbligo sono anche “La Nuova Preistoria”, del radicale deluso, e “Spes contra spem” - che è la fede, malgrado tutto, nel futuro…

Capitolo ritesse la favola di Monteverde Vecchio, forse veritiera in chiave storica, negli anni 1950: ma allora non è quella di “Una vita violenta”. Quartiere ibrido, di provenienze, generazioni, linguaggi, che una certa vulgata vuole resistenziale, forse nella memoria della Repubblica Romana che qui ebbe l’estrema difesa. Ancora popolare, specie settant’anni fa, sempre secondo la vulgata, nella sua parte nuova, quella del romanzo di Pasolini, attorno a via di Donna Olimpia. Nonché robustamente antifascista per essere stato luogo di deportazione di Mussolini quando abbatté “i borghi”, attorno a san Pietro, per costruire via della Conciliazione - e, va aggiunto, chissà perché questo si trascura, per “risanare” Trastevere liberandolo dei “ladroni”, di cui cementava le porte. Impresa impossibile, sia detto, quest’ultima. Ma non è questo che importa qui, il fascismo e l’antifascismo. Sia Donna Olimpia sia Garbatella, altro quartiere cresciuto con le “deportazioni”, erano soluzioni urbanistiche: studiate, con asilo, scuola, ospedale, e case d’architetto: ancora oggi le “case popolari” dei Quattro Venti e Donna Olimpia a Monteverde sono tra quelle che fanno migliore figura e più quotate.

Il quartiere nell’insieme era ed è modesto, il Nuovo e il Vecchio, di piccola borghesia si direbbe. Un tempo ben governato, e ben servito. Mentre oggi, seppure magnificato, si presenta sporco e afflitto, trascurato, da tempo, si cammina sui marciapiedi rotti tra cartacce, ortiche e deiezioni animali, e isolato: non ha più praticamente mezzi pubblici con la città, con la quale invece era molto ben collegato, il Nuovo e il  Vecchio, col famoso 75 di Gianni Rodari, filovie, tramvie e ottime corrispondenze, ma da tempo non lo è più - a opera di una giunta di sinistra, se serve saperlo, assessore all’Urbanistica uno del quartiere…. E senza carattere, altro che Resistenza, solo bell’aria, coi grandi parchi, Pamphili, Gianicolo, Sciarra , che però non si amano e poco si curano – la grande Accademia Americana, e molte grandi residenza diplomatiche, .

Non era così nel 1960, ecco il dunque. E nemmeno nel 1950: la Donna Olimpia di Pasolini è un’invenzione, un luogo immaginario dove ambientare il picarismo dei “ragazzi di vita”. Capitolo lo sa: “Un mondo, quello della borgata, amato dallo scrittore, ma estraneo alla sua condizione borghese” – che Pasolini ha costruito anzi con cipiglio. Per cui “i suoi sentimenti si confondono in una contraddizione che non avrà mai fine”. Che oggi si può anche dire, non è più tabù. Capitolo vi accenna, facendo propria la definizione immediata di Contini, che non subiva censure, di “Ragazzi di vita” come di una “una dichiarazione d’amore” – o come, censorio,  disse Salinari: “Pasolini sceglie apparentemente come argomento il mondo del sottoproletariato romano ma ha come contenuto reale del suo interese il gusto morboso dello sporco, dell’abietto, dello scomposto e del torbido”..

I pischelli, i regazzini, sono i personaggi di tutte le narrative romane di Pasolini – un’ossessione, si direbbe, fino a “Petrolio”, ma conviene non allargare l’obiettivo. E Donna Olimpia un luogo che “Una vita violenta” sostituirà con altri, forse con maggiore veridicità, non si saprebbe dire. Ma Donna Olimpia come set dei “Ragazzi di vita” è di Pasolini. Questo è importante perché è una  favola che Pasolini racconta, sotto il realismo inteso come deiezione. E come tale oggi solo si può rileggere, come “Uccellacci e Uccellini” e le tante altre fantasie filmiche . con una dose di buona volontà. Come “documento” è poco (niente) e troppo, indigeribile.

In parallelo va la funzione e l’esercizio del romanesco: Pasolini parla romanesco da straniero, dopo averlo studiato e anzi sempre studiandolo nel mentre che vi si esercita. C’è una strana dissimiglianza fra il romanesco di Gadda, Ingegnere ben milanese, ben signorile, che è popolare,  romano, naturale e quello irto, puntuto, di Pasolini, anche nelle tante poesie. Perché Gadda è come Belli, si è calato nella Roma romanesca, per quanto da lui lontana, con l’ironia bonaria (che è il proprio del romanesco…). Mentre Pasolini ha continuato a studiarlo fino, si può dire, agli ultimi suoi momenti, a scovarlo, appuntarselo in enormi repertori, mai autonomizzandosi dal suo interprete per eccellenza, Franco Citti, o Ninetto Davoli (romano peraltro meteco): il suo romanesco viene spontaneo come il grammelot che in contemporanea sviluppava Dario Fo, frutto di mestiere ma non propriamente dialetto.

Pasolini è rimasto al di fuori di Roma, benché non abbia fatto che scriverne e rappresentarla, distaccato. Come lo è stato ed è rimasto con tutte le persone e gli ambienti con cui è venuto in contatto, Napoli, l’Africa, l’India, Milano, gli scrittori, i giornalisti, i cinematografari, le tante donne della sua vita – ma questo è un altro problema, biografico. Qui, partendo da Donna Olimpia e dai “ragazzi di vita”, basta sottolineare che sono sue “costruzioni”, ambientali e linguistiche. Morali.  

Luciana Capitolo, Pier Paolo Pasolini. Un giorno nei secoli tornerà aprile, Nova Delphi, pp. 268, ill. € 14

mercoledì 3 agosto 2022

Problemi di base - 708

spock

Grillino grullino?

Perché ì bambini, così simpatici, da ragazzi si fanno antipatici – anche se grillini?

Ma, dopo tutto, che cos’è un essere schwa?

E una donna?

 

Perché la stupidità si fa legge?

 

La stupidità è imbattibile?


spock@antiit.eu

L’amore è cieco

“Amo tutto quello che amo”, diceva Colette, che possedette gatte, cagnolini, duchesse e uomini barbuti. Per un motivo analogo Angelo Torretta, di professione verduraio, non aveva creduto ai carabinieri, quando avevano detto di averla trovata a Roma in una casa d’appuntamenti in un seminterrato di via Sistina. Non ne parlarono nemmeno fra di loro. Evelina era giovane allora, e il sesso si godeva nell’amore, non per soldi con estranei. Né quando i carabinieri vollero farle un processo quale tenutaria di una casa in via Boncompagni, dove arrivava ogni mattina dal paese ai colli. Evelina si occupava all’epoca con cura di lui, che aveva battuto la testa cadendo sotto un’auto sulle strisce, con l’assicurazione e con l’avvocato non solo, ma accudendolo nelle ricorrenti stanchezze, senza mai una lamentela o uno scatto d’ira, e stimolandolo anzi a nuove voglie.
Il carabiniere Di Michele Angelo aveva ucciso perché i carabinieri in realtà insidiavano Evelina, la accusavano per esserne stati respinti. L’aveva ucciso con la sua propria pistola, del carabiniere. Il che conferma la strafottenza, quasi il senso di possesso, che i carabinieri venivano a manifestare in casa sua. Con questa argomentazione il verduraio Tor-retta confida che il giudice gli riconoscerà la legittima difesa. Non l’ha avuta nei vari gradi di giudizio. Ma continua a confidare in un altro giudice.

La donna è un continente sconosciuto, ha detto Freud, che ci ha fatto sopra una fortuna. Queste vicende sono tracce che vi si perdono.

martedì 2 agosto 2022

Secondi pensieri - 489

zeulig

Arcanum imperii – Potere e segreto vanno insieme non tanto per un bisogno del potere, che anzi a volte si preferisce esibizionista, ma per artificio retorico della narrativa, da Svetonio ai “giornalisti d’inchiesta”. L’arcano è per lo più comunque romanzesco. C’è sempre una società segreta nel genere gotico e nel primo Ottocento, ci sono sempre mafie (organizzazioni segrete) nella narrazione odierna, perfino con voto di scambio, cioè come meccanismo di potere politico, e sono segrete e potenti, anche se normalmente constano di pochi esseri da poco, tanto più segreti quanto meno potere hanno, possono avere. 
 

Attenzione – Simone Weil ne fa il fulcro della sua pedagogia – e della sua stessa personalità. L’educazione all’attenzione dicendo il fulcro della “cultura”, cioè della socialità.
"L'attenzione è la forma più pura delle generosità"
“L’attenzione dovrebbe essere l’unico oggetto dell’educazione”.
“L’attenzione assolutamente pura è preghiera”
Ma è anche vero che senza non c’è comunicazione, scambio – non solo istruzione, educazione, pedagogia.

L’attenzione di Simone Weil è la “cura” (Sorge) di Heidegger, per più aspetti. E questo è interessante: da chi a chi si è fatto il travaso? Non ce n’è bisogno, molte idee possono essere condivise, autonomamente, o essere del tempo, dell’aria. Ma: Simone Weil leggeva Heidegger? Heidegger non leggeva, che si sappia – non ha scambi con i contemporanei, nemmeno con gli allievi: e com’è possibile?


La pedagogia dell’attenzione S. Weil elaborò per l’insoddisfazione della comunicazione scientifica. Lei che in certo modo era nata matematica. La tesi di laurea aveva fatto sulla “scienza” di Cartesio. E di matematica i “Quaderni” dei suoi ultimi anni traboccano, con molti calcoli (molti omessi nell’edizione postuma per non complicarne la lettura). Lei che personalmente, anche nella routine, come la recita di una preghiera rituale, il “Padre nostro”, doveva soffermarsi su ogni sua parola, a costo di ricominciare daccapo. Nella polemica, radicale seppure affettuosa, con l’eminente matematico suo fratello, contesta (contesta al “gruppo Bourbaki” di cui André era parte) l’enunciato primo dei loro “Elements de mathémathique”: “La verifica di un testo formalizzato non richiede che attenzione meccanica”. Ma questo, obiettava Simone, rende l’algebra odierna incomprensibile. Non solo, ma è – attraverso una serie di deduzioni logiche – causa dell’alienazione dominante, fino all’oppressione sociale. Nel testo del 1942, “Riflessione sul buon uso degli studi scolastici in vista dell’amore di Dio”, vuole addirittura l’attenzione il fulcro della ricerca, più che il suo buon esito: “Se con vera attenzione si cerca di risolvere un problema di geometria, e in capo a un’ora si è al punto di partenza, in ogni minuto di quell’ora si è comunque compiuto un progresso in un’altra dimensione più misteriosa”.

 

 

Democrazia – “Atene poteva permettersi di essere democratica solo perché le leghe di Stati che le sono sottomesse le pagano fior di tributi”, Eva Cantarella, “Robinson”, 23 luglio - è un fatto noto, che si rimuove. Come modernamente l’Inghilterra. E, in linea politica, gli Stati Uniti. Ci vuole un po’ d’imperialismo per alimentare la democrazia.
 
La democrazia è una testa un voto? Nella democrazia diretta della polis, specie in quella ateniese, tutti prendevano parte alle decisioni? “Non tutti”, sempre Eva Cantarella: “Molti ateniesi che contribuivano al benessere economico e culturale erano esclusi. Come è il caso dei meteci. Aristotele per fare un esempio illustre non aveva diritto di voto”. Altra nozione elementare che si esclude.
 
Digressione – È – diventa - il modo di lettura dominante, per i link che si disseminano sulla pagina in continuo, per i riferimenti di ogni particolare della lettura. Che secondo lo specialista di “Wired” Melvin Kelly, sono in media dieci per pagina. E fanno quindi la lettura vasta e multidisciplinare, ma disorientante, non un esercizio in concentrazione: pluralistica e comparativamente senza limiti, ma inconclusiva, al limite. “Ci sono circa 100 miliardi di pagine in rete”, scriveva Kelly nel 2006, “e ogni pagina contiene in media dieci links”. Il fenomeno è infatti legato alla digitalizzazione delle conoscenze. A partire dalla biblioteche – Kelly scriveva dopo l’avvio del progetto google di scansionare i libri di cinque importanti biblioteche. E si applicherebbe ai libri digitali, se l’evoluzione porterà in quella direzione, quindi ai libri di lettura - da banco”: “La tecnologia accelera la migrazione di tutte le conoscenze nella forma universale dei bit digitali”. Che è anche l’attrattiva più vera (insidiosa?) e la forma più democratica di diffusione delle conoscenze.
I benefici dell’accesso digitale Kelly vede estesi figurativamente all’universo mondo, a “studenti del Mali, scienziati del Kazakistan, vecchi del Perù”. Senza più separazione dei linguaggi, barriere, ostacoli: “Nella biblioteca universale nessun libro sarà un’isola”. E: “Una volta che un testo è digitale, i libri trasudano dalle loro rilegature e si intessono fra di loro”. Con la conseguenza che “l’intelligenza collettiva di una biblioteca ci permette di vedere cose che non riusciamo a vedere in un libro singolo, isolato”.
Quindi, andiamo a una democrazia digressiva – che si occupa di novità, instabile? A giudicare dalle prime elezioni a effetto “social”, se non “biblioteca universale digitale”, negli Stati Uniti nel 2016 e in Italia nel 2018, sì.   
  
Materia – Resta sempre oscura. Le immagini iperboliche di Webb, dove “si vedono” miliardi di galassie, a miliardi di anni luce, sono un’acquisizione piuttosto verso il mistero che verso la conoscenza – che il mondo fosse di miliardi di galassie si sapeva, “vederle” non è un passo avanti, ci riduce all’Incantato del presepe. Miliardi, anche, sa di grandezze forse immaginabili, sicuramente sta per non misurabili – non che abbiamo senso, se non dell’ignoto.
 
Odissea – Ma è il viaggio del non-ritorno. Del tentativo di evitare il ritorno, di divagare – ricercare? Le astuzie di Ulisse sono per ritardare il ritorno, nelle circonvoluzioni più insensate prima di approdare a Itaca. Anche se poi ci sono le mozioni degli affetti, il cane Argo, il servo Eumeo, il figlio avventuroso Telemaco, la moglie fedele malgrado l’assedio. O allora una celebrazione della famiglia come un rifugio di comodo per qualche minuto di stanchezza. Senza impegno di Ulisse.
Ulisse non parla. Si sa che progetta, dispone, ordina, ma non parla. Non c’è un discorso di Ulisse.

zeulig@antiit.eu

“Una vita violenta” trent’anni prima

Singolare anticipazione, nel nome del protagonista, nella condizione di lumpen (operaio ridotto a barbone), violento per essere debole, debole e quindi sovrastato, e nella fine comune, del Tommasino Puzzilli del secondo romanzo romano di Pasolini, “Una vita violenta”. Con uso esteso anche qui del dialetto (torinese, langhigiano) per i dialoghi e i pensieri del proletario, se non borgataro, Masin. C’è perfino, anche se non diretta come in Pasolini, l’urgenza sessuale.
Questo di Pavese è un romanzo di due Tommasi diversi, in quattordici racconti, in parallelo, sette per uno - inframezzati da poemetti in versi, “blues”. Inedito, ritrovato in una stesura definitiva con la data 9 febbraio 1932, pubblicato nel 1968 da Einaudi nelle opere di Pavese, nel volume dei “Racconti”, e l’anno dopo in volume autonomo, con una recensione di Geno Pampaloni nelle due bandelle a modo di risvolto.
Un Supercorallo che meriterebbe più fortuna. I due Tommasi sono, a specchio, più o meno coetanei, con due esperienze di vita diverse. L’inurbato che vive la vita disimpegnata dello studente, gite in baca, passeggiate, ragazze, discussioni di sommi principi. E l’operaio di città che si licenzia per cercare fortuna in provincia, finendo inselvaggito nelle campagne di Santo Stefano Belbo - dove Pavese è nato e cresciuto.
Cesare Pavese,
Ciau, Masino

lunedì 1 agosto 2022

Attaccati agli Usa – che ne facciamo degli Slavi 2

L’Iran annuncia che ha la bomba atomica – cosa di cui peraltro nessuno dubitava. E il Kossovo vuole i serbi residui del Nord senza più autonomia, kossovari e basta. Ci saranno discussioni sulla ragione e il torto, in entrambi i casi, ma un fatto è univoco: l’Europa non ci sta per nulla – non ha testa, non ha stamina.
È questa la conclusione, per paradossale che sembri, della Farnesina. Il ministero degli Esteri, che fa dell’Europa il suo interlocutore primario, in armonia con le scelte parlamentari e governative di politica estera, è da qualche tempo, da marzo, dalla guerra russa all’Ucraina, sintonizzata sugli Stati Uniti. L’Europa, si dice in romanesco, non ci sta a capire nulla – non c’è.
Nel 1999 l’Europa fece una guerra, senza saperlo, voluta da Clinton, alla Serbia in favore di un Kossovo da creare, anche se di irredentismo recentissimo e dopato, dagli stessi Stati Uniti. Due o tre mesi di bombardamenti, quotidiani. Era l’ultimo atto della guerra agli slavi del Sud (“jugoslavi”), da lanciare gli uni contro gli altri su basi tribali, e poteva avere una sua logica, seppure abietta. Ma ora, con la guerra guerreggiata in Ucraina - e che guerra? Dopo nove anni di missione europea di pace in Kossovo? Con 4 mila militari, per un sesto italiani, per cercare di salvare i serbi che vi sono residui? E ancora: nel 1999 la Serbia era ancora quella di Milosevic, l’ultimo dittatore ex sovietico, ma ora, con l’europeista Vucic? Sono tanti interrogativi a cui la Farnesina non trova risposta, e nel dubbio si arrocca su Washington.
Lo stesso per l’Iran. C’era una trattativa, garantita dai cinque membri permanenti del consiglio di sicurezza dell’Onu più la Germania (5 + 1), quindi da Francia, Gran Bretagna e Germania, per prevenire l’atomica iraniana. Che ha operato con la notevole assenza dei tre europei. Hanno deciso Stati Uniti, Cina e Russia. E poiché gli Stati Uniti si sono ritirati dalla trattativa, Russia e Cina sono andati avanti col programma degli ayatollah. Si attribuisce il ritiro degli Stati Uniti al temperamentale Trump, ma Biden non ha fatto nulla per riaprire il negoziato – c’è una continuità di fondo, istituzionale, in alcune politiche degli Stati Uniti. E dunque, nel dubbio, e con un governo di affari correnti, guardare a Washington. Incrociando le dita - la fase attuale degli Stati Uniti, con una presidenza debole, l’inflazione, e la minaccia di recessione, potrebbe non escludere un’altra guerra: non in Iran, che è inattaccabile, ma alle porte dell’Italia sì.

 

 

 

Appalti, fisco, abusi (221)

Si sia correntisti di una banca che fa acquisizioni, per esempio Bper – dopo le stagioni di Unicredit e Intesa è la più acquisitrice. Si viene trattati male e malissimo in qualunque filiale, delle banche acquisite, Sardegna, UnipolSai, Ubi, Genova, Carrara, e della banca stessa. Avviene nel sistema Bper come già in Intesa e poi in Unicredit: le acquisizioni significano ristrutturazioni, anche nella banca acquisitrice, e il personale si dà assente, per cercare prima del licenziamento possibile altra occupazione, oppure è indisponente. Licenziamento è forse termine improprio, ma la sostanza non cambia, è insicurezza per tutti: “scivoli”, a cinquant’anni?, prepensionamenti da miseria, chiusura di filiali, spostamenti.
Il m&a è il business in auge delle banche, grazie alla promozione delle stesse banche d’affari che gestiscono il lucroso business, e dominano l’informazione economica, ma con che efficienza?
 
In parallelo con l’m&a le banche portano avanti l’efficientamento digitale. Ma anche qui senza cura del personale, che spesso è indigente quanto il cliente. Il digitale affidando in outsourcing, a specialisti che hano interesse a moltiplicarlo e diversificarlo, anche inutilmente, a intervalli sempre più ravvicinati, quasi sempe con la promessa di maggiore sicurezza, che invece induce maggiore insicurezza – la modifica ricorrente delle procedure à bestiale.
 
Ci si trovi in viaggio, il sabato e la domenica il bancomat non sarà accettato dalle maggiori catene di terminali, Poste, Intesa, Unicredit – e Bpm, Popolare di Sondrio, etc.…. A Roma, nell’ampio quartiere Trastevere-Monteverde, l’accetta solo il Banco Desio, in una stradina di transito, non commerciale, fratelli Bonnet. Non c’è motivo per cui uno sportello possa rifiutare una tessera bancomat. Però succede, di sabato e di domenica.
Si provi ad accedere alla carta di credito per avere l’estratto conto, per esempio di Bpercard. Il Banco di Sardegna, delegato alla gestione carta, vi nega l’accesso – non per un’ora o un giorno, per settimane. Il numero verde della banca non se lo spiega, e la cosa finisce lì, non gliene frega nulla a nessuno.

Si provi a utilizzare i servizi online di Poste. Al momento del pagamento, a meno che non abbiate un Postepay non c’è maniera di pagare. Col duplice avviso: 1) “Non è stato possibile inoltrare il pagamento. Riprovare più tardi”, 2) “Terminale non attivo. Riprovare più tardi”. Lo stesso per il servizio telefonico di Poste, 186 - più ridicolo che indisponente (la scelta effettuata non è corretta, dice la vocina, di qualsiasi scelta....).


Un’economia di servizi? Un’economia di mercato? Poste potrebbe benissimo dire subito che il servizio online o il 186 sono momentaneamente sospesi, ad agosto per esempio. E far risparmiare tempo ed energie agli utenti. Ma non lo fa, perché il contratto di Programma col governo la obbliga a quei servizi. Così il disservizio diventa doppio, ma Agcom può fare finta di niente, tutto funziona – eccetto qualche caso, il vostro.

Poste Italiane “consegna” le raccomandate lasciando l’avviso in cassetta – quasi sempre non nella cassetta del destinatario ma in quelle semiaperte che i condominii mettono fuori per le stampe commerciali. Si fa pagare 6 euro per non consegnare una lettera da 20 grammi – una cifra incomparabile con quanto si paga un rider, che deve sudare o pagarsi il carburante, per un peso sostanzioso.

L’avviso serve da notifica legale – l’avviso lasciato dal postino-che-non-suona ha valore legale. Tutto quanto è connesso alla raccomandata, termini, scadenze, intimazioni, è lasciato a un foglietto volante, abbandonato dove capita. Agcom ogni tanto multa questo o quell’ufficio postale o centro di distribuzione di Poste Italiane per omessa consegna di atti giudiziari. Ma il foglietto vagante fa ancora legge.

Il Sahara salvato dalle acque – l’illusione

Una “setta” di ragazzi sta organizzando il futuro dell’Africa, fuori dalla povertà e lo sfruttamento, attorno a un progetto biblico, inondare il Sahara. Accortamente dosata fra etnie parigine: francesi, arabi, africani. Per questo accumulano rubando in casa, gioielli, vestiti, vini e quant’altro sia di valore, asportabile. Noi seguiamo uno di questi ragazzi imberbi, specialmente dialettico, e i suoi genitori, lo stesso Garrel e Laetitia Casta. I quali, increduli, decidono di seguire il figlio nell’avventura, di sapere se non altro di che cosa si stia parlando.
Un film che, per le sue nobili intenzioni, è stato a tutti i festival, Cannes, San Sebastiano, Roma, Toronto. Labellato come “il genere Truffaut”, che però aveva ben più complesso approccio con i bambini. Oppure ascritto a Jean-Claude Charrière, sua ultima fatica – lo sceneggiatore di “La piscina” è deceduto a lavorazione avviata. Quindi una fiaba ecologica, una delle fiabe filosofiche di Charrière, “Les Philo-Fables pour la Terre”, del 2015. 
Come racconto è piatto, e come fiaba è però da ridere - non lo è ma lo sembra. Di genitori ricchi (i gioielli e i vestiti “rubati” dal figlio), dipendenti dal figlio, che invece cresce arrogante, anche solo per insicurezza, come tutti gli adolescenti. Che culmina con lei in sahariana, in Africa, in “escursione nel deserto con dromedario”, che vede da lontano rifluire l’azzurro delle acque sopra la sabbia, nell’incredulità del capo-cammelliere – “è un’illusione, è un’illusione”.
Louis Garrel, La crociata, Sky Cinema

domenica 31 luglio 2022

A Sud del Sud - l'Italia vista da sotto (498)

Giuseppe Leuzzi

“Al Sud si dice: se vuoi stare bene, lamentati”, Franecsco Merlo a una lettrice su “la Repubblica”. In quale Sud – che pure non è segreto, né misconosciuto?
 
Ha molto “Sud” Pasolini appena arrivato a Roma, negli articoli di giornale che scriveva per guadagnare. Venendo dal Nord. Ha i “dialetti meridionali” – non da futuro filologo, evidentemente. Il primo “ragazzo di Monteverde”, che lieviterà nei “Ragazzi di vita”, ha “zigomi leggermente meridionali” – chissà come Pasolini avrà considerato i suoi. A un certo punto vede attorno a Roma “i monti ondulati a catena, allineati, del Meridione”. Il primo trattamento de “La ricotta” finisce in “un mucchio di parenti maschi venuti da Sardegne e da Calabrie, neri, ancora, e torvi, perduti come lupi nella loro alloglossia” – che del calabrese un filologo non potrebbe dire, essendo in tutte le sue declinazioni neolatino, prevalentemente.
 
C’era già il “tripolìn”, “il Napoli” a impestare Torino, un musicista melodico, quando Pavese scriveva il suo primo romanzo, “Ciau, Masino”, nel 1932.
 
Nel cazzeggio fra giovani “studenti” svagati che infioretta buona parte del primo romanzo di Pavese, “Ciau, Masino”, 1932, rimasto inedito, l’intelligentone del gruppo, “l’ebreo” Hoffman, argomenta il razzismo cone una forma di campanilismo – la “napoletanità” o la “sicilitudine” di oggi, in questo caso la “piemontesità”: “Non esistono le razze in quanto si tratta di essere intelligenti, gli uomini sono uguali in dignità. Ma è quando non si pensano, si dicono fregnacce e si ripetono pregiudizi che ci si differenzia. Voi a forza di ripetervi che siete solidi e quadrati e che vivete in certi modi”, dice agli amici, “finite di vivere sul serio in questi modi, e fate i tipi, senza accorgervi delle cose più importanti che c’è al mondo”.
 
Ci sono due Masino in quello di Pavese, uno “studente” spensierato (la vita a Torino), e uno operaio sfortunato (Santo Stefano Belbo, allora non Langhe da cartolina) A un certo punto Masin fra le tante disgrazie ci mette le scuole: “quel vecchio bischero della botanica”, e il professore d’italiano e storia, che leggeva come “uno sposo giovane”, facendo incazzare i ragazzi. “Garibaldi, ‘na rôla – una volta, mentre lo sposo declamava il Carducci, un compagno aveva borbottato, - l’ha mach fane ‘l regal ‘d côj terôn, Garibaldi -. Ed era stata una grande verità per Masin”.
 
Ulisse calabrese, sessuomane
L’ultimo agosto pre-covid, nel 1919, la Regione Calabria e il comune di Siderno hanno festeggiato Lawrence Ferlinghetti, il poeta italo-californiano, per i suoi 100 anni, riaprendo per l’occasione il borgo semiabbandonato originario del paese, Siderno Superiore. Con una mostra pittorica, di suoi schizzi, e “una serie di incontri culturali”, diceva il programma, “reading di poesia, presentazioni di libri, concerti, performance, laboratori di lettura e scrittura dedicati ad adulti e bambini, organizzati con la collaborazione delle associazioni del territorio”. Una manifestazione a cura di Elisa Polimeni, organizzatrice di eventi culturali, videomaker, fotografa, curatrice dell’archivio pittorico di Ferlinghetti, e di Giada Diano, biografa e traduttrice di Ferlinghetti.
La biografia di Ferlinghetti Diano intitola “Io sono come Omero”. In Calabria, “in uno dei suoi ultimi soggiorni”, Ferlinghetti aveva realizzato una seria “Ulisse calabrese”, in chiave erotica – “ironica e moderna”, dice la curatrice: Ulisse indugia, prende tempo, rimanda, perché impegnato in imprese amorose. E Ferlinghetti mandava a dire: “Questa rivelazione delle attività sessuali clandestine di Ulisse nel corso del suo famoso tour del Mediterraneo aggiunge un nuovo capitolo all’Odissea di Omero. Ecco la storia nascosta di Ulisse e delle sue avventure amorose notturne in Calabria. Naturalmente nessuno sa esattamente quante donne egli abbia amato in estatici incontri. (Di certo ha superato di gran lunga le attività sessuali notturne di Leopold Bloom dell’Ulisse di James Joyce)”.
Potrebbe essere un’alternativa: dare un’alternativa a giornalisti e giudici, dovendosi parlare di Calabria - se non fosse che Calabria era in antico, ma Ferlinghetti poteva passarci sopra, fino a impero di Oriente inoltrato, quando un paio di emirati vi si installarono, spingendo Bisanzio a spostare il nome sul vecchio Brutium per non perdere il brand, il Salento della parte alta, verso Brindisi, quella dei Calabri della lapide di Virgilio a Piedigrotta.
Era la seconda o terza celebrazione di Ferlinghetti pittore in Calabria. La prima, organizzata sempre da Diano e Polimeni, a Reggio Calabria nel 2010, “Lawrence Ferlinghetti: 60 anni di pittura”, una mostra di pittura a cui Ferlinghetti aveva voluto presenziare, malgrado l’età avanzata, grato di un’esposizione dei suoi quadri e disegni, in Italia. E qui forse, in riva allo Stretto, era germogliata l’idea dell’“Ulisse calabrese”. La seconda celebrazione, un anticipo di quella di Siderno, era stata organizzata due anni più tardi, sempre ad agosto, sempre da Diano e Polimeni, al castello di Federico II a Rocca Imperiale, superbo borgo al limitare della Basilicata. Un’altra personale di pittura di Ferlinghetti, già intitolata a Ulisse, “Sulla rotta di Ulisse”. Un evento cui il festeggiato partecipò da remoto, in videoconferenza. Illustrato da un prezioso cofanetto limited edition, bilingue, con disegni e versi di Ferlinghetti, “The Sea within Us”, “Il mare dentro di noi – Sulla rotta di Ulisse”. Con prefazione di Jack Hirschman – un poeta, cultore di Pasolini, più giovane di una decina d’anni, che morirà nel 2021 qualche mese dopo Ferlinghetti.   
 
Sotto il segno del Toro
Maristella Lippolis chiama Roma nel suo primo romanzo (“La notte dei bambini”) Tauersiti, una parola mezza maccheronica e mezza inglese, che all’incirca vale per città taurina – nel 2070, ma già s’immagina oggi. Pamplona, col covid e tutto, non si priva di farsi cacciare dai tori infuriati. E si scopre che la corrida si esercitava, e si celebrava in dipinti, a Siena, in centro città, chiamandola “caccia”. A metà Quattrocento: sicuramente nel 1468, e forse anche prima, nel 1466, e anche dopo. Roberto Barzanti lo documenta sul “Corriere della sera-Firenze” (“La «Corrida» dei senesi”): due tele di Vincenzo Rustici, di proprietà degli Uffizi, in deposito nella collezione del Monte dei Paschi, hanno per tema la “caccia” del 15 agosto 1546. Sempre nella piazza del Campo, poi arena del palio equestre.
La tauromachia, sport tra i più assurdi, combattere a mani nude contro un toro, perpetua il vecchissimo culto del toro, pre-ellenico (minoico? miceneo?), animale-totem, personificazione della forza. Nel Mediterraneo è forse il toponimo più diffuso, sicuramente al Sud Italia. Che per questo però non è più forte – forse lo era?  
 
Il nome Italia designava originariamente un piccolo distretto della Calabria odierna”, è l’incipit di una benemerita indagine sul nome delle nazioni, che Livia Capponi presdenta su “La Lettura” di domenica di un mese fa, 3 luglio), “dove un popolo di lingua osca adorava il vitello (vitlu in lingua osca, vitulius in latino), che era la «terra dei tori»”. Con qualche imprecisione: Calabria era, è stato fino al nostro secolo IX, il Salento settentrionale, verso Brindisi e Taranto. La denominazione ricorre già in Erodoto, e in Ecateo di Mileto, quindi nel V secolo. Gli Enotri, “popolazione la cui collocazione storica è discussa”, sempre Capponi, entrano in ballo forse con lo storico Antioco di Siracusa, figlio di Senofane, il filosofo, che si sa essere stato autore di un libro sull’Italia.
Tardi, una moneta datata 90 a.C. a Corfinio in Abruzzo “mostra una personificazione dell’Italia come una dea, accompagnata dalla leggenda Italia in latino, e dall’equivalente Viteliu in osco”. Il nome intanto era arrivato a “indicare l’intera penisola, dalla punta dello stivale fino ai fiumi Arno e Desino” nel 300 circa a.C. - “in un momento imprecisato precedente alla Prima Guerra Punica (264-241 a.C.) – e poi, un secolo dopo, arrivò a includere tutto il Settentrione fino alle Alpi”. O non dopo ancora, dopo la sconfita dei Galli celti a opera di Cesare?
Resta da spiegare il mito vaccino, del vitello-toro. A mano di non dire l’Italia vitello e il Sud toro. Ma in memoria di che?
 
Milano
“Flash art” – “storica rivista di arte contemporanea, dal 1967 sismografo attivo dell’arte contemporanea”, seleziona dieci artiste per “d”, il settimanale di “la Repubblica”. Sette sono di Milano e dintorni. L’ombelico del mondo, senza ironia.
 
“Io sono filo leghista. Bossiano. L’unità d’Italia è stata un errore” – Fedele Confalonieri, l’amico più intimo e il consigliere di sempre di Berlusconi, si diverte spiegando a Cazzullo sul “Corriere della sera”.
 
Fa senso l’alter ego di Berlusconi, suo amico d’infanzia e di piano-bar (quando facevano i piano- bar), suo manager fidato, che fa professione di leghismo bossiano, separatista, antimeridionale viscerale. È il lombardismo, dissimulare e operare. Ma è anche un Sud come Bossi lo dice, incapace e inerme, che ha stravotato Berlusconi, e ora direttamente vota Lega.
 
Confalonieri, presidente dell’Opera del Duomo, ha di Milano una percezione milanocentrica: “Fisicamente non è una metropoli, ma della metropoli ha l’anima. Come Parigi, Londra, New York.  Generazioni di persone sono arrivate qui dal resto d’Italia e del mondo e sono diventate milanesi”.
 
“Milano romantica” è un titolo di Antonio Monti. È la Milano 1818-1848. Il romanticismo italiano è stato milanese – tuttora, Milano è ancora romantica, vive nelle nebbie?
 
Le mani sui fianchi, la giudice Alessandra Dolci, capo dell’Antimafia della Procura di Milano, arringa il consiglio comunale di Milano in seduta speciale: c’è la mafia. Non quella dalle mani sporche, quella che “risolve ogni problema”, riferisce il “Corriere della sera”. Un siciliano, un calabrese, che risolve i problemi dei milanesi?
 
No, è che i milanesi s’industriano nell’illegalità: “Otto volte su dieci è l’imprenditore che cerca i servizi del mafioso, perché è un modo semplice per alterare le regole del mercato,”, etc, etc., la mafia fa fare affari, la mafia crea lavoro, il solito repertorio. Ma, e dunque: perché non arrestiamo gli imprenditori milanesi, se questi mafiosi sono inafferrabili?
 
Secondo la giudice Dolci, sempre secondo il “Corriere della sera”, “è la ristorazione il vero business delle associazioni mafiose, che in questo settore reinvestono gran parte del capitale proveniente dal traffico illecito di droga”. C’è un traffico di droga lecito? Ci sono “associazioni” mafiose? E la droga, perché non cercarla a Milano, che ne è la più grossa consumatrice in Europa? Magari al ristorante.
 
Mentre la dottoressa Dolci parlava, i Carabinieri di Busto Arsizio, poco lontano da Milano, individuavano a Lonate Pozzolo, praticamente Milano, una “cupola della droga”, senza mafia, non italiana, trenta piazze di vendita, nei “boschi dello spaccio” e altrove, nei soli dintorni di Varese, e “il fenomeno” dei “pusher a chiamata”. Con tutte le piaghe connesse: la prostituzione per la dose, il tfr per la dose, la violenza domestica per la dose.
 
Caterina Sforza la sua Forlì ha celebrato come “l ’anticonformista”, in due giorni di commemorazione – “sua” per eredità dal marito, essendo appunto nata Sforza, milanese, che però si tenne stretta Forlì, contro un papa “guerriero” come e più di lei, Giulio II, e altri malintenzionati. Venendo però dall’iperconformismo: a nove anni era già sposa a Girolamo Riario, di nient’altro capace che di essere nipote del papa regnante, Sisto IV – a venticinque vedova con sei figli. Maritata dal padre, il duca di Milano, peraltro celebrato, Galeazzo Maria.

leuzzi@antiit.eu

Libertà di violenza, tra indifferenza e buona condotta

Lo strangolatore di Civitanova Marche – la vittima l’ha finita con le mani – si dice, o dice per suggerimento del suo avvocato, bipolare, un violento istintivo. Anche se il suo assassinio è durato quattro minuti, che sono un tempo infinito: un bipolare avrebbe difficoltà a essere così ostinato.
Ma non di questo merita parlare – ci saranno dei precedenti, delle cartelle cliniche. Il delitto resta sconvolgente per l’indifferenza, della gente e della legge.
Quattro minuti sono un tempo lunghissimo per un’emergenza. C’era molta gente a osservare, nessuno è intervenuto. La stessa ripresa che si diffonde della scena è raccapricciante: quanta calma, esattezza, taglio, nel video, che pure era di un pestaggio, lungo, interminabile, fino alla morte. Questo in una città e in un paese che non ha particolare propensione criminale, statisticamente.
La legge considera questi delitti di odio, benché aggravati dal razzismo, con benevolenza. Luca Traini, che a febbraio 2018, in contesto analogo, in campagna elettorale, solo a Macerata invece che a Civitanova, inseguì a lungo gli africani per strada in macchina, sparando con una pistola automatica e ferendone sei, è stato condannato a 18 anni, ridotti a dodici per il rito abbreviato, che comunque ancora per poco, per “buona condotta”.

Hamsun antiborghese

Un romanzo “borghese”, di chiacchiere, affari e corna, in una città di mare senza mare ma di commerci, tra poeti, scrittori, giornalisti, pittori, grandi avvocati, e commercianti giovani e avventurosi, loro sì. Nient’altro accade che le loro conversazioni, al caffè - “tutti insieme «abitano» il caffè”, e “in questa città non è possibile incontrare le persone in casa, stanno sempre al caffè” – con qualche gita in mare, e le case in campagna, dover non vanno. L’unico filo è una borsa di studio governativa che i più giovani si contendono, i pittori e i poeti, spiantati, mantenuti, l’uno quindi contro l’altro, ma senza animosità. Nemmeno negli adulteri, quelli consumati e quelli respinti. La seconda parte si intitola “Le cose maturano”, ma di poco o niente, un affare andato male (una speculazione fallita sulle granaglie russe… ), ma poi recuperato, e un paio di adulteri deboli, superficiali.

Si potrebbe pensare la storia di due donne giovani e sventate. L’una moglie l’altra fidanzata, di due giovani generosi e onesti commercianti, giudiziosi. Invaghite di poeti da caffè, che le circuiscono per i soldi del marito e del fidanzato. Quindi antifemminista? Nemmeno questo. Antiborghese, questo sì – il futuro hitleriano nasce antiborghese, il primo di un filone, come avverrà di Céline, di Pound, di Drieu. Ironico e non aggressivo, ma costante.   

Un diverso Hamsun, non legato alla terra, né alla povertà. D’intreccio e linguaggio piano – ripetitivo, inconsistente, insignificante - e non coinvolgente, Che palesemente non approva lo stile di vita dei suoi intellettuali ma non lo dice, lo rappresenta, in conversazioni interminabili non risolutive. A specchio dell’egotismo di ognuno, per quanto minimo. A tratti anche dolente, come di commiserazione per un mondo vuoto.

Ma è anche inquietante, malgrado tutto: se non fosse datato, si direbbe di oggi. La politica è indifferente, le donne insoddisfatte, e non sanno perché, e più spesso single, si vive fuori, ognuno per sé, non c’è scambio nelle conversazioni. Si dice che “in politica non bisogna mai perdonare, bisogna vendicarsi”. E gli scrittori, specie i giovani, sono “avari, aridi e accorti”.

Si ripubblica, con adattamenti lessicali, la traduzione del 1942, di Longanesi: Hamsun doveva essere nell’Italia di Mussolini in guerra Gran Scrittore, se se ne traduceva anche questa critica della dolce vita.

Un romanzo del 1893, a 34 anni, pubblicato a Copenhagen, tre anni dopo “Fame”, che aveva consacrato Hamsun autore di successo. Un romanzo della borghesia intellettuale, in una “città di mare” non nominata, ma Kristiania-Oslo per vari riferimenti. In linea con quanto si produceva a Parigi nel cosiddetto Fine Secolo, contemporaneo de “Il piacere” di D’Annunzio, della sua “Trilogia della rosa”. Ma su tono ironico, seppure accennato, critico. Un romanzo “costruito”, che mima la superficialità e vuotaggine del mondo che racconta. Impervio, non il solito Hamsun che trascina, seppure col minimalismo: non apprezza, e anzi disistima il mondo che rappresenta, con a sola eccezione dei commercianti, ed è tutto dire.  

Knut Hamsun, La nuova terra, GM libri, pp. 317 € 18