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sabato 17 settembre 2022

Nostalgia anni 1980, o l’Italia in 3D

Si celebrano gli anni 19080. Del cinema – la spettacolarizzazione della fantascienza, Spielberg, Ridley Scott, Carpenter. Del calcio – il Mundial. Di Reagan – sì, di Reagan. Perfino della moda, perfettina. A opera degli stessi che quegli anni che quegli ani combatterono forsennati. Contro gli yuppies. Contro Craxi e “Milano da bere”. Contro la politica anti-inflazione. Per un “cupio dissolvi” che da allora tiene l’Italia sotto il tallone, avviato giubilanti a fine decade col processo a Sofri.

Succede. Che qualcuno apprezzi una cosa che gli dispiaceva. Molti comunisti erano stati fascisti – intere regioni. Si può anche cambiare opinione, perché no, oltre che il gusto. Ma qui non c’è un esame comparato o critico. E questo per un motivo che fa senso: non c’è altro modello o disegno, programma, ideale, di vita diverso. Si propone la nostalgia degli anni 1980 solo per vendere, come scenografie di campagne pubblicitarie. Di un paese che si volesse di cartapesta – come un tempo erano le scenografie, oggi in 3D: un ologramma.

In foto si viene meglio

Il testo è bilanciato. Ma lo speciale è di “una vita in immagini”. E le immagini sono tutte in qualche modo lusinghiere.

È il destino della foto-ritratto, anche in circostanze o pose difficili, di riuscire comunque essere sempre adulatoria? Confortante, certo, per un mondo in lutto.

Erin Blakemore, Elisabetta II, “National Geographic” pp. 96 € 9,90

venerdì 16 settembre 2022

Letture - 499

letterautore


Marta Abba – “Figlia-musa-amante” definisce Annamaria Andreoli – introduzione a “L’attrice ideale. Marta Abba nella vita e nell’arte di Luigi Pirandello” - la venticinquenne attrice milanese molto determinata e carrierista, del sessantaduenne Pirandello, che per lei si svenerà, creando e finanziando a perdere un Teatro d’Arte a Roma. Amante, per la verità, molto platonica – Abba era frigida, perlomeno con Pirandello. La stessa Andreoli commenta che “Pirandello compensa la castità con i gesti plateali”. E riprende una lettera del figlio Stefano: “Gli sembra che se non dovesse aiutare la sig.na Abba a mettersi la pelliccia o non si precipitasse ad aprirle la porta quando entra ed esce da una stanza, ella dovrebbe morire di freddo o restar chiusa tutta la vita nella stanza medesima”.
 
Bamboccioni – Pirandello e D’Annunzio mantenevano i figli anche in età adulta. Pirandello con qualche sacrificio, che lamentava: aveva “ripudiato” la figlia Lietta, per le esose pretese dotali del marito, il diplomatico cileno Manuel Aguirre, ma manteneva i figli Stefano, scrittore, e Fausto, pittore. Di cui lamentava per lettera, il 19 marzo 1929: “Non possono pretendere che io, a sessantadue anni, seguiti a lavorare giorno per giorno per mantenerli come quand’erano bambini  e io avevo trent’anni; trent’anni, ora, li hanno loro”.
D’Annunzio ha mantenuto i quattro figli fin verso i quarant’anni, con assegni mensili – che definiva “mestruali” (aveva tre figli maschi, Mario, Gabriellino e Ugo Veniero, oltre all’ultimogenita Renata).
 
Codici – Gli scribi non lasciavano spazi tra un parola e l’altra, nota Philip K. Dick, “Valis”, 46, e “questo può portare a molte strane traduzioni”, dal momento che l’interprete-lettore può staccare le parole come meglio crede”. E porta l’esempio “God is no where” e “God is now here”.
 
Fascismo – Irretì, pur in breve tempo, molti ingegni: alla triade canonica di Céline, Pound, Hamsun, si possono aggiungere Pirandello e Bontempelli, lo stesso Malaparte, in Francia Drieu  e Brasillach, i rumeni Éliade, Ionesco, Cioran.
Pirandello fu fascista controvoglia? No, per scelta. Le dichiarazioni in tal senso vanno dal 1923, poco dopo la “marcia su Roma”, al 1935, proco prima della morte.
 
Gelosia – Antonietta Portulano, la moglie di Pirandello, col quale aveva avuto tre figli, già toccata dal fallimento dell’azienda paterna, e quindi dalla perdita della dote, aggravò la sua condizione psicologica deviando le ansie sul marito. Finirà in “casa di cura”, dopo una paralisi “isterica” alle gambe, effetto ed espressione  della gelosia furibonda nei confronti del marito, accomunando nelle accuse la figlia Lietta, per colpa d’incesto.
 
Improvvisazione – Puškin ne fa l’impoverimento e anzi l’opposto della poesia. Nel racconto “Le notti egiziane” ha il personaggio Charsky, un alter ego, ben dotato di beni materiali ma infelice: “La sua vita avrebbe potuto essere la più piacevole, ma aveva la disgrazia di scrivere e pubblicare poesia”. Una “disgrazia” che raggiunge il fondo quando un poeta italiano impoverito bussa alla sua porta. L’uomo vaga improvvisando versi in rima per un pubblico pagante, e chiede assistenza per un’esibizione in Russia. Il personaggio lare sia stato ispirato a Puškin dal suo amico polacco Adam Mickiewicz, poeta e attivista, ma Puškin lo vuole italiano, della tradizione tutta italiana di improvvisatori a tema, in rima. Charsky-Puškin organizza la performance, con la ulteriore sgradita sorpresa che è il pubblico a fissare il tema dell’improvvisazione. Peggio ancora quando l’amico italiano chiede un tema a Charsky-Puškin. Irritato, questi risponde: “Eccoti il tema… ‘Sta al poeta scegliere da se stesso il tema dei suoi canti, la folla non ha nessun diritto di costringere la sua ispirazione’”. E subito il tema viene svolto, in agili ottonari, in termini sorprendentemente elevati.
 
Italiano “finto” – Il linguista Antonelli ricorda su “La Lettura” del 4 settembre l’osservazione di Ugo Foscolo: “Dodici uomini di diverse province che conversassero fra di loro, ciascuno ostinandosi a parlare il dialetto suo proprio, si partirebbero senza saperti dire di che parlavano”. Di dodici province italiane. Di radici latine ma anche osche, etrusche, o semplicemente gallo-celte, e vocaboli greci e arabi.
Foscolo suggeriva, come veicolo, un “linguaggio mercantile e itinerario”. Che Antonelli dice “non molto diverso, in fondo, dal «parlar finto» di Manzoni” - prima evidentemente del bagno nel toscano: “Un italiano incerto e approssimativo”, sintetizza il linguista, “ibridato di vocaboli dialettali, che nei salotti dell’Ottocento prende il posto del milanese quando è presente un piemontese, o un veneziano, o un bolognese, o un napoletano, o un genovese»”. Manzoni era pessimista, si sa, ma si capiscono molte resistenze all’unità. Che è realtà recente, e anche modesta, in termini di durata. 
 
Occhio clinico – Era il distintivo della professione medica, ora svanito sotto il profluvio di esami, analisi, laste, e una selva di specialisti. Era quello del professor Joseph Bell, maestro di Arthur Conand Doyle quando studiava medicina a Edimburgo – sul professore modellato Sherlock Holmes.
 
Ut pictura poesis – Marino Freschi ricorda sul “Venerdì di Repubblica” a proposito dei disegni di cui Kafka si dilettava e che ora si vanno recuperando, una lunga serie – solo in area tedesca – di scrittori che ugualmente disegnavano, dipingevano, scolpivano: Goethe (“i suo disegni sono stati raccolti in un corpus di nove volumi”), Adalbert Stifter, E.T.A. Hoffmnn, Kubin, Hermann Hesse, Peter Weiss, Günter Grass, Peter Handke.
Grass, si può aggiungere, voleva essere scultore. Rifiutato alla smobilitazione dall’Accademia di Dortmund, la fece a Palermo.
 
Pinocchio – Sempre più di attualità in America. Due nuove traduzioni, di Geoffrey Brock per “The New York Review of Books”, e (in edizione critica) di John Hooper e Anna Kraczina per Penguin. Mentre esce le in sala il “Pinocchio” di Robert Zemeckis, un rifacimento con attori dal vivo del cartone animato di Walt Disney, 1940, con Tom Hanks (Geppetto) e Giuseppe Battiston (Mangiafuoco). E si annuncia per fine anno un rifacimento, sempre al cinema, di Guillermo del Toro.
“Pinocchio” è stato fatto al cinema negli Stati Uniti, d’animazione, con attori dal vivo, in tv, in serie, in commedie musicali, almeno una quindicina di volte, più che in Italia – con un “Pinocchio nello spazio”, e uno erotico. In Italia si ricordano i “Pinocchio” più recenti, di Comencini, con Nino Manfredi e Gina Lollobrigida, cinquant’anni fa, di Carmelo Bene a teatro e in tv, e di Benigni, Sironi (con Bob Hoskins Geppetto, Luciana Litizzetto Grillo parlante) e Garrone (con Benigni Geppetto e Gigi Proietti Mangiafuoco).
Quattro o cinque “Pinocchio”, due in cartoni animati, anche in Russia. Due cartoni in Giappone.

letterautore@antiit.eu

Favola delle menti scambiate

Salvatore Esposito, “Totò”, quarantenne tatuato capocamorra che in camera tiene una tigre, viene sparato, mentre Fabiana Martucci, “Rosetta”, dieci anni, alla spiaggia da scuola sull’altalena, cade e batte la testa. Finiscono in coma, si salvano, e capiscono di essersi scambiati – non i corpi, come dice la locandina, ma lo spirito. Seguono vari pasticci. Soprattutto del boss, diventato liliale.

Porporati, sceneggiatore di molte “Piovre”, e di film d’impegno, s’è voluto prendere una vacanza. Ma ne compartecipa lo spettatore. Una fiaba riluttante, con qualche moina di troppo, ma poi è fatta. In ambiente “napoletano”, sempre di vicoli, ma un po’ prosciugato - la chiave è Esposito, il terribile Savastano di Gomorra, che si fa agnello. Anche l’aneddotica, delle “menti scambiate”, che poteva essere interminabile, è contenuta.  

Andrea Porporati, Rosanero, Sky Cinema

giovedì 15 settembre 2022

Lettera da una provincia dell’impero

La pax americana (i.e. l’impero) è tormentata e tormentosa. Forse da potenza riluttante. O forse no, da potenza che si nasconde, per furbizia e colpa insieme.

Per furbizia mascherata da colpa? La frequentazione dei tycoon americani, tanto careful, direbbe di sì.

Non c’è impero nella storia che nasca problematico, controvoglia. Contestativo e divisivo al suo interno.

Le certezze della vittoria del 1945, fino all’uso spensierato della bomba atomica, sono durate poco. In Vietnam, 1970, erano frantumate. Ma già prima, nella “contestazione” (la “disobbedienza civile” di Arendt) erano indebolite. Quelle certezze che, stranamente, fanno la forza della Russia, malgrado il crollo del sovietismo, e ora del panslavismo, frantumato in guerre “civili”, contro i serbi, contro i russi, contro gli ucraini.

L’impero americano è singolarmente analogo all’impero romano nei secoli della repubblica. Litigioso, critico e autocritico, e sempre in espansione, anche di mera prepotenza. Facendosi un dovere di non restare fermo. È la natura degli imperi “democratici”, nei quali il soldato è, in qualche modo, anche decisore? Imperi di repubbliche in armi. Per un motivo (la libertà, la legge) o un altro: le repubbliche vogliono giustificativi, l’imperialismo repubblicano è fatto così. Ipocrita? Si.

Un impero democratico non è forse possibile. A Roma durò proprio contro la repubblica.  Quello inglese è stato più articolato, attorno a un nucleo parlamentare, per natura quindi divisivo, ma unito nel disegno imperiale, animatore per i più diversi motivi di una opinione pubblica costantemente, anche ferocemente, jingoista.

L’impero americano si è dichiarato morto già un paio di volte. In termini militari ed economici col Vietnam, e il dollaro allo sbando, in termini politici con la contestazione, i diritti” e il “trumpismo”. Ancora ieri argomentava di essere sfidato e quasi dominato dalla Cina. Ma sempre è stato occhiuto, selettivo ed efficace nella proiezione esterna, minuziosa.

Esemplare, perfino singolare, la mobilitazione dell’Europa disarmata contro Putin e la Russia. Al punto da spingere la Russia – il mondo slavo è pure grande parte dell’Europa – verso l’Asia. Per non parlare dei controlli minimi, sugli atti singoli, di personaggi anche marginali nell’economia dell’impero (Andreotti, Craxi).

Governare attraverso la crisi è – potrebbe essere – la ricetta: nascondere la mano imperiale dentro un guanto critico e autocritico. Oggi l’America è divisa, fra l’estremismo dei diritti, di ogni possibile minoranza, e quello identitario. Ma ha governato e governa il mondo. Non esimendosi da colpi di Stato, a partire dall’Iran di Mossadeq nel 1953 – un paio di dozzine sono stati contati, in Medio Oriente e in America Latina. Il mondo per altro avendo saldamente governato nella guerra fredda – quello libero, ma anche la Cina, e poi il Vietnam. E dopo, da trent’anni, dalle presidenze Clinton, con la “globalizzazione” mercantile e finanziaria.

L’Europa in particolare gli Stati Uniti governano facile, con tatto, senza bisogno di forzature – con la “servitù volontaria” di Montaigne-La Boétie, anzi dei “volenterosi collaboratori” delle tante guerre che via via intraprende. Non esimendosi da interferenze nella politica, specie in Italia: ufficialmente, tramite l’ambasciata, da Clara Boothe Luce a Richard Gardner, e sottobanco, tramite finanziamenti oppure dossier - come ora, alla vigilia del voto, per gli imprecisati “finanziamenti russi”.

Pinocchio tra la fame e la violenza

Pinocchio” non è la marionetta che vuole diventare un ragazzo – l’avventura dolciastra di Walt Disney, 1940. Provoca sempre nuove letture: il breve saggio è di presentazione critica di due nuovi “adattamenti” – traduzioni ragionate - americani, mentre esce il rifacimento del “Pinocchio” disneyano in live-action, con attori invece che animato, di Zemeckis, e una nuova versione è annunciata per Natale di Guillermo del Toro. Ma “il suo autore vedeva il suo personaggio molto diverso”, come “un attacco irriverente all’autorità stabilita” – di “critica sociale e humour pessimistico”: il racconto è di “un bambino affamato che marina la scuola”, mettendo in scena “una catena di ingiustizia sistematica e scuro tradimento”, di violenze.

Nella prima parte, i quindici episodi pubblicati settimanalmente tra luglio e ottobre 1881, “Pinocchio” è “brutale e pauroso”. Il gatto e la volpe non sono buffoni ma assassini. La Fatina Blu non è figura materna, ma una ragazzina fantasma e forse morta che si rifiuta di aiutare Pinocchio – “sto aspettando la bara che mi porti via”. Il burattino finisce morto, impiccato alla quercia. È l’anno dopo, quando Collodi, visto il successo della serie, riprende il racconto, nei 21 episodi pubblicati tra febbraio 1882 e gennaio 1883, che Pinocchio risuscita con buoni propositi. La misteriosa ragazzetta  diventa Fata, con l’inevitabile lieto fine. Ma senza dismettere la denuncia, le denunce: la polizia incolpa la vittima, i dottori sono pomposi e incompetenti, i giudici scimmie, Pinocchio ha “una fame così reale che si potrebbe tagliare col coltello”.

Il resto è noto. Scrittore satirico, Carlo Lorenzini-Collodi aveva fatto le due guerre d’indipendenza, 1848 e 1859, e ne era deluso, da repubblicano convinto. Già famoso come autore, nel 1877, di una lettera aperta “Pane e libri”, contro il progetto di scuola elementare obbligatoria – contro un progetto ipocrita, poiché aspettava a scuola bambini che non avevano di che sfamarsi, e nemmeno un casa.

Anna Momigliano, The Politics of Pinocchio, “The Atlantic”, free online

mercoledì 14 settembre 2022

Il mondo com'è (452)

   astolfo

Gatto in caduta – Un gatto in caduta riesce comunque ad assestarsi per cadere sulle zampe, contravvenendo alle leggi fisiche della caduta. E tanto meglio ci riesce quanto più è maggiore l’altezza di caduta. Il fatto fu testimoniato per la prima volta dal fisico francese Étienne Jules Marey nell’ottobre 1894 alla francese Académie des Sciences, con una serie di foto che documentavano la progressione della caduta e la torsione del felino, dal dorso alle zampe. Questo tipo di caduta contravveniva alla legge della conservazione del momento angolare, secondo la quale corpi non rotanti non avvieranno la rotazione a meno di forza esterna. Senza una spinta il gatto non avrebbe potuto rotare su se stesso. Ma l’evidenza contraddice il principio.

Fra le tante spiegazioni tentate del fatto, la più accettata è che il gatto può permettersi la rotazione di una parte della spina dorsale se l’altra parte rimane ferma o ruota in senso contrario. È come se il gatto avesse una schiena doppia. Le due parti ruotando in senso contrario consentono il movimento di torsione.

Senza spiegazione è invece l’altezza di caduta, che sembra (dai casi esemplati) ridurre l’esito dell’impatto tanto più la caduta è elevata. Come se il maggior tempo di caduta consentisse al felino di organizzare i muscoli per attutirne l’effetto.

 

Matrimonio omosessuale – Si praticava di fatto, con riconoscimento legale quanto a diritti acquisiti e ereditari, ben prima che diventasse parte della “campagna dei diritti”. Colin Turnbull (1924-1994), l’antropologo londinese specialista dell’Africa, naturalizzato americano nel 1965, lo sottoscrisse nel 1960. Sottoscrisse e scambiò una promessa di matrimonio formale col più giovane partner Joseph Allen Towles (1937-1988), americano, incontrato ventenne a New York, dove Towles era approdato nel 1957 per fare l’attore: nel 1959 l’incontro con Turnbull, l’anno dopo i voti matrimoniali. Towles è poi diventato anche lui un antropologo sul campo, e i due s’incontravano in East Africa e nel Congo a cavaliere 1970, per ricerche in Uganda, e fra le tribù congolesi confinanti.

Towles morirà nel 1988 di Aids. Scontento delle memorie già pubblicate di Turnbull, “The Human Cycle”, che non fanno menzione del loro rapporto. La coppia si era costruita una residenza nel 1967 a Lancaster, in Virginia, “Chestnut Point”. Turnbull donerà tutti i materiali delle ricerche in comune con Lowles all’università di Charleston, sotto il nome unicamente di Towles. Di Aids morirà lo stesso Turnbull, nel 1994. 

 

Pirandello – Fu fascista? Sì, convinto. Che avesse preso la tessera dopo l’assassinio di Matteotti, ordinato da Mussolini, per anticonformismo è ipotesi di Montanelli. Che così l’ha spiegata sul “Corriere della sera”, nella rubrica delle lettere al direttore che teneva con la testatina “Stanze, il 17 marzo 2001. Intitolata “Pirandello e il «tubo vuoto». Rispondendo a un lettore che gli poneva il problema in questi termini:

 

“Luigi Pirandello fu tra i primi intellettuali ad aderire al fascismo chiedendo direttamente a Mussolini la tessera del Pnf (gennaio ’24), subito seguito da Riccardo Bacchelli, Corrado Alvaro e tanti altri. Senonché, dopo l’adesione, dovette darsi da fare per convincere il suo massimo critico, Tilgher, della validità del consenso dato affermando che il movimento fascista era una «necessità storica». Le chiedo: condivide, nell’ottica di oggi, la sintetica motivazione di Pirandello?” Montanelli rispose con una testimonianza: “Caro Bertorello,
Io conobbi Pirandello in un’altra fase della sua vita, purtroppo l’ultima. Era la fine del ’36, io rientravo dall’Etiopia. Una delle mie prime visite la feci a Massimo Bontempelli che, senza conoscermi, mi aveva molto aiutato nella pubblicazione del mio primo libro, «XX battaglione eritreo». Mi chiese di accompagnarlo all’Accademia d’Italia, di cui era membro, dove aveva un appuntamento non ricordo con chi.
“Ci trovammo per caso Pirandello, al quale Bontempelli mi presentò e col quale cominciammo a chiacchierare della situazione politica.
“Essendo rimasto lontano dall’Italia per due anni, non immaginavo che questa situazione fosse così scopertamente marcia da indurre i due interlocutori a una diagnosi tanto spietata: oltre tutto, eravamo in uno dei sacrari del regime, di cui entrambi facevano parte.
“A un certo punto mi presi la libertà d’intervenire per chiedere, un po’ sprovvedutamente: «Ma allora questo regime come fa a stare in piedi ?».
Ricordo che Pirandello mi guardò quasi con tenerezza. Poi mi disse: «Semplicissimo, ragazzo mio: questo regime è un tubo vuoto, che ognuno può riempire di ciò che più gli aggrada. I vecchi conservatori ci vedono il ripristino dello Stato, i nazionalisti il culto della patria, i liberali l’ordine, i socialisti la corporazione, gli intellettuali la feluca e lo spadino dell’accademico, o alla peggio il sussidio del Minculpop... Un simile regime, chi può aver interesse a buttarlo giù?».
“Quando uscimmo, dissi a Bontempelli: «Non mi è parso molto entusiasta della situazione».
“«Ma sai - mi rispose - lui chiese la tessera del partito all’indomani del delitto Matteotti per dispetto e provocazione verso tutti coloro che in quel momento buttavano via tessera e distintivo pensando che il regime fosse finito...».
“Una spiegazione, come vede, molto diversa da quella che Pirandello avrebbe dato a Tilgher, ma che poteva anche coabitare con essa.
“Pirandello di politica si interessava poco. È quindi possibile che fosse uno dei tanti italiani che, delusi dalla democrazia, o meglio dal modo italiano d’intendere e praticare la democrazia, avesse realmente visto nel fascismo una «necessità storica» e che la spinta risolutiva all’adesione gli fosse venuta dalla «gestione» (chiedo scusa dell’orrenda parola) che gran parte dell’antifascismo stava facendo dell’affare Matteotti, fino a provocare anche in fior di galantuomini la reazione contraria a quella che si voleva.
“Per intenderci: Giovanni Amendola era uomo di alto intelletto e di coscienza illibata: ma ciò non toglie che il suo Aventino sia stato un marchiano errore e abbia precipitato la corsa del fascismo verso il regime, cioè verso la dittatura.
Comunque, dal momento (1924) in cui si schierò a quello in cui lo incontrai, anche per Pirandello il fascismo era diventato ben altra cosa da ciò che ve lo aveva attratto. Perché quella del fascismo è la storia di una parabola che va dal duce equestre che impugna la spada dell’Islam a quello pèndulo da un gancio di piazzale Loreto; e non so quale di queste due raffigurazioni sia, per noi italiani, la più vergognosa.
“Ci hanno insegnato, almeno, qualcosa? Ne dubito, caro Bertorello.”

 

Di fatto, Pirandello era stato fascista da subito. Il 28 ottobre 1923, a un anno dalla Marcia su Roma, aveva scritto su “Idea Nazionale” (“La vita creata”) che c’era una analogia stretta tra la propria arte, o visione della vita, e la politica di Mussolini. La tessera del Pnf richiese con questa motivazione: “Sento che per me questo è il momento propizio di dichiarare una fede nutrita e servita sempre in silenzio”. Questo il 19 settembre 1924. Il 23 era a udienza privata con Mussolini a palazzo Chigi (l’occasione fu bollata di opportunismo da parte di Amendola, “Un uomo volgare”).

A Mussolini Pirandello chiese di fondare e dirigere un Teatro di Stato. Mussolini si disse favorevole, ma lesinerà i finanziamenti: invece dei milioni di lire che Pirandello si attendeva, disporrà solo un quarto di milione, a rate, a singhiozzo – Pirandello l’anno dopo fonderà il suo teatro, che chiamerà dell’Arte, a proprie spese, per “lanciare” Marta Abba, giovane attrice venticinquenne milanese molto carrierista, che sfrutterà fredda l’irretimento del sessantenne Pirandello. Mussolini in realtà non stimava scrittori e artisti, da Pirandello a Malaparte e ai futuristi, pur facendosi un compito - come poi, curiosamente, Stalin – di avere con loro un rapporto personale: elargiva sussidi, ma in misura insufficiente, giusto come pegno, e non rifuggiva – come poi sempre Stalin – da misure vessatorie, confino, impoverimento.

Mussolini boicotterà, per quanto era in suo potere, il Nobel a Pirandello, promuovendo la candidatura di D’Annunzio. Il premio andrà nel 1926, equanimamente?, a Grazia Deledda, isolana come Pirandello e non “eroica” (Fiume) alla D’Annunzio. Nel 1934 il Nobel fu assegnato a Pirandello, ma non fu una festa in Italia, Mussolini non volle. Dopo avere già personalmente punito, nello stesso anno, Pirandello, con due decisioni. Avendo assistito alla prima della “Favola del figlio cambiato”, ne aveva ordinato il sequestro, perché ambientata in un bordello. E nel quadro della promozione di D’Annunzio aveva imposto a Pirandello la regia della “Figlia di Jorio”, al teatro Argentina, in una produzione lussuosa, con scene di De Chirico. Il “capolavoro” andò in scena il 10 ottobre, quando già il Nobel era stato assegnato a Pirandello. Mussolini darà allora l’ordine di sottacere il conferimento del premio, e anche la cerimonia solenne della premiazione a Stoccolma.

Con l’autorevolezza del Nobel, Pirandello confermerà il suo credo fascista: “La massa non ha una propria volontà”. E ancora un anno dopo, il 15 agosto 1935, poco prima di morire, scriverà al figlio Stefano: “Ho visto una recente fotografia del Duce nell’atto di parlare a Eboli: m’è parso il Davide del Bernini”. 


astolfo@antiit.eu


Elisabetta speciale

L’abbraccio è della capitale alla defunta regina. Speciale la sigla, una caleidoscopica Elisabetta alle sue varie età e funzioni, serena, sorridente, imbronciata, scherzosa, di fermi immagine che sfumano l’uno sull’altro, con effetto oltremodo lusinghiero, attraente, innamorante. Una grafica (pubblicitaria) eccezionale, il Royal College of Art, tempio della “realtà creata”, avrà da farne tesoro.

Speciale Tg 5, L’abbraccio di Londra, Mediaset Play

martedì 13 settembre 2022

Cronache dell’altro mondo - razziali 3 (221)

La popolazione americana è aumentata al censimento del 2020 di 22,7 milioni in dieci anni. I bianchi sono diminuiti di cinque milioni (5,1). Di altrettanto (5,2 milioni) sono aumentati gli asiatici. I latino o ispanici sono aumentati di 11,6 milioni. I neri di 2,3 milioni.

La legge demoscopica, in vigore dal 1977, richiede anzitutto l’identificazione in una “etnia”. In pratica di dichiararsi latino o ispanico, oppure no. In questo secondo caso bisogna procedere a dichiarare la razza: asiatico/pacifico, indiano americano/nativo alaskano, nero, bianco. A partire dal 2000 si può fare una scelta plurima, 2+ races. Nel primo censimento dopo la legge, 2010, la scelta plurima è stata larga – la prima analisi conclusiva riguarda i dichiaranti latino, il 15 per cento dei quali si è detto anche bianco. Dei non ispanici solo questo dato è disponibile: si sono dichiarati di due o più razze sei milioni nel 2010 (l’1,9 per cento della popolazione), e 13,5 milioni nel 2020 (il 4,1).  

La popolazione che si identifica bianca è diminuita per la prima volta.  Nel decennio precedente era aumentata di 2,3 milioni. Il calo al 2020 è generalizzato: in 33 dei 50 stati, in 61 delle 199 maggiori aree metropolitane, in 196 delle 319 città con più di 100 mila abitanti, in 2.458 delle 3.100 contee.

In proporzione alla popolazione totale, invece, il calo era in atto da inizio secolo. Era il 68 per cento nel 2000, il 64 per cento nel 2010, è ora al 58 per cento. Per effetto delle grandi immigrazioni sotto le presidenze Bush jr. e Obama. Ma anche del calo delle nascite – più incisivo è il calo dei bianchi fra i minori di 18 anni, ora al 47 per cento.

La vita impossibile di Napoleone

Uno dei tanti abbozzi della “Vita di Napoleone”, che Stendhal, pure biografo sintetico e veloce di molti personaggi, non riuscì a completare. Forse perché Napoleone è il personaggio che più, e più continuativamente, lo sedusse.

Come il contemporaneo Puškin lavorò a lungo senza mai concludere su Pietro il Grande, da cui era affascinato. lo stesso Stendhal – i tanti progetti e le memorie scritte di Stendhal su Napoleone prendono nella raccolta Stock di venticinque anni fa circa 800 pagine di formato grande, 16 per 24. Puškin era affascinato da Pietro il Grande per motivi anche personali: era stato il padrino del suo bisnonno materno, un africano, che aveva riscattato da ragazzino e cresciuto personalmente. Stendhal aveva speso una vita al servizio di Napoleone, cui i suoi parenti Daru, che gli procuravano i piccoli impieghi al seguito della Armée, erano legatissimi. Lo era stato in Germania e in Italia, qui specialmente felice. Con ammirazione anche da parte sua, benché senza familiarità con l’imperatore, anzi guardandolo da lontano.  

È un ritratto ammirato, non critico. Napoleone è lo “spirito superiore”. Anche nella sconfitta. Anche alla sconfitta. Una spiegazione dell’incapacità di licenziarne un ritratto definitivo è in questa ammirata grandezza, come se il personaggio in qualche modo sempre gli sfuggisse.  

A cura di Piero Bertolucci. Mursia riedita la riduzione di dieci anni fa, a opera di Beppe Benvenuto.

Stendhal, Vita di Napoleone Garzanti, pp. 320 euro 13

Mursia, pp. 234 € 12,50

lunedì 12 settembre 2022

Ombre - 631

Il Monte dei Paschi, appena scartato come opzione non conveniente da Unicredit, marcia trionfale verso l’aumento di capitale che aveva spaventato Unicredit: salti in Borsa da 10 e 20 percento. Anche se il titolo è il centesimo di quanto valeva (è costato) con l’ultimo aumento. Perché questo è il quarto aumento miliardario del Monte dei Paschi in una dozzina d’anni, per un totale di 15 miliardi. Tutti, come questo, analizzati e garantiti dalle migliori banche, d’affari. I primi dodici o tredici miliardi sono già finiti in fumo.

“Stipendi più alti al Nord”. Ovvio, il reddito medio in Lombardia è il doppio di gran parte del Meridione. Ma non vale: bisognerebbe introdurre delle “ragioni di scambio” regionali, come quella che usano – usavano – per “pesare” le monete e le bilance dei pagamenti internazionali. Perché nel “molto Sud” sotto la metà del reddito medio lombardo, quel poco “vale” (compra) di più – anche molto di più, a partire dalla casa.

“Al Settentrione salari medi iniziali superiori del 10 per cento sul Meridione e del 2 per cento sul Centro”, è la considerazione succedanea de “L’Economia”, il settimanale del “Corriere della sera”. E si capisce che nessun infermiere o medico, e pochi ingegneri del Sud, vanno al Nord, per non dire degli insegnanti: perché con quel 10 per cento in più sarebbero poveri, mentre al paese, col 10 per cento in meno, sono ricchi.

“Il Var non aveva a disposizione il Var”: la giustificazione dell’Associazione arbitri su un gol annullato in Juventus-Salernitana per fuorigioco accertato in campo ristretto, non allargato a tutta la linea di campo, anzitutto è ridicolo: tanti arbitri, in campo e al Var, non sanno che bisogna esaminare tutta la linea di campo, invece di guadare a due o tre calciatori? Ma gli arbitri, si sa, non sono giocondi - Pairetto su tutti, che a Lecce doveva far vincere il Monza. Il fatto nuovo è che finalmente si spiega che la “tecnologia” è trombonaggine: per dare più potere agli arbitri, e più chiacchiere ai media. Il Var non elimina gli errori, anzi li moltiplica (fuorigioco perché la punta del piede non è in linea…) e ha snaturato il calcio. Che è velocità: il fermo immagine è una scemenza – a parte il fatto che un operatore di media capacità sa come “crearlo”. Le partite durano 100 e 110 minuti, invece che 90. La tensione agonistica si spende nel leguleismo.

Aspesi si deve difendere, sul “Venerdì di Repubblica”, dal non avere escluso Matteo Renzi come possibile beneficiario del suo voto: “Qualche caro amico mi ha tolto il saluto per la mia dichiarazione”. E ricorda che tanti fanno affario con l’Arabia, “solo Renzi è colpevole?”. Dice anche che l’Arabia Saudita è “un Paese assassino”, con qualche approssimazione. Lo stesso settimanale segue con un servizio illustrato sulla “città del futuro” che l’Arabia sta realizzando sul Mar Rosso, con i più accreditati architetti del mondo.

Il costituzionalista professor Ceccanti, da sempre teorico e sostenitore politico, insieme col presidente della Corte Costituzionale Amato, del semipresidenzialismo, che propose anche come parlamentare con un disegno di legge, lo dice oggi non necessario. Oggi che si potrebbe fare perché anche una parte della destra ne è convinta, Fratelli d’Italia. Con la quale solamente, del resto, si può modificare la Costituzione. È sempre il tradimento dei “tecnici” – dei “chierici” di Benda, quelli che vogliono tutto e il contrario.

Con metà dei passaggi e poco più della metà del possesso palla, il Napoli fa quattro gol al Liverpool, supercampione britannico, di introiti e di vittorie, del superallenaore Klopp. C’è ancora il calcio, senza gli stucchevoli tiki-taka.

La lettera della Bce di agosto 2011, di Trichet e Draghi, che aprì la crisi del debito italiano, fu scritta da “due ministri del governo uscente”, spiega Tremonti, allora ministro del Tesoro, al “Corriere della sera”, Daniele Franco e Renato Brunetta. E Brunetta? “”Non sono stato l’estensore della lettera”, ma quello che ne ebbe conoscenza subito e informò “prontamente e responsabilmente il presidente del consiglio Berlusconi”. Non il ministro del Tesoro, gli odi fra ex socialisti possono essere feroci.

Ma, dunque, la lettera fu scritta da Franco e inviata da Draghi. Si può aggiungere che seguiva l’avvio di una manovra speculativa di grosso spessore della Deutsche Bank contro il debito italiano. E questa è l’Europa.

Paola Severino, il famoso avvocato che da ministro dele Giustizia mise dietro la lavagna tutti i politici, grandi e piccoli, con l’incandidabilità sancita dai prefetti (dai prefetti…), da presidente della Scuola Nazionale dell’Amministrazione si propone di rendere la Funzione Pubblica digitale “erogando direttamente master e dottorati”. La rosa è aperta, tutti “dottori”, i burocrati.

Severino era la ministra inflessibile dell’inflessibile Monti, buona credente quindi anche lei: Dio li fa e poi li accoppia? No, è il, democristianesimo invincibile.

Conte, il politico, a Napoli si fa fotografare tra le pizze. Un “mazzetto” di pizze colorate. Novità? Del suo partito? Di Napoli? Grillo è quanto di più stantio ha l’Italia.

Il blocco delle assunzioni pubbliche dieci anni fa (Tremonti, su diktat Ue) ha prodotto sprechi incredibili, oltre che distorsioni e malfunzionamento. Si sono diffusi i contratti a termine, di efficienza necessariamente ridotta (chi me lo fa fare…). Si sono moltiplicati gli appalti per le Asl, con le cosiddette coop di anestesisti, analisti e a altre specialità, che costano un occhio, per funzionare male – e senza controllo, né amministrativo né sanitario. Pratiche buone, certo, a moltiplicare il “sottogoverno” - la corruzione.

Tremonti ministro, il nemico delle “coop che evadono le tasse”, che moltiplica e finanzia le cooperative. Anche se non più dei “compagni”, era da vedere. E si è visto – l’arte del governo non è semplice, non per semplici.

Machiavelli tradotto in italiano

“Il Principe” in originale e in “traduzione” italiana contemporanea, opera dello stesso editore Donzelli - una riproposta della prima edizione, 1914, ulteriormente affinata. Con un un apparato cospicuo di note di Gabriele Pedullà, su tutte le asperità o curiosità del testo, storiche, geografiche, politiche,  filologiche.

Una riscrittura non per interpretare Machiavelli ma per proporne una lettura allargata, semplificata, pur rispettando parola per parola l’originale. Anche dove la “traduzione” in termini contemporanei si presenta complessa: “blandire” per “vezzeggiare”, “”schiacciare” per “spegnere”. Un divertimento dell’editore, ma anche per il lettore.

Nicolò Machiavelli-Carmine Donzelli, Il Principe, Donzelli, pp. 336 € 19,90

domenica 11 settembre 2022

Secondi pensieri - 493

zeulig

Antisemitismo – Si discute se Heidegger è stato antisemita, uno che pensava e scriveva di Judentum, anzi di Welt-Judentum. Che non ha mai scritto una sola parola di compatimento alla sua ex amante Hannah Arendt, costretta a emigrare. Non perseguitò gli ebrei in campo di concentramento, ma questo normalmente non veniva fatto dai tedeschi della territoriale. Nel dopoguerra non disse mai una parola di condanna di Hitler, e della guerra stessa – anche a non menzionare gli ebrei. 

Cioran – O del pensiero breve, nietzscheano. Fulminante, martellante, apodittico. Della coscienza dell’inconscio, nella fattispecie. Radicalmente pedagogica – incontrovertibile. Con l’estrema sicurezza dell’incertezza. Sempre azionando (vantando) una disperazione senza fondo, seppure seriale, ripetuta, interminabile. “Cioran è solo una variante dell’Oltreuomo che Nietzsche idolatrò”. puo dirlo Berardinelli sul “Venerdì di Repubblica”. O un Nietzsche in pillole per “un pubblico parigino di asceti eversori e specialisti del no”. O del pensiero in briciole – come è l’uso editoriale, per Schopenaèhauer, Kierkegaard, Nietzsche. Un forma di popolarizzazione della filosofia che ne è l’involgarimento – anche se il frammento esercita illustri menti. Un po’ come le vecchie raccolte ora in disuso, di moralità e proverbi, di Rapisarda, Pitré, Salomone Marino.

Complessità – È il mondo fisico di Platone. Nella cosmologia di Platone nous, la mente, opera per assoggettare ananke, il cieco caso, il caos. In Platone ci riesce, ma non ci viene detto come. Di qui tutte le elucubrazioni sul reale che è percezione, una lunga ritornante “soggettiva” in termine filmico. Che non aiuta in realtà la percezione.

Elettricità - È il presente e il futuro dell’umanità, dalla nuvola (biblioteca dell’universo) all’intelligenza artificiale e alle criptovalute, il metaverso. senza essere uno dei quattro elementi, terra, aria, acqua e fuoco, e anzi essendo produzione terziaria, di prodotti minerari derivati dai quattro elementi. E a rischio sotto di essi – una tempesta magnetica (fuoco), un tifone (vento), un’alluvione, un terremoto. È il primo futuro che si costruisce come una sfida alla natura – la vera sfida di Prometeo, insensata, fino al prossimo black-out, magari magnetico.  

Futuro – “Una delle più grandi benedizioni di Dio è che ci tiene perennemente nascosto il futuro”, è conclusione di Horselover Fat-Philip Dick nel romanzo “Valis”, p. 24. Ma non è tutto, alla pagina seguente lo stesso può dire: “Dio misericordiosamente ci nasconde il passato, oltre al futuro”.

Idiota - Il significato originario della parola, greca, è “privato”, di qulcuno che non aveva cariche pubbliche – sottinteso: perché non poteva, non aveva la capacità verbale necessaria alla politica. Passa al latino nel senso di incompetente, inesperto, incolto. E al volgare italiano con lo stesso senso nel Trecento. Ma, curiosamente, si potrebbe applicare al senso originario nella campagna elettorale in corso, tra gli stessi, numerosissimi, candidati, quali i giornali propongono in abbondanza. 

Ombra - La virtù, pure semplice, dell’ombra dev’essere difficile, non solo in pittura: il sole è a premio, anche nei paesi caldi – l’Italia per esempio non sa farne uso, relegandola al più al Sud, a una mania meridionale. Oppure è concetto difficile, almeno a giudicare dall’esperienza: la sua funzione, i suoi benefici. Avendo trascorso due terzi della vita in Toscana, a Roma, a Milano, si può testimoniare la difficoltà, costante negli anni, insormontabile, di far valere il semplice concetto che, nella stagione calda, è meglio evitare la luce diretta. Far valere la virtù di tenere le imposte chiuse, invece che spalancate - considerate tutt’al più come fissazioni o pratiche da “meridionali”. Difficile anche da quando, da qualche anno, i governi raccomandano di evitare di esporsi alla luce nelle ore meridiane, le senza ombra.

Bizzarra è anche l’inesistenza dell’ombra nell’architettura contemporanea. Che va per spazi diritti, senza studio dell’orientamento – un tempo c’era la casa o facciata estiva, quella invernale, eccetera - e “ristruttura” piazze e strade nei paesi e nelle città nel senso di abbattere alberature spesso studiate appositamente, di specie e in posizioni da assicurare un’ombra contro la calura, per fare posto alla pietra. Né ne ha concezione l’architettura dei boschi verticali, che solo s’ingegna di costruire artificiose siepi o fogliami con poca terra.

Paternità - Collodi ha alzato la barricata un secolo abbondante prima della cancellazione nella fluidità dei generi, e delle funzioni genitoriali, perfino ovvia a opera di un certo femminismo - prima del gender fluid. “Pinochio” è un mondo maschile in cui non c’è posto per la madre, moglie, compagna di giochi, innamorata. C’è la fatina, ma è uno schiaffo al femminismo in nuce: è tutto ciò che di femminile un uomo s’immagina e vorrebbe – coi poteri, anzi con più poteri degli altri, ma dalla parte sua, amorevole e protettrice. 

Razzismo - Il senegalese Mohammed Mbugar Sarr, vincitore a trentadue anni del premio Goncourt, il massimo premio francese, per il romanzo “La più recondita memoria degli uomini”, lamenta con Fabio Gambaro sul “Venerdì di Repubblica”: “Oggi essere nero e d’origine africana significa ancora trovarsi in condizione di inferiorità”. Questo non è vero per lui, benché immigrato in Francia solo da una decina d’anni. O per ‘Mbappé. O negli anni 1940-1950 per i suoi connazionali Senghor e i tanti Diop, integrati socialmente e negli affetti – o per lo stesso protagonista del suo romanzo, T.C.Elimane, “le Rimbaud nègre”, scrittore scomparso nel nulla dopo avere pubblicato negli anni 1930 un romanzo considerato un capolavoro. Un autore fittizio di un romanzo fittizio, “Labirinto dell’inumano”. Ma “considerato” a Parigi, dove era stato pubblicato, Sarr non può immaginare altro scenario.

Lo stesso non è vero negli Usa ai più alti livelli politici, sportivi, artistici, benhé sempre vi si riproponga la questione nera. O nella Gran Bretagna novellamente multirazziale, come lo è stata in passato: nella successione al biondissimo e bianchissimo Johnson hanno figurato candidati di genitori africani o asiatici. Come da qualche anno la Francia. Il problema sono gli africani dell’Africa, a 50-60 anni dalle indipendenze. Un mondo di cui gli afroeuropei e afroamericani fanno male a dimenticarsi.

A lungo le razze furono collegate alla latitudine, al clima. Sulla traccia di Montesquieu, al Libro XIV dello “Spirito delle leggi”. Montesquieu si limita a osservare che il clima ha un’influenza sul temperamento, e quindi che la governabilità di un popolo è legata anche al fattore clima. L’annotazione fu declinata nell’Ottocento nel senso che il clima temperato dell’Europa Occidentale era il giusto mezzo alla governabilità (alla democrazia, alla libertà, eccetera), tra le supposte sanguinarie, dispotiche, società dell’Africa e dell’Asia e le rigide popolazioni nordiche, cui le temperature rigide ottenebrano le menti. In Francia se ne derivò, nel primo Ottocento, perfino la teoria che i Russi non erano riusciti a creare una tradizione letteraria analoga a quella francese a causa della meteorologia.

È anche vero che le prime pubblicazioni letterarie moderne di asiatici (con l’eccezione però. notevole, di giapponesi e cinesi) o africani si è avuta nelle capitali europee, e che questa è ancora più marcata la tendenza oggi, con  gli scrittori franco-africani  o anglo-indiani, e altrettali, perfino italo-africani, ma è una questione di mercato, di visibilità.


zeulig@antiit.eu

Oriente e Occidente divisi dall’ombra

Breve riflessione sull’ombra, in Oriente e nell’Occidente. Per un elogio della cultura giapponese, disposta attorno alle ombre, e una critica della luce invadente, dell’Occidente. Gli Occidentali, al laccio del progresso, della spiegazione di ogni mistero, vanno alla ricerca continua di “una chiarezza più viva”, escludendo la più piccola zona d’ombra.

Vari “panorami” o visioni sono qui descritti in cui l’ombra moltiplica e avvalo a gli stessi scoppi di luce: una seta, un raggio, una lacca, gli interni delle case di geisha, dei monasteri, dei gabinetti domestici (“il gabinetto giapponese è concepito per il riposo dello spirito”), staccati dalla casa e riposti, dell’argenteria che piace patinata, del il tokonoma” che adorna ogni casa – una rientranza nela parete, nella quale collocare fiori o dipinti. Mentre l’Occidetale non sa nemmeno concepirla, l’omnra: è passato “dalla candela al petrolio, dal petrolio al gas, dal gas all’elettricità” - e l’Orientale no?

Opera del 1933, più “preziosa” (manierata) che inventiva, che Giovanni Mariotti apprezza - pur con qualche ombra. L’elogio dell’ombra topico è poi diventato quello di Borges, vicino alla cecità – la sua semibiografia poetica. Che non ha nulla a che vedere con Tanizaki, ma curiosamente lo richiama: si vuole l’ombra virtuosa e virtuosista.

Junichiro Tanizaki, Libro d’ombra, Bompiani, pp. 96 € 12