La
fascetta editoriale propone il libro come “Monteverde nella vita e nell’opera
di Pasolini”. E questo c’è, anche nella documentazione fotografica che arricchisce
il libro: Pasolini ci ha vissuto alcuni anni, ci ha ambientato il suo primo
romanzo, “Ragazzi di vita”, ci ha intessuto rapporti stretti con altri letterati
che sentiva vicini e abitavano il quartiere, i Bertolucci, suoi condomini, e
Giorgio Caproni, di sfuggita anche Gadda. Con scambi antologici ottimi, che Capitolo
documenta, fra i tre monterverdini di più lungo periodo, Caproni, Bertolucci e
Pasolini. Con le amabilità del luogo, villa Sciarra soprattutto, e il parco del
Gianicolo. Ammirate, ma non a occhi chiusi, da queste eccellenze intellettuali immigrate:
“La «spina della nostalgia» che tormenta Caproni accomuna gli amici scrittori
di Monteverde. Roma è per tutti amore e disamore”.
Tutti
sono immigrati a Roma, quelli di Monteverde – compreso Rodari, che non fa parte
della cerchia: di loro volontà, ma con inevitabili riserve. Forse così è sempre
stato, Roma è città di meteci, anche intellettuali. Capitolo richiama Catullo e
Virgilio, ma quanti a Roma non lo sono stati? E la città vivono gradevole, ma
dall’esterno, come osservatori. A Monteverde (peggio ancora, per Pasolini, all’Eur)
più che altrove. Per esempio i Parise, Arbasino, Malerba, La Capria, Citati, lo
stesso Calvino, del Centro Storico o dei Parioli, invece non se ne fanno
problemi.
E
dunque? Ma prima di venire al dunque, bisogna dare atto a Capitolo di una
lettura fra le più pregne, anche invoglianti, fra le tantissime in circolazione
su Pasolini, nella seconda parte del libro: “L’ossessione del sacro e della
morte”, e ci si potrebbe fermare qui, ma d’obbligo sono anche “La Nuova
Preistoria”, del radicale deluso, e “Spes contra spem” - che è la fede,
malgrado tutto, nel futuro…
Capitolo
ritesse la favola di Monteverde Vecchio, forse veritiera in chiave storica,
negli anni 1950: ma allora non è quella di “Una vita violenta”. Quartiere
ibrido, di provenienze, generazioni, linguaggi, che una certa vulgata vuole resistenziale,
forse nella memoria della Repubblica Romana che qui ebbe l’estrema difesa. Ancora
popolare, specie settant’anni fa, sempre secondo la vulgata, nella sua parte
nuova, quella del romanzo di Pasolini, attorno a via di Donna Olimpia. Nonché
robustamente antifascista per essere stato luogo di deportazione di Mussolini quando
abbatté “i borghi”, attorno a san Pietro, per costruire via della Conciliazione
- e, va aggiunto, chissà perché questo si trascura, per “risanare” Trastevere
liberandolo dei “ladroni”, di cui cementava le porte. Impresa impossibile, sia
detto, quest’ultima. Ma non è questo che importa qui, il fascismo e
l’antifascismo. Sia Donna Olimpia sia Garbatella, altro quartiere cresciuto con
le “deportazioni”, erano soluzioni urbanistiche: studiate, con asilo, scuola,
ospedale, e case d’architetto: ancora oggi le “case popolari” dei Quattro Venti
e Donna Olimpia a Monteverde sono tra quelle che fanno migliore figura e più
quotate.
Il
quartiere nell’insieme era ed è modesto, il Nuovo e il Vecchio, di piccola
borghesia si direbbe. Un tempo ben governato, e ben servito. Mentre oggi,
seppure magnificato, si presenta sporco e afflitto, trascurato, da tempo, si
cammina sui marciapiedi rotti tra cartacce, ortiche e deiezioni animali, e isolato:
non ha più praticamente mezzi pubblici con la città, con la quale invece era
molto ben collegato, il Nuovo e il
Vecchio, col famoso 75 di Gianni Rodari, filovie, tramvie e ottime
corrispondenze, ma da tempo non lo è più - a opera di una giunta di sinistra, se
serve saperlo, assessore all’Urbanistica uno del quartiere…. E senza carattere,
altro che Resistenza, solo bell’aria, coi grandi parchi, Pamphili, Gianicolo,
Sciarra , che però non si amano e poco si curano – la grande Accademia
Americana, e molte grandi residenza diplomatiche, .
Non
era così nel 1960, ecco il dunque. E nemmeno nel 1950: la Donna Olimpia di
Pasolini è un’invenzione, un luogo immaginario dove ambientare il picarismo dei
“ragazzi di vita”. Capitolo lo sa: “Un mondo, quello della borgata, amato dallo
scrittore, ma estraneo alla sua condizione borghese” – che Pasolini ha
costruito anzi con cipiglio. Per cui “i suoi sentimenti si confondono in una
contraddizione che non avrà mai fine”. Che oggi si può anche dire, non è più
tabù. Capitolo vi accenna, facendo propria la definizione immediata di
Contini, che non subiva censure, di “Ragazzi di vita” come di una “una
dichiarazione d’amore” – o come, censorio,
disse Salinari: “Pasolini sceglie apparentemente come argomento il mondo
del sottoproletariato romano ma ha come contenuto reale del suo interese il
gusto morboso dello sporco, dell’abietto, dello scomposto e del torbido”..
I
pischelli, i regazzini, sono i personaggi di tutte le narrative romane di Pasolini
– un’ossessione, si direbbe, fino a “Petrolio”, ma conviene non allargare
l’obiettivo. E Donna Olimpia un luogo che “Una vita violenta” sostituirà con altri, forse con
maggiore veridicità, non si saprebbe dire. Ma Donna Olimpia come set dei “Ragazzi di vita” è di Pasolini.
Questo è importante perché è una favola
che Pasolini racconta, sotto il realismo inteso come deiezione. E come tale
oggi solo si può rileggere, come “Uccellacci e Uccellini” e le tante altre
fantasie filmiche . con una dose di buona volontà. Come “documento” è poco (niente) e troppo, indigeribile.
In
parallelo va la funzione e l’esercizio del romanesco: Pasolini parla romanesco
da straniero, dopo averlo studiato e anzi sempre studiandolo nel mentre che vi
si esercita. C’è una strana dissimiglianza fra il romanesco di Gadda, Ingegnere
ben milanese, ben signorile, che è popolare,
romano, naturale e quello irto, puntuto, di Pasolini, anche nelle tante
poesie. Perché Gadda è come Belli, si è calato nella Roma romanesca, per quanto
da lui lontana, con l’ironia bonaria (che è il proprio del romanesco…). Mentre
Pasolini ha continuato a studiarlo fino, si può dire, agli ultimi suoi momenti,
a scovarlo, appuntarselo in enormi repertori, mai autonomizzandosi dal suo interprete
per eccellenza, Franco Citti, o Ninetto Davoli (romano peraltro meteco): il suo
romanesco viene spontaneo come il grammelot
che in contemporanea sviluppava Dario Fo, frutto di mestiere ma non
propriamente dialetto.
Pasolini
è rimasto al di fuori di Roma, benché non abbia fatto che scriverne e
rappresentarla, distaccato. Come lo è stato ed è rimasto con tutte le persone e
gli ambienti con cui è venuto in contatto, Napoli, l’Africa, l’India, Milano,
gli scrittori, i giornalisti, i cinematografari, le tante donne della sua vita –
ma questo è un altro problema, biografico. Qui, partendo da Donna Olimpia e dai
“ragazzi di vita”, basta sottolineare che sono sue “costruzioni”, ambientali e
linguistiche. Morali.
Luciana
Capitolo, Pier Paolo Pasolini. Un giorno nei secoli tornerà aprile, Nova
Delphi, pp. 268, ill. € 14