sabato 1 ottobre 2022

A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (505)

Giuseppe Leuzzi

La ‘ndrangheta del Procuratore

Cafiero de Raho, che a Reggio Calabria ha costruito la sua nomina a Procuratore Nazionale Antimafia vituperando la città (“bisogna vivere sempre da soli”, confidava a Tg2000, il tg dei vescovi, “questo è un territorio nel quale non si possono avere rapporti con altre persone… prima giocavo a tennis ora non lo posso più fare”), ne è stato retribuito col raddoppio del voto nazionale del suo partito, i 5 Stelle, col 30 per cento dei voti. È vero che hanno votato in pochi, cinque su dieci, ma raddoppiare la percentuale del proprio partito è una soddisfazione. Calabria 1, la circoscrizione di Reggio Calabria, ha per questo perfino ridotto la percentuale di consensi a Giorgia Meloni.

Il Procuratore, o l’organizzazione dei 5 Stelle, aveva fatto preventivamente gli scongiuri augurandosi un voto zero: “Per De Raho il miglior successo è non prendere un voto. Significa che le mafie si sono coalizzate”, eccetera.…”. A Reggio Calabria un modo di dire è: “Falla come vuoi, sempre è cucuzza” – semre finisce a mafia.

La guerra civile italiana, l’anno dopo l’unità

“Ci fu una guerra civile e i piemontesi l’hanno persa”, titola il “Corriere della sera” il 28 settembre la pagina della posta. Rispecchiando esattamente la rubrica di Aldo Cazzullo. La guerra civile è subito successiva all’unità d’Italia, contro i briganti - e contro le proteste in Sicilia.

A Cazzullo un lettore chiede lumi sull’“odio al Piemonte” di una sua precedente corrispondenza. Cazzullo ricorda il regista Squitieri – napoletano, è bene ricordarlo, marito molto amato di Claudia Cardinale - che, “sul divano di casa Craxi ad Hammamet”, gli dice: “Io odio il Piemonte”. E prosegue spartendo torti e meriti del Piemonte, che “ha fatto l’Italia, e a lungo ha esercitato sull’Italia una certa egemonia economica, politica, militare, culturale; non sempre con buoni esiti”. Parlavano in dialetto, compreso Vittorio Emanuele III che era nato a Napoli e regnava a Roma”, in dialetto – con sufficienza – prepararono Caporetto, eccetera. Ma diedero all’Italia “i Cavour e i Quintino Sella, e pure quelli della sinistra liberale, Michele Coppino e Giovanni Giolitti”, i migliori comunisti, Gramsci, Togliatti, Tasca, Secchia, Terracini, i capi militari della Resistenza, “santi veri e santi laici” – una lista effettivamente impressionante: “don Bosco e Piero Gobetti, don Cottolengo e Norberto Bobbio, Piergiorgio Frassati e Alessandro Galante Garrone, e poi Luigi Firpo e Augusto Del Noce, Adriano Olivetti e Vittorio Valletta, Giovanni Agnelli e Rodolfo Debenedetti, Michele Ferrero e Sergio Pininfarina, Carlo e Primo Levi, Vittorio Foa e Umberto Eco, Cesare Pavese e Giovanni Arpino, Giampaolo Pansa e Giorgio Bocca, Carol Rama e Fernanda Pivano, Rita Levi Montalcini e Natalia Ginzburg”. Ma conclude: “La guerra civile che seguì al Risorgimento non fu vinta dai bersaglieri; fu vinta dai briganti amati da Squitieri. E l’Italia di oggi somiglia più a quella dei Borbone che a quella di Camillo Benso conte di Cavour”. Questo è vero, ma questi “Borbone” non sono piemontesi?

Il banditismo. Non erano guerriglieri, erano briganti, gente di mano, ma in qualche modo anche lo erano. E non erano soli. Ci fu la sollevazione popolare a Palermo, e nel contado agrigentino, per il pane e contro la leva obbligatoria, sconosciuta nell’isola. Ci fu lo sgomento di Napoli città, ridotta da capitale di un regno a capitale dei cenciosi - basta leggere un sicuro unitario come Pasquale Villari, che scriveva di cose viste.

Una prima – enorme - guerra civile italiana a ridosso dell’unità non dà da pensare a Cazzullo? L’unità fu una rivoluzione, l’Europa intera ne fu ammirata, il mondo intero. Ma non fu il Piemonte a tradirla, solo pochi mesi dopo – e non perché lo diceva Garibaldi, non solo? Quelli stessi piemontesi così buoni e bravi che tra di loro parlavano in dialetto – non affettati, certo, anzi popolari e popolareschi, ma di che intelligenza? Dice: Cavour, dice Sella. Ma Cavour è morto prima. E Sella purtropo ha inventato il “debito estero”, che ci affligge da centocinquant’anni, onni due-tre anni, inesorabilmente.

Se guerra fu, e non rivoluzione, l’hanno persa i piemontesi o l’hanno persa i meridionali?

L'Italia fuori dal Sud

“Fuori l’Italia dal Sud” chiedevamo antifrasticamente trent’anni fa nel libro che ha aperto questa rubrica. Ma forse è la verità, il Sud perlomeno inconsciamente si avviava su questa strada: ora, senza rappresentanza politica, finisce per non riconoscersi nello Stato, che non ha mai amato, tra pratiche, naja, e carabinieri. Ma non è un passo avanti, una svolta: è un surplace, tra smarrimento e meraviglia (come si è potuti arrivare a tanto?), e questo è un dramma.

La sfiducia è nel voto, poco e male indirizzato, quasi un “vaffa”. Meno 9 per cento al voto il 25 settembre, rispetto a quattro anni fa: quattro milioni e mezzo di elettori in più non hanno pensato a votare. Un popolo. Ma soprattutto al Sud. In Calabria appena il 50,80 per cento. In Sardegna il 53,17. In Campania il 53,27. In Puglia il 56,56. In Sicilia, dove si votava anche per la Regione, il 57,35 per cento.

Il Movimento 5 Stelle è stato primo in tutto il Sud: Molise, Campania, Puglia, Basilicata, Calabria, Sicilia – secondo in Sardegna e Abruzzo, dietro Meloni (in Sardegna per mezzo punto, poco più, dietro Fratelli d’Italia: 21,94 per cento contro 22,58 - in Abruzzo 18,7 contro 27,2). Il Sud che non si è astenuto ha votato 5 Stelle.

Li hanno votati la Campania, al 35 per cento (Napoli addirittura al 41,5 al Senato, al 45,5 alla Camera), la Sicilia 1 (Palermo, Trapani, Agrigento) al 33, la Sicilia 2 al 29, la Puglia al 30, la Calabria al 29,50. Solo la Sardegna si è avvicinata al 15 per cento nazionale, col 22 per cento. Tutto e solo per effetto del reddito di cittadinanza - le percentuali 5 Stelle riflettono i percettori del reddito e i loro aptenti e amici. Cioè della legge più improduttiva. Il Sud non ha futuro – comunque vota non per il futuro.

E se non ci fosse stato l’effetto reddito di cittadinanza al Sud, che ha portato al successo dei grillini in Sicilia 1 e Sicilia 2, e a Napoli città, a che percentuali di astensione sarebbe arrivato il Sud? Ma questo non è materia di riflessione: nei commenti il Sud è sparito.

Al Sud il partito Democratico è terzo, dietro Fratelli d’Italia, e dietro 5 Stelle. Cioè a poco. Singolare la campagna del Pd al Sud, dove nessuno sa che cosa volesse e chi fosse. De Luca a Napoli sapeva solo invettivare Meloni come “sora Cecioni”. A Bari il giudice Emiliano minacciava – minaccia? – di far “sputare sangue” a chi non avesse votato Pd. Non una grande politica.

Milano

Stupefacente Letizia Moratti, già presidente Rai, ministro, e sindaco di Milano con Berlusconi, candidata da Giorgia Meloni al Quirinale, come ricorda subito dopo il voto, mentre la settimana prima si distingue sul “Venerdì di Repubblica” per promuovere “l’arte afro e le battaglie lgbt” – ma “contro il blocco navale di Meloni”. Ma a Milano non fa scandalo - come Sala, che adesso è a sinistra. Una “tattica”, che è però un modo di essere, e una forza.

La Regione Lombardia mette a premio la ricerca: un milione al progetto che risulta ogni anno vincitore. È una somma rilevante per una simngola ricerca. Mecenatismo? Il 70 per cento del premio va speso in Lombardia, in beni e retribuzioni. È intelligenza: con 300 mila euro si paga una campagna pubblicitaria gratuita sui media, e forse anche un manufatto innovativo, o una metodologia, una procedura.

Un ministero a Milano sembrerebbe una stravaganza – Salvini ne dice tante, è una tecnica per occupare gli spazi. Invece Milano ci crede, il signor Cottarelli di ogni bordo.

Milano è onnivora, diversa dalle altre capitali morali, cioè degli affair, da New York rispetto a Washington, da Shangai rispetto a Pechino. Vorrebbe tutto, anche lo straccio delle pulizie – ma questo per, come diceva Malaparte, buttare la spazzatura al piano di sotto. 

È la capitale degli affari, ma anche – più – dell’opinione. Che si pensa fatta a Roma, dove si fa il cinema e la televisione, e invece è fatta a Milano: è senza confronti il peso di Milano sull’opnione: la moda, il gusto, i media, l’agenda politica e il giudizio politico.

Solo 17 giovani, insomma sotto i 35 anni, candidati in tutta la Lombardia. L’8 per cento del totale. Nessuno in posizione vincente nel proporzionale. Da dove si fa la morale alla politica vecchia.

“Cologno Monzese, preso con 470 kg. di hashish”. Non poteva sfuggire, è quasi una mezza tonnelata, e l’hashish ha anche peso specific ridotto, quindi ha volumi ingombranti. Non si poteva non vedere. La cocaina invece no, passa inosservata, anche ai Carabinieri.

E chi è il commerciante di hashish di Cologno Monzese? Un autotrasportatore, solo questo sappiamo di lui, niente foto, niente nomi. E che è cittadino italiano. Non un calabrese, però, è uno “nato in provincia di Milano”. L’inquisito lombardo vuole riguardi.

Record di multe stradali, grazie anche al gran numero di autovelox installati. È un bene o un male – gli autovelox sono acclarati macchine di tasse, e quelli nascosti arbitrary per di più?

Solo il quaranta per cento delle multe stradali sono pagate. È un bene o un male – il sessanta per cento dei multati le contesta? O le evade, c’è un modo a Milano?


leuzzi@antiit.eu

La scoperta dell'età

Il romanzo della vecchiaia. Incipiente, traumatica. In viaggio con Sartre a Mosca e Leningrado-San Pietroburgo nel 1966, pochi anni dopo un precedente lungo soggiorno, Nicole-Simone passa di notazione in notazione in rassegna i primi sintomi dell’età. Disorientata. Delusa, e anche un po’, parecchio, arrabbiata con se stessa, con le durezze che le hanno impedito di gustare a pieno gli anni: a un certo punto, al confronto con la volagerie di André-Sartre, che non disdegna le compagnie femminili giovani, e perfino il ballo, si scopre “ripresa dalla vecchia rigidezza, che non aveva mai del tutto vinta perché non aveva mai del tutto accettato la sua condizione di donna”.

Si può dire anche una riflessione sul femminismo, di cui Simone de Beauvoir è stata per molti aspetti antesignana, oltre che attivista. E un primo ritratto a distanza di Sartre, visto qui nell’aspetto godereccio, superficiale: beve, non si interessa più di politica, non crede nemmeno al comunismo, e si gusta la vacanza ora per ora. In compagnia di un personaggio femminile più giovane, romanzato come la figlia negletta di un suo precedente matrimonio, che in realtà è la guida-interprete della coppia, in quello come nei precedenti viaggi in Urss.

È la prima delle molte prose, riflessioni più che narrazioni, che Simone de Beauvoir dedicherà all’invecchiamento. E al rapporto, presente e passato, con Sartre. In un “romanzo” che sia lei che lui, ancora complici, giudicarono severamente. Ma non tanto da impedirle una immediata seconda versione, che intitolerà “L’età della discrezione”, e includerà subito, nel 1967, nella raccolta “La donna spezzata”. Ma conserverà con cura il dattiloscritto, pubblicato postumo, un decennio fa.

Si direbbe anzi una autofiction, il racconto di sé stessa in cui De Beauvoir ha primeggiato con numerosi titoli negli ultimi venti anni  - quelli oggi di più gradita lettura. Una primo esercizio in autofiction, sul rapporto di coppia con Sartre, subito dopo la scoperta degli anni che passano. La prima parte del capitolo ultimo dice molto di sé stessa, e di Sartre in rapporto a sé stessa. Soprattutto del suo ruolo, semplice e decisivo, nella demolizione della sua naturale frigidità: “Troppo covata da sua madre, trascurata da suo padre, c’era in lei questa ferita, di essere una donna. L’idea di stendersi un giorno sotto un uomo la rivoltava. Grazie alla delicatezza di André, alla sua tenerezza, lui l’aveva riconciliata col suo sesso. Aveva gioiosamente accettato il piacere”.

Una nota di Isabella Mattazzi ne spiega genesi e collocazione nell’opera di de Beauvoir.

Simone de Beauvoir, Malinteso a Mosca, Ponte alle Grazie, pp. 144 € 14

 


venerdì 30 settembre 2022

Letture - 500

letterautore

Alberi – Sartre li odiava. Simone de Beauvoir lo attesta nel primo schizzo biografico che ne fece, nel 1945, per presentare Sartre al pubblico americano: “Sartre detesta la campagna, la proliferazione degli alberi…”. Odiando tutto ciò che è naturale, anche i cibi – specie i cibi: “Più che l’aria pura delle cime o dell’alto mare, ama un’atmosfera carica di fumo di tabacco e riscaldata dalla respirazione umana”.

Aurora – “Al tempo dei romani la parola «aurora» significava letteralmente «Est»”, Philip K. Dick, “Valis”. Era la divinità che si manifestava ogni giorno all’alba volando attraverso il cielo da oriente, annuncio della nuova giornata. Come la divinità greca Ios (Ἠώς). Con la quale potrebbe condividere la radice indoeuropea aus, aues, brillare. In latino arcaico ausosa, in sabino Ausejnome di una divinità solare.

Biblioteca – “La cosa più vicina alla mente di Dio” per Umberto Eco. Che echeggia Borges, il bibliotecario per eccellenza: “Ho sempre immaginato il Paradiso come una sorta di biblioteca”. Entrambi echeggiando Dante, che nel “Paradiso”, fissando la mente divina, vede l’universo intero “legato con amore in un volume”? 

Caponata – C’entra, indirettamente, col “Vecchio e il mare” di Hemingway? Si fa, si faceva in origine, col pesce corifena o lampuga, in Sicilia detto capone, pesce settembrino, in agrodolce. Poi il pesce, per chi non poteva permetterselo, fu sostituito dalle melanzane. Lo spiega Tommaso Melili, il masterchef del settimanale “Venerdì di Repubblica”. Con una chiosa letteraria che è una piccola bomba: è col pesce lampuga o capone, che ha pescato alla lenza con la mano sinistra libera dalla corda al marlin che insegue da giorni, che il pescatore Santiago di Hemingway, “Il vecchio e il mare”, si ristora nella rincorsa cui l’obbliga il gigantesco marlin. Una novità assoluta e anche benvenuta per i lettori italiani. I quali in questi settant’anni hanno saputo che Santiago si era ristorato con un pezzo di delfino. Delfino? Orrore, crudeltà. E come il vecchio Santiago ricavava un pezzo di delfino, con la mano sinistra? È che Hemingway ha scritto dolphinfish, che è la lampuga o capone, spiega Melilli, e Fernanda Pivano. pur anglista eccelsa, intima di Hemingway e tutto, ha tradotto “delfino”. E ha fatto testo, fino alla ritraduzione, un anno fa, di Silvia Pareschi.

Dante - Tra i tanti amici russi, Serena Vitale ricorda in particolare, sul “Robinson”, “la moglie di Mandel’stam, che ha influenzato la mia vita”. Nadezda, che aveva mandato a memoria le poesie del marito, impedito di pubblicazione e finito nel gulag, e le trascrisse in tempi meno truci: “La prima volta che ci vedemmo mi chiese di recitarle qualche pezzo della ‘Commedia’ di Dante”. Vitale prova col canto di Ulisse. Ma deve aver saltato qualcosa perché Nadezda la interrompe: “Non si vergogna? Perché, le chiesi? Mio marito, rispose, conosceva Dante a memoria”.  

Fascismo – I giornali inglesi e quelli americani hanno evocato il fascismo a proposito della temuta vittoria di Giorgia Meloni il 25 settembre. Lo stesso 25 settembre “La Lettura” ha chiuso con cinque-sei pagine sul fascismo. Ma si trattava di lanciare il nuovo volume della serie che Scurati sta scrivendo su Mussolini, a mezzo secolo da quella, altrettanto voluminosa, dello storico De Felice. E di presentare la serie tv che se ne ricava. Ma, se non ne parlasse Scurati, dov’è il fascismo in Italia – in Italia oggi, in Italia nei settant’anni della Repubblica? Potenza della letteratura, diabolica?

Mussolini ha governato l’Italia per vent’anni, con un colpo di Stato, non votato dagli italiani. E l’ha governata col manganello: dov’è la colpa dell’Italia? È, è vero, un fenomeno editoriale, non si scrive di nessuno come di lui, quindi a grande richiesta, ma è letto da chi? Di più dai fascisti o non dai non fascisti e gli antifascisti? Senza proprietà catartiche, liberatorie, poiché ciclicamente si ripresenta.  

Oriente – È colonialista? Oxford dice di sì, gli Oriental Studies ha riclassificato in Middle Eastern Studies. Eastern va bene, Oriental no? In tempi di pace è come nelle alluvioni, che anche gli str…. vengono a galla – si può discutere di tutto, e a Oxford più che altro si tratta di competere nell’offerta educativa di costosissimi master agli asiatici, con gli altri tempi dell’istruzione privilegiati, inglesi e americani. Ma Oriente è un fatto, geografico e anche culturale. Con molti intrecci con l’Occidente, e tuttavia piuttosto caratterizzato, molto prima del colonialismo, e anche dopo. Ogni generalizzazione comporta approssimazioni, resta da vedere se al fondo dice qualcosa. C’è qualche differenza fra l’antico Egitto, o l’ebraismo, e i presocratici, radicale.

Un pictura poesis “I filosofi sono poeti e pittori, i poeti filosofi e pittori, i pittori filosofi e poeti”, Giordano Bruno.

Poesia – Leopardi la vede immutabile: “Tutto si è perfezionato da Omero in poi, ma non la poesia” (“Zibaldone di pensieri”, 58).

La poesia ingrassa, sempre secondo Leopardi, se non è nutrita dalla prosa (“Zibaldone”, 29, a proposito di Alfieri, che chiamava la prosa “la nutrice del verso”): “Uno che per far versi si nutrisse solamente di versi sarebbe come chi si cibasse di solo grasso per ingrassare, quando il grasso degli animali è la cosa meno atta a formare il nostro, e le cose più atte sono appunto le carni succose ma magre, e la sostanza cavata dalle parti più secche, quale si può considerare la prosa rispetto al verso”.

Porosità – Il concetto introdotto per Napoli da Walter Benjamin, ricorre in Philip K. Dick, in “Valis”, il primo volume della “Trilogia di Valis”, a proposito del “cratere”, il vaso greco – “questa forma di vaso era la stessa usata in seguito nei fonti battesimali”. Il veggente protagonista del romanzo ha visto il vaso in un museo di Atene, e ha sentito la parola cratere “collegata con un’altra parola greca, póros” – che ritiene significare “fonte di calcare”. Il Rocci in effetti censisce solo significati analoghi, di poros come canale, via, anche mare (“il mare Jonio”). E dà “poroso” come originario dai “Lapidei” di Teofrasto, per “materiale” - non come sinonimo di adattabile, duttile, non rigido.  

Settembre – “Settembre, teco esser vorremmo ovunque!”, D‘Annunzio, “Le carrube”.

letterautore@antiit.eu

La Maremma si celebra nei banditi

La Maremma fu a lungo terra di banditi di passo - di uno dei più celebri si appropriò (lo inventò?) Craxi, firmandosi Ghino di Tacco. Tutti più o meno finiti male - come Craxi: bandito non è beneaugurante, la parola è già una condanna. Ma dopo vite complicate, cioè avventurose. A danno di altri, specie i pellegrini della via Francigena. Era anche la Maremma da secoli territorio mefitico, di malaria, trascurato da proprietari assenti o remoti, i più vicini a Firenze, che talvolta nemmeno sapevano di esserne padroni.

La rievocazione – non una storia – si vuole nostalgica. Sottotitolo “Ballate degli ultimi briganti”. Come di una attrattiva turistica. Un’altra, da aggiungere alle tante di cui la Maremma beneficia in questo lungo dopoguerra, dopo le bonifiche fasciste, unitarie e lorenesi. Molteplici i personaggi – ma, poi, i banditi non sono tutti uguali, sotto il “colore”? Crudeli, di cui si sussurra, si escogita, qualche generosità, o anche un lume di acume – lume di acume? Sono soprattutto numerosissimi - c’è anche un Bianciardi, fumino come sarà Luciano, lo scrittore.

Un mondo che sembra inverosimile oggi, che la Maremma è un giardino, e la seconda casa di molti romani e anche milanesi, e tende al lusso. Ma i tempi dell’economia possono essere rapidi, perfino fulminei – come c’è un Blitzkrieg, la guerra-lampo, si dovrebbe ipotizzare un’economia-lampo (e sarebbe più semplice: basta applicarsi). Le abitudini invece no, questa raccolta nostalgica sembra una “storia vera”: la Maremma è sempre terra di passo, di banditi di passo. Ora nelle funzioni di amministratori comunali. Con le multe ineludibili ai viandanti ora motorizzati sulla via Aurelia, di cui si impedisce il raddoppio come autostrada, attraverso un sistema capzioso di segnali. E con le piccole, e non tanto piccole, soperchierie a danno degli avventurati che vi si sono stabiliti come al giardino delle esperidi. È curioso, ma è così: l’economia può correre, la natura umana, invece, quella non cambia.

Filippo Cerri, Di macchia e di morte, Effequ, pp. 360 € 18

giovedì 29 settembre 2022

Secondi pensieri - 494

zeulig

Bellezza – La bellezza certo è verità. Non solo per Platone, in senso filosofico cioè, o ma-tematico: la bellezza della formula, l’equazione, il teorema. Sospendono entrambe il vissuto, inevitabilmente mediocre, importuno, e danno un as-saggio di come potrebbe essere. L’assaggio è stato di sostanza cruda, acerba. C’è incidentale un bello illuminante in Rosenzweig, la filosofia a volte aiuta - Rosenzweig vi s’imbatte da apologeta della fede: è proprio vero che “il bello forma un ponte tra ideale e vita?”, si chiede, e si risponde che no, “assolutamente no”. Il bello sboccia nel canto. Appartiene al “regno delle ombre, con la sola differenza che è visibile”. Più in là non si va, a un certo punto l’estraneità dell’arte alla vita diventa taedium artis, “dove l’arte rappresenta ormai solo l’abbandono dell’arte”. Con le mutue estraneità: “La vita ha ciò che l’arte non ha, il gesto autentico”.

La bellezza secondo Wilde rivela tutto perché non esprime nulla.

Filosofia – Leopardi la voleva poesia – “Zibaldone”,  8 settembre 1823 (3383): “È tanto mirabile quanto vero, che la poesia la quale cerca per sua natura e proprietà il bello, e la filosofia ch’essenzialmente ricerca il vero, cioè la cosa più contraria al bello, sieno le facoltà le più affini tra loro, tanto che il vero poeta è sommamente disposto ad essere gran filosofo, e il vero filosofo ad es sere gran poeta, anzi né l’uno né l’altro non può essere nel genere suo né perfetto né grande, s’ei non partecipa più che mediocremente dell’altro genere” 

Non sembra. Ma in appunto precedente, 7 settembre 1821 (1651) è più persuasivo: “Quanto l’immaginazione contribuisce alla filosofia (ch’è pur sua nemica), e quanto sia vero che il poeta in diverse circostanze avria potuto essere gran filosofo, promotore di quella ragione ch’è micidiale al genere da lui professato, e viceversa il filosofo gran poeta”, osserva nella “facoltà e la vena delle similitudini”, anche “astrusissime e ingegnosissime”. Che è “facoltà d scoprire i rapporti fra le cose, anche i menomi, e i più lontani, anche delle cose che paiono le meno analoghe ec.”, che fa “tutto il filosofo”.

Giustizia - Noi gentili siamo legge a noi stessi, per via della coscienza. Che il senso morale ha prossimo, come il linguaggio, all’innatismo. Senza tavole del-la legge, o salmodia, o altre corazze orientali: la giustizia per un cristiano non è affare di legge ma di verità. Era così nella tradizione di Socrate, cioè di Platone, di cui san Giovanni fa un precetto del Vangelo, 1, 17: “La legge fu data a Mosè, la verità e la grazia sono date con Gesù Cristo”. Per questo la legge è sempre insoddisfacente. Il male del resto è molto più dell’illegalità, assassinio incluso: il peso del crimine sarà del cinque, dieci per cento rispetto a tutto il male autoinflitto, a quello della natura, malattia inclusa, degli affetti, del lavoro, dell’invidia, della gelosia, dell’avarizia e di ogni altro peccato, e della prepotenza quotidiana, specie quella dei tutori dell’ordine, che vogliono essere sbirri.

Immortalità – È implicita nel senso (concetto) della vita. Ma anche nel suo modo di essere. L’esistente è costellato di morti, nessuno e niente vi sfugge, animato o inanimato, probabilmente anche il minerale, ma il mondo non muore. La scienza ha difficoltà a stabilire un inizio vita, come forma (procedimento) e come tempo, anche all’ingrosso, di milioni o miliardi di anni. È come se la vita scorresse a prescindere dalle vite singole, come un essere al di sopra o al di fuori dell’esistente, del mondo – dell’universo? C’è la morte, sempre, ma la vita la trascende.

Sartre - Stoico lo vuole Simone de Beauvoir. Nel “Ritratto di Jean-Paul Sartre”, il primo di una serie, quello che scrisse a fine 1945, sull’onda del successo dell’“esistenzialismo” nelle boîtes di Montparnasse, per la rivista americana “Harper’s Bazaar”, che lo pubblicò a gennaio del 1946, in occasione del viaggio di Sartre negli Stati Uniti (gennaio-aprile 1946), invitato per una serie di conferenze – un testo rimaneggiato dalla rivista, e ora ripubblicato nella stesura originale nei Livres de Poche, in calce a “Les Inséparables suivi de Malentendu à Moscou”): prima di scoprirla a Mosca, Sartre aveva cercato la libertà in America.

Sartre ha avuto due fasi, spiegava de Beauvoir nel 1946: una in cui celebrava la libertà “su un piano immaginario, come creatore di opere immaginarie”. E poi, dopo la riflessione indotta dalla guerra e dalla prigionia, “nel cuore stesso dell’uomo: in quanto coscienza, l’uomo evita d’impantanarsi nel dato, in quanto libertà, lo sorpassa per gettarsi verso l’avvenire” – “la creazione letteraria conserva il suo valore agli occhi di Sartre, ma come una delle manifestazioni possibili della sua libertà”. In questa nuova fase “sembra in effetti a Sartre, come un tempo ai vecchi stoici di cui ama la morale, che con questa ricerca”, in interiore homini (questo Sartre di de Beauvoir si direbbe piuttosto agostiniano), “l’uomo può sfuggire alle minacce di tutte quelle cose irriducibili, ostili, che non dipendono da noi”.

Lo stoicismo di Sartre de Beauvoir aveva una pagina prima rappresentato come “passione di libertà” – e non di libertinismo - nella vita quotidiana: “Rifiutava tutto ciò che avrebbe potuto appesantire la sua esistenza e radicarlo dentro la terra. Non si è sposato. Non ha mai posseduto nulla, né un mobile né un ninnolo, né un quadro, né un libro: abita in camere d’albergo, in cui non si non si trova neanche un esemplare delle sue opere e la cui indigenza sorprende spesso i visitatori; ha sempre speso il denaro a mano a mano che lo guadagnava, talvolta spesso prima”.

Lo stesso Sartre, però, qualche pagina prima de Beauvoir ha detto uomo di città, alieno e anzi ostile alla natura: “Sartre detesta la campagna, la proliferazione degli alberi, il brulichio degli insetti; sopporta al limite il mare orizzontale, la sabbia unita del deserto, la freddezza minerale delle alte montagne; ma non si sente veramente a proprio agio che nelle città, dentro un universo costruito e popolato da oggetti fabbricati. Non ama né il latte grezzo, né i vegetali freschi, né i crostacei, ma soltanto i cibi lavorati, e preferisce sempre la frutta in conserva, i pesci in scatola a un prodotto naturale”.     

Storia - Una verità storica è vera una sola volta, spiega Carl Schmitt, ma non è vero che la storia è unica: ogni storia è come dice Aristotele, imitazione di un’azione.

Verità – Può non essere verosimile e viceversa, si sa - la verosimiglianza è più spesso ingannevole, quando non è stratagemma, del genere romanzesco. Freud ne fa l’esperienza quando prova a costruire la verità di Mosè. Che tutte le prove, anche se poche, dicono essere un altro da quello della tradizione: “Si tratta di una tradizione che riposa su una (sola) fonte, che nessun altro conferma, fissata per iscritto probabilmente troppo tardi (rispetto all’epoca di Mosè, n.d.r.), piena in se stessa di contraddizioni, certamente rimaneggiata più volte e deformata sotto l’influenza di nuove tendenze, intimamente mescolata ai miti religiosi e nazionali di un popolo”. Un “personaggio grandioso” che sta su un sassolino - “niente di quello che di cui disponiamo sull’uomo Mosè potrebbe essere considerato come affidabile”, era la premessa, di una storia che Freud si accinge a compiere sotto forma di romanzo, la “vera storia” non essendo possibile. Ma Mosè c’è, c’è stato per millenni e tuttora vive. E dunque: la verità è del Mosè storico, cioè come è. Perché la storia non sarebbe la verità, per quanto “romanzata”? Se non ce n’è altra.

Ma non può essere di comodo, se è vero ciò che è creduto. Ci vuole un fondamento. È della verità come del mito, fino a una certa epoca, quando era creduto e faceva legge. La verità mitica non è male. Invece della verità assoluta - che, “per la verità”, non si ritrova in nessuna filosofia, nemmeno quella tedesca.

La verità sempre emerge, ha sue vene nervose e più spesso sottili, perfino involontarie, ma sempre fluisce e inavvertita sbocca, la storia si deve acconciare.

L’opposto della menzogna è sempre la verità, un po’, e la menzogna stessa - verum factum, verum fictum non è un refuso: la verità è all’origine finzione e invenzione, e senza non ha argomenti.


zeulig@antiit.eu

Tristi rinascite

Tristi vite da single: l’anziano medico lasciato dalla moglie, la giovanissima prostituta alla quale sia accompagna, la ragazzina a cui il ragazzo dei sogni si concede ma solo per provare il sesso, la madre sola della ragazzina, che collega le tre storie, che si scopre a nuova vita con un’amica di vecchia data.

Settembre è il mese della ripresa, della riapertura, dei progetti e i buoni propositi. delle nuove vite. Ma i racconti Steigergewalt, attrice e sceneggiatrice di successo, Nastro d’argento per il debutto alla regia, al suo primo film fa malinconici. Solo tristezza inducono nello spettatore, da vecchio cinema neorealista, o nuovo cinema asiatico.

Giulia Steigerwalt, Settembre, Sky Cinema

 

mercoledì 28 settembre 2022

Ecobusiness

Il mercato del fotovoltaico dipende dalla Cina, più di quanto il gas dipende (dipendeva) dalla Russia. L’Agenzia Internazionale per l’Energia di Parigi, Iea, calcola che oltre l’80 per cento dei processi mondiali di fabbricazione dei pannelli solari è cinese. Pur assorbendone per uso interno un po’ meno del 40 per cento. E la quota cinese l’Iea stima in aumento rapido, fino a poco sotto il 100 per cento al 2025.

È cinese – esito di investimenti cinesi – anche la produzione di pannelli solari in Malesia e Vietnam. Nel 202i la Cina ha esportato fotovoltaico per oltre 30 miliardi di dollari. Malesia e Vietnam hanno esportato per oltre 10 miliardi.

Sono cinesi i primi dieci fornitori di materiali e prodotti per i pannelli solari. È cinese anche, all’80 per cento, la produzione mondiale di polisilicio, l’elemento principale della cella.

Il primato cinese ha solide basi tecniche, oltre che economiche, di costi. Nell’ultimo decennio i costi di produzione sono stati abbattuti dell’80 per cento. E l’“intensità energetica” (consumo di elettricità) nel processo di lavorazione è stata dimezzata.

Ma i giacimenti di polisilicio si concentrano nelle aree cinesi occidentali dello Xinjiang e dello Jiangsu, dove la potenza elettrica necessaria alla lavorazione è per tre quarti da centrali a carbone.

Immacolata in pena, d’amore

Seconda, o terza serie, questa volta all’insegna del melenso. Del dolciastro, l’invaghimento della tempestosa Tataranni per il carabiniere, ora maresciallo, suo aiutante. Melenso, appunto. Il ritmo c’è, ma sul vuoto.

Le storie di Mariolina Venezia si distinguevano per i personaggi fuori dagli schemi: Tataranni furiosa, il marito quieto, la figlia, il Procuratore Capo, le amiche, le feste, le vacanze. Un po’ come l’ambiente, Matera, la Lucania, i tanti nomi e le scene di paesi e paesaggi sconosciuti, i dialetti, i cibi. La sceneggiatura di questa seconda o terza serie le fa rientrare invece nel solito schema Rai 1, delle pene. Delle pene d’amore nella fattispecie – nessuno perde il posto, nessuno ha un incidente invalidante, nessuno è povero, gli altri schemi del dolorismo buonista. Col lieto fine assicurato, ci si può scommettere con sicurezza. Ma, nel corso delle puntate, si annunciano con altrettanta certezza pene lunghe e noiose.

La bravura di Vanessa Scalera, la “Immacolata” che meglio di ogni altro interprete si era adeguata al ritmo e agli schemi sopra le righe, questa volta non basta. Anzi, ne è la prima vittima – più che decisa è perplessa, ma del ruolo che le fanno interpretare: la ruga verticale sulla fronte sembra doppia, o tripla, ne spegne il ghigno. Tanto più si apprezza a posteriori l’energia con cui aveva saputo creare un personaggio altrimenti poco credibile, impetuoso e avventato ma vincente. Con l’energia della migliore tradizione, di Isa Danieli o Concetta Barra nel classico di De Simone “La gatta cenerentola”, da “tarantata” – si ha voglia di parlare contro i gigioni e i mattatori ma l’attore ha sempre, deve avere, un che di tarantato, d’“invasato”, avevano ragione gli antichi greci che per primi lo sperimentarono. Ci vuole però una trama e un testo, situazioni e dialoghi credibili.

Francesco Amato, Imma Tataranni, Rai 1

martedì 27 settembre 2022

Appalti, fisco, abusi (223)

Monte dei Paschi ci riprova col raggruppamento, dopo quello che azzerò gli aumenti di capitale degli anni 2010, e subito si dimezza di valore. Non è una banca, un’azienda che fornisce denaro, come probabilmente Unicredit aveva capito, ma una che se lo divora. Ora con i soldi pubblici, cioè di tutti, azionisti involontari a perdere.

Si fa la patente, documento complesso, di più capacità, e che si usa giornalmente, per guidare e come documento di riconoscimento, in agenzia, in tutta semplicità – la mandano pure a casa – e a costo ridotto. Si fa il passaporto, documento semplice, coma la carta d’identità, in fila per ore al commissariato, sul marciapiedi, insieme con i richiedenti asilo e i lavoratori immigrati. Almeno due volte, per presentare la fotina e il pagamento, oneroso, e per ritirarlo. Il ministero dell’Interno ancora non sa che potrebbe farlo da remoto, e comunque da seduti. 

Cambiare banca si era detto che era semplice - qualche governo vantava una semplificazione, o la solita legge civetta (“entro dodici giorni lavorativi”). Invece è complicato, e soprattutto lungo, dai tre ai sei mesi. Provare per credere. Non soltanto per lo scoglio del trasferimento titoli – poiché le banche hanno fondi e assicurazioni proprie, o di propria scuderia. Non bisogna avere comunque fidi aperti. Nemmeno mutui, è meglio. E poi c’è il problema degli assegni, anche se ora in disuso.

Alla chiusura di un conto dopo trenta o quarant’anni la banca chiede il conto degli assegni non utilizzati - quelli che si cassano (si cassavano) perché superflui o rifiutati oppure errati. E come si fa? Semplice: si va al commissariato, dove il piantone ha un modulo prestampato, si scrivono le matrici degli assegni invalidati, il piantone mette um timbro, ed è fatta. A che serve? A far perdere mezza giornata.

Molto sesso, siamo imìnglesi

Truculenta (piccola) serie Bbc su due cugine che le provano tutte, abbracciandosi, sbracciandosi, bagnandosi, nude e vestite, polpose, in vasca, a letto, per terra, in campagna, in macchina. Insieme con squadroni di gentlemen, vestiti o anche nudi. E con madri in fuga con l’amante.

Un polpettone. Senza verosimiglianza storica, benché datato annti 1920-1930. E nemmeno caratteriale. Si può leggere come una libera fantasia di ragazze invece che dei soliti ragazzi, di fronte ai boyfriend, ai fidanzati, ai mariti, che però per lo più sono brutti brutti e in età.

Resta un tentativo “vediamo dove possiamo arrivare”. Di prendere il pubblico esagerando. Ma non propriamente porno. Oppure sì, pornosoft. Una miniserie molto gay probabilmente, chi lo sa - è un altro canone?

Il titolo è del romanzo di Nancy Mitford, del 1945. Che però è vestito, e molto vecchia Inghilterra.

Emily Mortimer, The Pursuit of Love, Sky Serie

Il mondo com'è (453)

astolfo

Francesco Bianchini – Astronomo, storico, archeologo, fra Sei e Settecento, veronese trapiantato a Roma, alla corte pontificia, in corrispondenza con Newton, Leibniz e gli scienziati europei dei suoi anni, ricordato solo dalle guide turistiche, come architetto della meridiana nella basilica romana di Santa Maria degli Angeli, e in poche righe da Francesco de Sanctis nella “Storia della letteratura”, è ora rivalutato in America, con la pubblicazione alla Oxford University Press di una ricerca dello storico emerito, quasi novantenne, John Lewis Heilbron, “The Incomparable Monsignor: Francesco Bianchini’s World of Science, History and Court Intrigue”. 

Servì sotto tre papi, protetto dal cardinale Ottoboni prima e poi dal re Giovanni V, il Gran Re del Portogallo - anche quando i rapporti di Lisbona col papa si deteriorarono. Scoprì e segnalò tre comete. Scoprì anche Pompei, i resti di Pompei – e molto altro a Roma: la domus Flavia, il planisfero egizio all’Aventino, il colombario di Livia Drusilla sulla via Appia. Studiò Venere: voleva rifare quanto Galileo aveva fatto con la luna un secolo prima, redigerne una mappa, e a tale scopo costruì vari telescopi giganti – il più lungo era di 24 metri, con una capacità di ingrandimento di 112. E su Venere si perdette – sul calcolo della distanza e anche sulla superficie.

Oriente – Se ne contesta la nozione, in quanto colonialista, ma parola e concetto sono del Cinquecento. C’è un Oriente creatura dell’Occidente, fumoso – quello dei viaggiatori e fumatori, da Pierre Loti, anche Flaubert, a Robert Byron e Bruce Chatwin, sintetizzato da Pessoa: “Cerco nell’oppio che consola\ un Oriente a oriente dell’Oriente”, una via di fuga. Ma alle origini era solo un dato di fatto, raccontato già da Marco Polo, nel Cinquecento mediato culturalmente da Guillaume Postel - un gesuita che nel 1553 si erigerà in difesa di Serveto, il negatore della Trinità bruciato dai calvinisti, nel nome della “fede ragionata”.  

Parola e concetto di Oriente risalgono a Guillaume Postel, 1510-1581, giovane professore a ventotto anni al Collège de France di ebraico, arabo e siriaco, nonché conoscitore di greco e latino. Dopo essere stato a ventisei in ambasceria a Costantinopoli, alla corte di Solimano il Magnifico, per conto di Francesco I, in veste d’interprete e collettore di testi classici, greci, arabi, ebraici - il “re cristianissimo” cercava un’alleanza con i turchi contro Carlo V, il “protettore della cristianità”. Degli astronomi arabi Postel fu preciso commentatore, facendo dubitare della conoscenza che si aveva di Copernico allora in Europa, se non dello stesso Copernico. Sagacia analoga applicherà all’Egitto, ed è quindi anche all’inizio dell’“orientalismo”. La “fede ragionata” e la “ricomposizione di tutte le cose” nella fede unita, per le quali Postel si batté tutta la vita, annegheranno poi nell’egittologia – nell’orientalismo come esotismo. Che sarà napoleonica per essere stata anch’essa di Postel, in quanto autore anche di una “Chiave di tutte le cose”, ossia dei tarocchi – l’Egitto del futuro imperatore era nelle carte.

 

Nel 1549, illustrando “La vera descrizione del Cairo”, la mappa stampata a Venezia da Matteo Pagano, Postel spiega, correttamente, che la città è turca più che araba, e che le Piramidi sono “mostri incoronati”, monumenti alla tirannide, non i granai di Giuseppe che si dicevano. Ma nella “Chiave di tutte le cose”, pubblicata prudentemente postuma, un secolo dopo, nel 1646, quando l’astrologia con Urbano VIII era in vigore, apre la città ai misteri.

Il Cairo costituisce da sempre un problema aperto per l’orientalismo. L’origine di questo Oriente è in Plutarco, che attribuisce a Iside l’istituzione dei misteri, grandi e piccoli, o verità esoteriche riservate agli iniziati, nonché in Erodoto, Platone, Apuleio e perfino in Aristotele. Una serie di finzioni ne germinò, culminata in Orapollo, l’autore dei “Hyerogliphica” che in realtà non sapeva nulla dei geroglifici. In epoca moderna l’origine è in Postel, che più di ogni altro pure ha affidabilmente tracciato le radici orientali, semitiche, di tanta cultura occidentale. E nell’Inquisizione, che processò Postel per le opere sulla fede unica, la “fede ragionata”, e sulla concordia religiosa, ma la natura cabalistica dell’Egitto, poi teosofica, lasciò invece incontestata. E fu l’Oriente taroccato, “la chiave di tutte le cose” - ma si direbbe meglio “la chiave delle cose nascoste”.

 

Postel non era un imbonitore, fu anzi uno studioso, dell’islam, le lingue semitiche, l’impero turco, Atene all’era di Pericle, l’unione delle fedi, il dialogo tra monoteisti, cattolici, riformati, mussulmani, ebrei. Ma a un certo punto ebbe le visioni. E costrinse sant’Ignazio a denunciarlo all’Inquisizione, e papa Paolo IV a rinchiuderlo, dannandolo ad infamiam amentiae, all’infamia della follia, e all’Indice. Il carcere gli fu aperto quando il papa morì nel ‘59, ma Postel si isolò nel priorato di Saint-Martin-des-Champs a Parigi, oggi sede del Conservatorio e del Museo arti e mestieri, dove morì nel 1581. Le visioni erano di una Madre Zuana o Giovanna, Vergine Veneziana, o Veronese, Mater Mundi, Nuova Eva, Donna santissima, Messia femmina, che si voleva incarnazione dello Spirito Santo: Postel scriveva per conto di lei, delle sue mistiche unioni.

Primo orientalista, a lungo il migliore, filologo solido, aveva debuttato a tredici anni come maestro di scuola al suo paese in Normandia. Poi decise di continuare gli studi, al collegio Santa Barba a Parigi, dove entrò domestico. A ventisei anni era parte dell’ambasceria di Francesco I a Costantinopoli. A ventotto anni professore al Collegio di Francia. Nell’occasione pubblicò in latino una “Introduzione ai caratteri alfabetici di dodici differenti lingue”, nella quale decritta le iscrizioni sulle monete della rivolta ebraica come ebraico scritto in caratteri samaritani. Insegnò a Parigi, Vienna, Roma, Venezia e altrove. A Parigi, le sue lezioni al collegio dei Lombardi richiamarono tale folla che dovette tenerne anche in cortile, da una finestra.

Delle opere riscattate in Oriente Postel editò gli astronomi arabi e la Cabala. Fu traduttore in latino dello “Zohar”, del “Sefer Yezirah”, del “Sefer ha-Bahir”, nonché illustratore dei significati cabalistici della menorah. Con aperture che avrebbero potuto eliminare alla radice le derive maschiliste della cabalistica, ma gli valsero l’ostilità di sant’Ignazio. L’inquisitore Archinto, cui il santo lo denunciò, lo assolse e l’ordinò prete, “a titolo di purezza, come erano gli apostoli”. Ignazio lo sottopose allora a una speciale commissione di tre giurati, i gesuiti Salmeron, Lhoost, Ugoletto, che lo dichiararono “soggetto a illusioni manifeste del demonio”. Postel aveva conosciuto Ignazio di Loyola quando questi era a Parigi, al collegio dei Lombardi. E aveva preso i voti di povertà, castità e obbedienza, quale novizio gesuita, a Roma, ripetendo il giuramento nelle sette chiese.

Filologo ineccepibile, Postel deriva tarocco dall’egiziano taro, strada reale, termine composto da tar, strada, e ros o rog, regale – da cui, forse, la Scala Reale del poker. Lo studioso individua anche un nesso fra tarocchi e cabala, tra i semi e gli elementi primordiali. Nello stesso anno, 1540, in cui si creava a Rouen la prima società dei maestri cartai. Che nel 1581, l’anno in cui Postel morì, diverrà arte riconosciuta all’interno della Corporazione arti e mestieri di Parigi, quella che avrà poi sede al boulevard Saint-Martin, e assoggettata a imposta di bollo. Ma semanticamente Postel collega gli Arcani Maggiori ai geroglifici del Libro di Toth, il dio della medicina. Geroglifici che ancora per secoli non saranno leggibili.

Regalità – È stata spesso a Londra esposta sulla picca, dopo la decapitazione, anche a distanza di tempo dalla morte. La “rivoluzione inglese” cominciò con la condanna a morte, il 27 gennaio 1649, del re Carlo I, per decapitazione. Olivier Cromwell, il suo nemico, permise che la testa fosse ricucita al corpo, e che dei funerali fossero celebrati, in forma privata. Il giudice, John Bradshaw, subì a sua volta un’esecuzione postuma: fu dissotterrato, impiccato, decapitato, e buttato in una fossa comune, mentre la testa restò a lungo esposta davanti a Westminster Hall, dove aveva celebrato il processo e inflitto la condanna a Carlo I.

Decapitato per tradimento Carlo I, il Parlamento, manovrato e intimidito da Cromwell, si rifiutò di incoronare Carlo II, e passò al regime repubblicano, sotto lo stesso Cromwell, che si nominò Lord Protettore, anche se non c’era erede al trono in minore età, da proteggere – nominerà erede suo figlio, alla coreana, di cui però non si tenne conto. Cromwell inseguì Carlo II per sei settimane, ma il pretendente riuscì a sfuggirgli, riparando in Francia.

Nel 1661, per l’anniversario della decapitazione di Carlo I la salma di Cromwell, morto nel 1658, fu sottoposta a “esecuzione postuma – hanged, drawn and quartered, impiccato, affogato e squartato: il corpo fu gettato in una fossa comune, la testa infilata su un palo ed esposta davanti a Westminster, peer venticinque giorni.

Cromwell liquidò con i Puritani la dinastia inglese più colta e munifica, e la stessa eredità di Shakespeare, distruggendone con cura il teatro – e con la censura occhiuta del suo segretario per le lettere in latino, il poeta John Milton, cavaliere dell’anticensura. Una sorta di Kim Il Sung, pure lui voleva lasciare la repubblica al figlio. Ma veloce, tutti i morti fece in soli quattro anni.  In Irlanda, che stava pacifica, per scacciare i cattolici fece 616 mila morti su un milione 466 mila persone. Li calcolò all’unità William Petty, medico al suo seguito, che divenne per questo computo baronetto e, secondo Marx, il padre dell’economia politica.   

 

La regalità inglese si è distinta per esecuzioni. Maria Stuart, regina a soli sei giorni di vita, educata a Parigi da Caterina dei Medici, era stata fatta decapitare da Elisabetta I sua cugina, dalla quale si era rifugiata, a 44 anni. Elisabetta poi morì nubile, e la corona passò al figlio di Maria, Giacomo Stuart, designato dalla stessa Elisabetta. Calo I Stuart, finito sul ceppo nel 1649, era il figlio di Giacomo.

Enrico VIII Tudor, “il più bel principe della cristianità”, 1,90 m., per ripudiare la moglie e sposare la ventenne Anna Bolena, fece decapitare il suo venerato cancelliere Thomas More, oggi santo, inventore e autore di utopia, la parola e il progetto, di una umanità in pace, accusandolo di tradimento. Era il 6 luglio 1535: la testa di More fu esposta al London Bridge per un mese.

Un anno dopo il re aitante fece decapitare Anna Bolena, accusandola di stregoneria, e di incesto con il fratello, per sposare la dama di corte Jane Seymour - ma la fece decapitare con una spada e non con l’accetta. La prima moglie Caterina invece non decapitò e nemmeno imprigionò, essendo essa principessa d’Aragona, figlia di Ferdinando “Il Cattolico” e Isabella di Castiglia, protetta da Carlo V.

Il 28 luglio 1540, il giorno in cui nel Surrey sposava la quinta moglie, Caterina Howard, alla Torre di Londra Enrico VIII faceva decapitare il suo nuovo Cancelliere fidato Thomas Crown. Due anni dopo anche Caterina finiva decapitata alla Torre di Londra.

La figlia ed erede di Enrico VIII, Mary Tudor, sarà “Maria la Sanguinaria”.

Caro III ha scelto come corona quella dei Tudor.

astolfo@antiit.eu

 

 


lunedì 26 settembre 2022

Ombre - 634

Meloni non fa tremare le Borse, che guadagnano – malgrado la continua caduta dei listini asiatici, “governati” dalla Cina, che moltiplica i problemi, l’edilizia, il credito, e ora la politica. Piazza Affari cresce, il debito (spread) non preoccupa.

Il post-Draghi parte bene. Ha vinto l’unico partito che era fuori del governo Draghi, questo è un fatto. E ha vinto nelle regioni più produttive dell’Italia.  

Nelle felicitazioni d’uso delle capitali al voto di ieri si distingue Bruxelles. Per una nota anonima, e fredda: “Speriamo in collaborazione costruttiva”. Come se Bruxelles fosse avulsa da Roma, o Roma non fosse Bruxelles. Ma forse non è solo questione di percezione: Bruxelles è questa, remota, anche poco intelligente, o furba. E ostile, non si sa perché.

Incide forse nell’albagia (insolenza?) di Bruxelles l’avversione di von der Leyen, come di tutta la Democrazia Cristiana europea, per lo slittamento a destra del suo elettorato, in Ungheria, in Polonia, ora in Italia, e presto forse in Spagna. In Germania invece il crollo Dc è andato a favore dei socialisti. Il futuro europeo è bipolare? 

Ma, poi, lo schieramento oggi è sempre quello che si ripete dal 1994: il centrodestra è sempre al 44 per cento. Prima attorno a Berlusconi, poi attorno a Salvini, ora con Meloni. In un certo senso, è disperato.

Meno 9 per cento, dunque, al voto, rispetto a quattro anni fa, quattro milioni e mezzo di elettori in più non hanno pensato a votare. Un popolo. Ma soprattutto al Sud. In Calabria appena il 50,80 per cento. In Sardegna il 53,17. In Campania il 53,27. In Puglia il 56,56.

In Sicilia ha votato il 57,35 per cento. Il centro-destra ha evitato l’en plein berlusconiano di due clamorose elezioni, essendosi affermati due 5 Stelle, e due di Cateno De Luca, il sindaco di Messina. 

5 Stelle primi in tutto il Sud: Molise, Campania, Puglia, Basilicata, Calabria, Sicilia – secondi in Sardegna e Abruzzo, dietro Meloni (in Sardegna per mezzo punto, poco più, dietro Fdi, 21,94 per cento contro 22,58, in Abruzzo 18,7 contro 27,2).

E se non ci fosse stato l’effetto reddito di cittadinanza al Sud, che ha portato al successo dei grillini Sicilia 1 e Sicilia 2, e a Napoli città, a che percentuali di astensione sarebbe arrivato il Sud? Ma questo non è materia di riflessione: nei comenti il Sud è sparito.

Al Sud il Pd è terzo, dietro Meloni, e dietro 5 Stelle. Cioè a poco.

Singolare la campagna del Pd al Sud, dove nessuno sa che cosa volesse e chi fosse – a parte l’asettico Letta, che ha fatto la campagna elettorale della non-campagna. De Luca a Napoli sapeva solo invettivare Meloni come “sora Cecioni”. A Bari il giudice Emiliano minacciava – minaccia? – di far “sputare sangue” a chi non avesse votato Pd. Non una grande politica.

Singolare corrispondenza fra i sondaggi e il voto. I sondaggi hanno perfezionato la tecnica di rilevazione e di interpretazione? Gli intervistati sanno o vogliono esprimersi con chiarezza? Ma nessuno sapeva dell’astensione, così massiccia. Non un “voto” di protesta quindi, quella si annuncia, ma di confusione: nessun partito in effetti ha detto qualcosa di preciso su cosa intende fare.

Nei salotti dei commenti al voto ieri sera e oggi, anche quelli di destra, c’è ignoranza di che cosa sia e cosa voglia il partito di Giorgia Meloni. Tutti sono versati sul Pd, qualcuno sui 5 Stelle, e basta. Non è ignoranza naturalmente, è disinformazione. Uno squilibrio perfino caricaturale dell’informazione, che sa ragionare solo nei termini del Pd – che non si sa quali siano. O forse sempre di “la Repubblica”, benché il giornale non convinca i suoi lettori: non c’è altro giornalismo in Italia.

C’è molta perplessità maschile, e anche femminile, di fronte a Giorgia Meloni. Degli stessi che hanno espresso ammirazione per la spregiudicatezza della prima ministra finlandese, in teoria in guerra con la Russia, nientemeno, ma occupata in balli, alcol e fumo, da mandare bellamente in onda. Un po’ per provincialismo, ma un po’ per l’albagia di chi fa opinione in Italia, che deve sempre essere un sopracciò – migliori anche del papa, vedi Scalfari.

E la premier inglese, ignorante ma tanto apprezzata, una sconosciuta e nemmeno capo di partito, designata da quattro signori in ombra?

La singolare conclusione di tanta saggezza è che Meloni ha vinto da sola, tipo vamp, senza partito. Mentre ha vinto ovunque, senza borsa delle elemosine, e nell’uninominale. Che richiede una peculiare conoscenza del voto locale. Così semplice.

 


L’amica geniale di Simone de Beauvoir

Il romanzo di una amicizia amorosa. infantile, poi adolescenziale, poi giovanile, fino alla morte dell’amica, a 22 anni. Un racconto più che un romanzo, una storia vera che de Beauvoir ha romanzato per minimi particolari, i nomi, i gruppi familiari. Del suo attaccamento con Élisabeth Lecoin, “Zaza”, coetanea e compagna di scuola: conversazioni, lettere, feste, sorelle, madri, padri, musi lunghi, tutto caratterizzato, senza artifici. E dell’amore, che lei stessa ha in più modi patrocinato, tra Zaza e il futuro filosofo Maurice Merleau-Ponty, suo grande amico negli studi universitari e dopo.

Un racconto rinfrescante di una storia vera. Piano e vivace, minimale e tuttavia sorprendente, per la sua semplicità. Scritto da Simone de Beauvoir all’indomani del suo primo successo, “I mandarini”, 1954, subito dopo il premio Goncourt. Che poi ha deciso di non pubblicare, ma lasciandolo come in bozze. Non avrebbe del resto potuto, essendo in vita i familiari di Zaza, che vi hanno grandi spazi, specie la madre, e Merleau-Ponty, che della scrittrice fu l’amico per eccellenza, ai vent’anni e dopo. Della vita “straordinaria” e la morte di Zaza scriverà ancora quattro anni dopo, nelle “Memoria di una ragazza perbene”, ma non è lo stesso racconto in prima persona, meravigliato, meravigliante, della bambina, poi della ragazza, poi della giovane Simone.

La presentazione di Sylvie Le Bon de Beauvoir, la compagna poi figlia adottiva di Simone ed esecutrice testamentaria, vuole farne una una storia di diritti lgbtq allora conculcati, un secolo fa. Ma fra le tante emozioni che Zaza suscita il sesso manca. Se ne discute poco, alla fine, per dire la cecità della chiesa: sia Zaza che Simone vengono da famiglie religiose, lo sono anche loro, a loro modo, e ragionando sui ragionamenti del cattolicissmo “Pascal”-Merleau-Ponty capiscono l’assurdità dell’ossessione contro la sessualità in tutte le sue forme, anche le più innocenti, un abbraccio, uno sfioramento, l’ossessione del corpo - non se lo dicono ma ne ragionano come di una psicosi, perfino isterica.

Una storia commovente. E insieme svelta, attraente. Un racconto che sembra la matrice o il canovaccio de “L’amica geniale”, come se Elena Ferrante l’avesse riprodotto tal quale, cambiando solo la scena e l’ambiente sociale, popolare invece che borghese, cattolico, inserito. Beauvoir si rivela pian piano grande narratrice, polimorfa, polivalente, un globo di cristalli luminosi riflettenti, piuttosto che la musa arcigna di filosofie pratiche dell’immagine prevalente.

Simone de Beauvoir, Le inseparabili, Ponte alle Grazie, pp. 208 € 15


domenica 25 settembre 2022

Ombre - 633

“Il dollaro forte spinge l’inflazione”. Se ne accorge infine “Il Sole 24 Ore”, nel colonnino di un rubrichista, Minenna: l’aumento anticipato ed elevato del tasso di sconto in America, per prevenire l’inflazione, concorre a causarla e gonfiarla in Europa. A quando una riflessione sull’evidenza che gli interessi di Europa e Stati Unti sono diversi e divisi? Anche prima della crisi ucraina. Dove solo l’Europa paga le sanzioni, mentre gli Stati Uniti se ne avvantaggiano, col rincaro degli idrocarburi, di cui sono esportatori, e il congelamento degli enormi asset russi in titoli e depositi americani.

“Finanza creativa, bolla distruttiva”: il colpo di verità è doppio del “Sole 24 Ore” questa domenica, ma confinato al supplemento cultura. Una riflessione dell’economista emerito Onado, che ha visto ora “La gande scommessa”, il vecchio film molto wallstreetiano contro la Wall Street della crisi bancaria. Degli alligatori sulla pelle del mondo, al coperto del mercato – il mercato è libertà…

La cosa era recentemente attualizzata dalle due serie italiane “I diavoli”, molto efficaci, sui nuovi pescecani “shortatori”, specie contro il debito italiano – passate invece sotto silenzio.

Si vota contemporaneamente in Brasile. E Wall Street si dichiara pronta a brindare alla vittoria della sinistra, di Lula. Mentre guarda con apprensione all’Italia, dove si prospetta una vittoria della destra. Un tempo il capitale era di destra, al tempo di Marx e anche dopo, ora è di sinistra.

È una fake news la “notizia” che il presidente cinese Xi è stato arrestato. Una goliardata, diffusa da cinesi espatriati, che non hanno altro modo per farsi intendere. Però in armonia col regime: si dimentica che Xi è il presidente della Cina in quanto è il controllore del partito Comunista. E i partiti comunisti regolarmente si “purgano”: l’abbattimento del capo è la prassi in questi regimi.

Lo stesso Xi non è emerso sfidando il presidente Hu Jintao – come questi si era affermato facendo fuori il suo pigmalione Jiang Zemin. Del resto, il sorridente Xi è un dittatore a tutti gli effetti: esercita la censura e la sorveglianza di massa, gestisce arresti e condanne, si è fatto presidente a vita, usa la mano forte contro Hong Kong, i cristiani (processa un cardinale di 97 anni), gli islamici e chi capita.

Nel mezzo di una tempesta social in Iran di donne che protestano per la violenza usata a una ragazza fermata perché non portava bene il velo, si produce venerdì una manifestazione di donne coperte di nero. Una manifestazione organizzata dal regime, si dice. Probabile. Ma i venerdì della “rivoluzione khomeinista” nel 1978 erano al 90 per cento di donne coperte di nero. E nel 1980, al “processo” al Majlis (Parlamento) ai cinquanta ostaggi presi all’ambasciata americana, il pubblico era di donne ammantate di nero. Ciò che vogliono le donne nell’islam resta oscuro, anche in un mondo di immensa cultura come l’Iran.

Il curioso di Berlusconi a “Porta a porta”, del “governo di gente perbene” di Putin a Kiev, non è l’enormità della cosa, ma il ghigno furbo di Berlusconi mentre la dice – “l’ho detta grossa abbastanza?” Non nuova, è anzi la sua cifra, del politico “Grande Comunicatore”. Possibile che la politica sia catturare l’attenzione? Con la violenza no, non più, non usa in regime elettorale, spaventerebbe, ma con quella verbale sì, e eccessiva?

Originale vigilia elettorale senza giudici in campo: nessuna denuncia, nessun arresto, nessuno scandalo. Si sono astenuti anche sui soldi di Putin. La riforma Cartabia li ha rinsaviti? O è la prospettiva della destra vincente, di tutti i sondaggi, che li fa sperare per il meglio, da vere eccellenze con l’ermellino, l’unico ordinamento dello Stato non defascistizzato, dopo settant’anni?

La sintesi del voto – da come il voto si prospetta – la fa Guccini: “Ma sì, proviamo anche questa. Ecco, gli italiani, dopo aver provato Berlusconi, Renzi, Grillo, Salvini, vogliono provare Meoni”. Ma Guccini li vuole “innamoramenti di pancia, che sfioriscono presto”. E invece no, sono tentativi di ancoraggio, dopo che i giudici hanno distrutto gli assetti politici.

C’è una distinta visione dell’Italia al voto tra i media italiani e quelli stranieri. I media italiani, anche quelli di sinistra, non evocano il fascismo, il ritorno del fascismo - ha già avuto governi di destra, ed è sopravvissuta. Quelli stranieri, soprattutto inglesi e americani – ma ci ha provato anche “Le Monde” – non dicono altro: “Il ritorno del fascismo in Italia”.

È strano come nei media angloamericani non si riesca – non si voglia: corrispondenti scontenti o mediocri, Roma è una sede secondaria? – a mettere a fuoco l’Italia. Vanno va per frasi da decenni ritrite: mafia, Mussolini, il negozio sotto casa, la convivialità – che si possa stare a tavola due e tre ore. O è l’Italia che non si colloca bene nella globalizzazione, che è come gli anglosassoni l’hanno fatta, vuole uniformità Altrimenti, tra mafia e fascismo, non se ne esce: l’Italia resta strana, a voler essere buoni.

Però è vero che solo Tim Parks, cioè un inglese, benché venetizzato, e con l’ausilio della moglie Rita Baldassarre, a rifare la strada che fece Garibaldi in fuga con Anita dalla Repubblica Romana. Sentiero per sentiero, tappa per tapa, vedere come e dove il futuro Eroe dei Due Mondi dovette inguattarsi. Repubblica Romana, e che cos’è?

Nel successo planetario della giornata di esequie londinese della regina Elisabetta, 4 miliardi di persone sono date ai televisori nel mondo, l’auditel per la Gran Bretagna dà 28 milioni di spettatori. Che viene menzionato come un grande numero, ma su una popolazione di 68 milioni fa il 40 per cento, poco più. Molto meno di Sanremo, più o meno il pubblico di un Montalbano nuovo – quando se ne facevano.  

L’invenzione dell’Oriente, condannata dall’Inquisizione

L’opera postuma, meno scientifica ma più duratura, del cultore e inventore dell’orientalismo - dello studio della cultura, storia e filosofia dell’Oriente, che ora si vuole espellere come colonialista (nel Cinquecento? Oxford l’ha cancellato, ma l’università L’Orientale di Napoli non se ne vergogna). “Chiave delle cose nascoste nella costituzione del mondo per mezzo della quale sia nelle nozioni divine che in quelle umane lo spirito umano squarcerà il velo della verità eterna” è il sommario-sottotitolo degli editori – l’opera fu pubblicata postuma, nel 1646 (Postel è autore cinquecentesco, 1510-1581). Un concentrato dell’eclettismo di Postel, e della sua deriva esoterica una volta espulso dall’ordine dei gesuiti nel quale si era distinto.

Postel sopravvive così per la sua ricerca ermetica e iniziatica. Influenzata dall’ebraismo, “Zohar”, “Sfer Yetzirah”, di cui era stato il primo traduttore in latino. Dalla filosofia dell’occulto, nel filone più ampio dell’irrazionale. Ma era stato un grande umanista, l’“inventore”, a petto del suo Oriente, di un Occidente che ora si vorrebbe proscrivere come colonialista, il suo primo mediatore culturale, per la conoscenza dell’arabo e dell’ebraico. Ragazzo prodigio, maestro di scuola a tredici anni, professore di ebraico e di arabo a trenta al Collège de France. Processato da Ignazio di Loyola personalmente a un certo punto per la sua adesione alle discipline esoteriche studiate, ed espulso dall’ordine dei gesuiti – processato quindi dall’Inquisizione, non condannato ma con i libri confinati all’Indice.  

Guillaume Postel, La chiave di tutte le cose, Sebastiani, pp. 128 € 9

Gnosi, pp. 104 € 14