sabato 24 dicembre 2022
Secondi pensieri - 500
Anima - “Non esiste. Esiste però l’idea di anima”, Umberto Galimberti. Cioè esiste,
anche se non è una cosa. Sono le parole cose – “Nomina sunt consequentia rerum”.
Anche se non sono un minerale, un oggetto.
Sinistra – La “sinistra” politica è solo politica, anzi ideologica. Adagiata su presupposti. Tra i quali ci sarebbe la contemporaneità, l’ascolto e l’analisi della realtà del mondo, produttiva, sociale, ideale (ideologica), man mano che si sviluppa, nelle sue cause e nei suoi effetti, secondo l’approccio critico che Marx ha teorizzato – e praticato nei suoi studi. Dovrebbe esserci, ma è eliminata nella pratica, o trascurata: non ci sono molte analisi o studi, anche in epoca di presunzione critica, realistici e quindi incisivi della vita in Italia, politica, economica, sociale (civile). O nel mondo: si vive nel mondo passivamente, come nell’ignoranza. Ci sono molte parole, molto vuote.
Venerdì 1 luglio 2011
Com’eravamo felici quando eravamo infelici
Un film “storico”, benché borghese. Un com’eravamo, nostalgico
e critico insieme. Della vita a Roma cinquant’anni fa, quando il regista ne ha
dieci. Di una coppia che ha tre figli, e litiga senza separarsi. Vive in periferia
a Roma, ma con vista del Cupolone – e fa vacanze da sogno, in location
spagnole (il film è una coproduzione italo-spagnola).
L’epoca è segnata da automobili, canzoni, film e tv d’epoca.
Da “L’immensità” di Don Backy-Dorelli, che Mina illustrerà, e soprattutto da Raffaella
Carrà, col tumultuante, trascinante Celentano di “Prisencolinensinainciuol”.
Cui ritorna la figlia maggiore, adolescente che si vuole maschio, quando non si
avventura negli spazi aperti in periferia, o alla contemplazione dei cieli
azzurri. Che “L’immensità” coronerà cantandola in finale in tenuta festivaliera,
col ciuffo da ragazzo.
Crialese vuole la storia “autobiografica” – “come ne
hanno fatte i miei amici Cuaròn e Iñárritu” (non Fellini di “Amarcord”?). E un
omaggio alla donna, madre e amante – Penelope Cruz che regge il ruolo è anche
la Penelope di Omero. La ragazza che vuole essere ragazzo è l’infanzia-adolescenza
libera da binari e ruoli prestabiliti.
Un buon programma, forse montato male.
Emanuele Crialese, L’immensità, Sky Cinema
venerdì 23 dicembre 2022
Cronache dell’altro mondo – bellicose (236)
La guerra in Ucraina sta consumando gli
arsenali (armi, munizioni, missilistica contraerea) dei membri Nato che dispongono
di “eserciti bonsai” – come vengono familiarmente denominati: venti su trenta
membri della Nato (“New York Times”).
Il consumo di munizioni e mezzi è in
Ucraina a livello impensabile rispetto alle guerre Nato. In Afghanistan si
lanciavano anche trecento salve di artiglieria al giorno, senza problemi di approvvigionamento
– ma non c’era bisogno della contraerea. Le forze ucraine arrivano a migliaia
di salve di artiglieria al giorno, con un uso a tappeto della missilistica anti-missilistica
(“New York Times”).
Gli Stati Uniti hanno fornito all’Ucraina
poco meno di venti miliardi di dollari (19,7 miliardi) in assistenza militare
nei due anni di presidenza Biden, secondo il sito Big League Politics, di
estrema destra - secondo altre fonti (Molinari, direttore di “la Repubblica”) le forniture militati Usa sono “quasi 45 miliardi di dollari”.
Secondo il “New York Times” la collaborazione militare Nato con l’Ucraina è cominciata prima della guerra. Un anno fa, nella guerra civile nel Donbass, l’Ucraina impiegava i sistemi anti-droni Sky Wipers, sviluppati in Lituania e forniti dalla Nato.
Congresso Usa vs. banche sulle carte di credito
Una battaglia
politica è in corso da un paio d’anni negli Stati Uniti fra il Congresso e le
banche sulle commissioni che gli esercenti devono pagare per l’uso delle carte
di credito. Commissioni che da una parte, spiega il “New Yorker”, vengono trasferite
dagli esercenti ai consumatori, e dall’altra, attraverso i punti a premio, finiscono
per arricchire i più ricchi. Una relazione che sembra incongrua, ma bisogna
tenere conto che il pagamento con carta di credito è negli Stati Uniti un fatto
commerciale e non di civiltà, come si legge e si sente dire in Italia.
Le commissioni negli
Stati Uniti sono alte, mediamente sull’1,4 per cento, secondo uno studio del
2020 della Federal Reserve Bank di Kansas City – in Europa le commissioni da
alcuni anni sono molto inferiori. Un aggio che moltiplica i profitti delle
banche: uno studio della Stern School of Business della New York University
calcola che nel 2021, anno di attività ridotta a causa del covid, le sette maggiori
banche nazionali hanno beneficiato di margini netti di utile del 32 per cento,
un record, grazie alle commissioni sui pagamenti – i margini sono stati molto
più alti per i due circuiti di pagamento, del 45 per cento per Mastercard e del
51 per Visa.
Su questo aggio la
concorrenza è forte, e si esplica soprattutto con i premi a punti. Con premi
doviziosi – c’è chi viaggia senza spendere, con i punti accumulati pagando con carte
di credito.
Il trasferimento
di ricchezza dai dettaglisti e dai consumatori alle banche e ai grandi consumatori
con i pagamenti via carta è stimato variamente, ma comunque elevato. Uno studio
commissionato dall’Hispanic Leadership Fund a due economisti della Wharton
School, Efraim Berkovich e Zheli He, calcola un “trasferimento” di tre miliardi
e mezzo di dollari l’anno dalle famiglie con reddito annuo inferiore ai 75 mila
dollari alle famiglie con reddito superiore. Un miliardo abbondante di questo
totale verrebbe da famiglie con reddito annuo inferiore ai ventimila dollari. E
due miliardi di dollari (1,9 per l’esattezza) viene trasferito, attraverso il
sistema dei premi, ai redditi da 150 mila dollari in su.
Della questione si
è investito infine il Congresso, dopo un contenzioso di vari decenni fra
esercenti e banche che non ha avuto alcun esito. Con iniziativa parlamentare bi-partisan,
di Democatici e Repubblicani iniseme. Un Credit Card Competition Act è stato
redatto, una legge che riduce le commissioni, e tassa i programmi a premi, per
scoraggiarli. Ma un primo tentativo di introdurlo, a ottobre, in una votazione multi-purpose
sulle spese per la Difesa, è abortito per l’opposizione delle banche.
James Lardner, Whom
do Credit-Card-Rewards Programs Really Reward?, “The New Yorker”, free
online
https://www.newyorker.com/news/daily-comment/whom-do-credit-card-rewards-programs-really-reward
giovedì 22 dicembre 2022
Problemi di base americani - 727
spock
La terapia del dolore è soffrirlo fino in
fondo, il più acuto e il più a lungo possibile?
È l’anestetico una droga, roba da Dea?
O lo è solo in ospedale, dove paga
l’assicurazione o lo Stato, fuori è invece libero?
È la sanità un diritto – in America è un
problema?
è la scuola un diritto in America, per chi?
Iscriversi
alle liste elettorali è difficile, votare è facile: c’è una inversione della
prova?
spock@antiit.eu
Cronache dell’altro mondo – debitorie (235)
Il debito federale americano è il 700 per cento delle entrate
tributarie annue. E il 122 per cento del pil – il 140 per cento se si include il debito pubblico statale e
locale.
Il servizio del debito federale ammonta quest’anno a 103 miliardi
di dollari.
A novembre, il debito federale americano detenuto dai privati ammontava
a 31 mila miliardi di dollari, il più alto della storia. Di cui 7.700 miliardi detenuti all’estero
– gli Stati Uniti hanno il più grande debito estero del mondo.
La tassazione in America, federale, statale e locale, ammonta a
circa il 25 per cento del pil. Contro la media Ocse del 33,5 per cento (in Italia
del 48 per cento).
Si sogna ancora con la nobiltà, decaduta
La “nuova era” è
del cinema: Downton viene affittata per girare un film, al momento del trapasso
dal muto al parlato – per rifare il tetto con l’affitto dei saloni.
Interessante per la prima tecnica di sincronizzazione, tra il filmato e il
parlato.
Per il resto il
solito vecchio maggiordomo più snob dei padroni di casa. I quali invece scoprono
nella vecchia madre tiranna (però, è Maggie Smith) l’amante di una notte, forse, benché già sposata, di
un gentiluomo francese ai suoi giovani anni. Quindi, un buon terzo del film è ambientato
in Costa Azzurra.
L’altra novità è
di minore impatto, nelle immagini e nella storia: il nuovo e giovane
maggiordomo, abbandonato dall’amico del cuore, ritrova l’entusiasmo con l’attore
del film muto\parlato. Bisogna aggiornarsi.
È strano come la
vecchia Inghilterra, che si penserebbe una caricatura, faccia ancora blockbuster,
fra le tante serie tv, se se ne fa anche un film.
Simon Curtis, Downton Abbey
II – Una nuova era, Sky CinemaAbbey II - Una nuova
mercoledì 21 dicembre 2022
Letture - 506
letterautore
Antifascismo
– Magris evoca Randolfo Pacciardi, un vita di antifascista
finita con un fronte anticomunista, a proposito di una lettera della
“bellissima amante di Hemingway”, Martha Gellhorn, di pubblicazione recente, che
adombra un flirt o un’attrazione con lui. Fa il nome nell’occasione anche di
Edgard Sogno, altro irriducibile antifascista finito anticomunista. Ma la storia
della Repubblica non si riesce a fare – la facevano solo gli storici comunisti,
quando c’era il Pci.
Pupi
Avati – Demitizza il cinema – o lo rimitizza? “Vidi 8 e
mezzo di Fellini in un cinema del dopolavoro ferroviario nella Bologna
degli anni Sessanta. Ero un giovane venditore della Findus: quel film mi cambiò
la vita”.
Follia – Quella dei poeti – peraltro ricorrente, fino a Merini, a Incom - è
l’intersezione tra sensibilità (rêverie) e immagini, Proust arguisce a
proposito di Nerval – a chiusura del saggio su Flaubert: “Dal punto di vista della
critica letteraria, non si può propriamente chiamare folle uno stato che lascia
sussistere la percezione giusta, ben di più, che acuisce e indirizza il senso
della scoperta dei rapporti più importanti tra le immagini, tra le idee. Questa
follia non è quasi che il momento in cui le ineffabili fantasticherie di Gérard
de Nerval divengono ineffabili. La sua follia è allora come il prolungamento
della sua opera – e non viceversa”. Ma in alternanza cadenzata: “Ne evade
presto per ricominciare a scrivere. E la follia culminante dall’opera
precedente diviene punto di partenza, e materia stessa dell’opera che segue”.
Giovanni Giolitti – Filosofo? “Antonio Giolitti, nipote dello statista e filosofo Giovanni Giolitti”,
lo dice il podcast della figlia Rosa sul “Corriere della sera”. Giovani Giolitti
non lo era, non filosofo (si era laureato in Giurisprudenza, anche se a soli 19
anni). Ma, poi, cos’è filosofia?
Pasolini
– È diventato icona conformista. Della sinistra
politica, quello che ne resta, e anche della destra. Riflesso dell’epoca del
“minoritarismo” (vittimismo) trionfante. “Un tic” può dirlo Buttafuoco, agli “stati
generali” della “cultura di destra”: “Radio 3 ogni due secondi cita Pasolini
come un tic”. Gli sarebbe piaciuto?
Oltre che religioso
(v. sotto), Pasolini è anche santo, lo decreta il Maxxi di Roma in una mostra
lunga sei mesi.
Nelle more delle
celebrazioni per il centenario della nascita, si moltiplicano le ricostruzioni
che ne fanno vittima di un complotto. Di avversari politici e\o trafugatori
delle pizze originali del film “Salò”, che lo hanno attirato in un tranello col
pretesto di discutere la restituzione delle “pizze” del film. Una ventina di
libri sono stati scritti recentemente, sulla traccia dell’ipotesi originaria di
Oriana Fallaci – ne fa l’elenco Paolo Di Stefano sul “Corriere della sera” domenica,
“Delitto Pasolini. L’antimafia: Sì, c’entra Salò”. Quella di Fallaci,
un’ipotesi e non una ricerca, è diventata una sorta di prova. L’Antimafia della
passata legislatura è quella presieduta da Nicola Morra, il senatore 5 Stelle
di Genova, eletto in Calabria, che non ha prodotto nulla. L’Antimafia fa
Pasolini vittima della banda della Magliana. La quale si sarebbe impadronita delle
“pizze” di “Salò”, in un empito di perbenismo, e avrebbe poi deciso di punirne
l’autore, attirandolo in un tranello, con la scusa di negoziarne la
restituzione. Solo che la banda della Magliana non era ancora nemmeno in
mente Dei.
Pastiche
- Di questa tecnica, di pezzi scritti
nello stile di uno scrittore, tra ironia e devozione, Proust, che ne era
ingordo praticante (se ne è potuto fare una densa raccolta, “Pastiches e mélanges”),
celebra nel saggio su Flaubert (“A proposito dello «stile» di Flaubert”) “la
virtù purgativa, esorcizzante”.
Un pastiche involontario è comunque
l’effetto di una lettura seducente, sempre secondo Proust, nella stessa pagina
– col rischio, per il lettore vorace, di vivere nel pastiche, nell’imitazione,
seppure involontaria: “Quando si finisce un libro, non soltanto si vorrebbe continuare
a vedere come suoi personaggi, con Madame
de Beauséant, con Frédéric Moreau, ma ancora la nostra voce interiore che è
stata disciplinata per tutta la durata della lettura a seguire il ritmo di un
Balzac, di un Flaubert, vorrebbe continuare a parlare come loro”. Bisogna
“uscire” dal romanzo, dalla lettura: “Bisogna lasciarla fare un momento”, la
nostra voce interiore, “lasciare il pedale prolungare il suono, cioè fare un pastiche
volontario per potere dopo tornare originali, non fare tutta la propria vita
del pastiche involontario”.
Proust
– “Sodoma” e “Gomorra” vuole unificate – spiega nel
saggio “A proposito di Baudelaire” – in senso spregiativo. Ricordando Vigny,
che le voleva separate, mentre Baudelaire è per l’unità, Proust nel 1920 spiega
di averle unificate, sottintendendo come passione, come sensualità - “nelle
ultime parti della mia opera e non nel primo ‘Sodoma’ che è appena uscito” –
confidandole a “una bestia, Charles Morel (è del resto alle bestie che questo
ruolo è abitualmente confidato)” – a une brute.
Regista
– È si sa l’italianizzazione del francese régisseur,
in uso per il direttore del film, praticata d dal linguista Bruno Migliorini
nell’ambito della campagna di italianizzazione delle parole straniere nei primi
1930. Direttore, come è l’uso ancora oggi in inglese, sarebbe stato
termine più consono all’attività di regista - il cui ruolo nel termine originario,
quello di tenere assieme tutta la baracca, era invece passato al produttore.
Rouen – Ha formato, spesso ispirato, Annie Ernaux, la premio Nobel. Era il
rifugio di Ruskin, la città che preferiva, anche a Venezia e a Firenze. Lo
ricorda Proust, di Ruskin traduttore e ammiratore, in uno dei tanti scritti che
gli ha dedicato.
Jia
Ruskaja – Il nome d’arte della famosa danzatrice russa, inventato
da Anton Giulio Bragaglia, è frutto di un equivoco. Incontrando Elena Boberman
Sciltian, la moglie russa del pittore armeno italianizzato Gregorio Sciltian,
il 4 giugno 1921 alla Casa d’arte dei Bragaglia per una serata di “azioni mimiche
e danze”, la giovanissima ballerina Evgenija Borisenko, diciottenne, appena trasferitasi
in Italia, disse: “Anch’io son russa! I jà rússkaj”. Il suono piacque a
Bragaglia, che ne fece un nome poi famoso – l’aneddoto è raccontato da Antonella
D’Amelia, “La Russia oltreconfine”, 167.
Jacques
Tati – Dunque, si chiama Tatiscev, era russo. Non amava
il russo, ma evidentemente aveva il mimo nel sangue.
Tolkien – È appropriato dalla destra politica (in Italia), ma non era uomo di
destra. L’illustratore Ted Nasmith, che lo conobbe e lo frequentò da ragazzo, lo
dice “un conservatore, un cattolico devoto, ma non in modo estremo”. Non è un fantoccio
politico, la destra vi si è ispirata, cinquanta, sessant’anni fa, perché
pregiava il fantasy, unica via d’uscita dal conformismo sociopolitico, dell’impegno.
letterautore@antiit.eu
Bregret, l’Inghilterra rimpiange
Non è più aria di Brexit in Inghilterra, ma piuttosto di Bregret,
di rimpianto. L’argomento non è in agenda politica, né dei conservatori né dei laburisti né di nessun
altro. Ma tutti i sondaggi danno attorno al 58-42, di delusi.
Il referendum pro Brexit è del 2016. Il distacco definitivo di
fine 2020, meno di due anni fa, ma su tutti i temi la delusione prevale: produttività, immigrazione, standard di vita. La delusione in questo momento è forte per il fallito neo-thatcherismo del breve
governo Truss. Che ha fatto solo in tempo a privilegiare i privilegiati.
I sondaggi registrano una piccola percentuale di delusi anche tra
quanti votarono nel 2016 per l’uscita dalla Unione Europea. La differenza è fatta dai nuovi
votanti, giovani e giovanissimi, e tra quanti nel 2016 si astennero.
Si assimila la situazione a quella della Gran Bretagna degli anni
1960-1970, che poi portarono all’adesione alla Ue: a quando il paese non era competitivo, e in
declino, economico e sociale, da “malato d’Europa”. Senza però, ora, alcuna prospettiva di
riadesione alla Ue. Anche perché, probabilmente, si dà per scontata una ricezione non facilitata.
Pasolini religioso
Pasolini era religioso. Molto. Sempre. Il solo. Riguardando “La ricotta”, il suo film breve di quasi sessant’anni fa sulla Passione, fatta rivivere dal vero a un “povero Cristo” sulla scena, la cosa emerge come una verità poviana, bene in vista come la lettera rubata.
La scena è di un film
sontuoso che Orson Welles dirige, il dittatore superficiale e spietato del set, tutto all’opposto di Pasolini
regista, ma sua proiezione - “ho girato otto km. di pellicola”, dirà in altra
occasione, o sei, o cinque, “non so che film ne verrà fuori”.
La lettura recente di “Romàns” aiuta, il racconto – forse la
prima prova di Pasolini narratore - dell’impulso sessuale che agita il giovane
prete. Che si chiama Paolo, come Pasolini. Il quale tutta la vita sarà lettore,
studioso, esegeta e interprete di san Paolo, in una personalissima
identificazione, della sua missione furiosa. La corrispondenza coeva a “Romàns”
con Carlo Betocchi, persona e poeta quasi di sacrestia, reciprocamente
rispettosa e anzi amichevole benché a distanza. Il concetto di comunità, agape, variamente declinato. Il Cristo
sempre amato, altra identificazione. La madre Maria. La colpa, sempre vissuta -
come l’impegno. L’abbandono del Cristo, della grazia - il Cristo abbandonato
dal Padre. Il vagare incerto, fuori della grazia, di “Uccellacci e uccellini”.
L’apologo fa parte di un film a episodi, come allora usava,
intitolato “Rogopag” dale iniziali dei registi, Rossellini, Godard, Pasolini,
Gregoretti. Classificato nel genere commedia. Quella di Pasolini (che
naturalmente fu oggetto dell’ennesimo processo, e dell’ennesima censura –
piccoli tagli, qui reintegrati) è amara, e uno ne viene confermato alla prima
impressione di un Pasolini incapace di leggerezza, di ridere e far ridere.
Malgrado la crudezza delle immagini, è però una satira. Del mondo falso del
cinema, per il quale nessun sacrificio è di troppo – paradigma dell’eterna
questione della borghesia di cui Pasolini si è fatto purtroppo carico: cosa non
si fa per andare sullo schermo. Che è però anche, nel caso, l’unica possibilità
di sopravvivenza – o della sopravvivenza come morte.
L’impegno di Pasolini si dice e si vuole sociale e politico,
ma è cristiano, anzi cattolico. E radicale, irrimediabilmente. Al cinema come
in moltissimi testi poetici – non solo nei titoli delle raccolte. Un’indagine
specifica sicuramente sarebbe fertile.
Pier Paolo Pasolini, La ricotta, restaurato, free online chili.com
martedì 20 dicembre 2022
A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (511)
Giuseppe Leuzzi
Il nostos,
il ritorno, tema eminentemente meridionale, tale e tanta è stata ed è l’emigrazione,
il poeta Franco Arminio da Bisaccia, in provincia di Avellino, spiega fattuale:
“Vivo nella casa dove sono nato e da cui non sono mai andato via”, benché abbia
vissuto a lungo lontano: “Ma il paese non mi dà più niente. E devo essere onesto:
ci sono molti luoghi, come il mio, sfiatati e stanchi”.
Il nonno “non
lasciò mia madre iscriversi al ginnasio”, Andrea Carandini ricorda del nonno
Luigi Albertini, il proprietario e direttore del “Corriere della sera”: “Allora le
ragazze andavano educate solo in casa”. Allora, invece, in Calabria le zie si
diplomavano maestrte, studiando fuori casa, poiché le scuole non erano diffuse.
E dopo il diploma lavoravano.
Albertini, reduce
dal fallimento della banca e della reputazione di famiglia, si avvia alla direzione
del “Corriere della sera”, di cui ha fatto un grande giornale nei vent’anni
fino a Mussolini, su impulso e manleva di Luigi Luzzatti, l’economista e
banchiere. Ma al giornalismo era stato indirizzato da Francesco Saverio Nitti,
radicale, meridionale, meridionalista.
Un’indagine
Mediobanca-Unioncamere-Centro Studi Tagliacarne scopre che al Sud ci sono
molte imprese medie (familiari), competitive, anche sui mercati internazionali.
Malgrado le “inefficienze di sistema” (infrastrutture, accesso ai mercati,
promozione). Il Sud difetta di capitali, non d’intraprendenza – molti manager,
al Nord e altrove, sono meridionali. E della coltre criminale che gli viene
sovrapposta, micidiale – che un apparato repressivo (Procure, polizie) solo
poco efficiente avrebbe debellato da decenni.
Si assiste con un indefinibile
disagio al film Sky “The hanging sun- Il sole di mezzanotte”, sulla violenza di
un certo mondo nordico, qui l’estremo Nord della Norvegia, religioso (settario),
familistico. Un Nord senza luce: violento e triste. Che sono la materia del
romanzo dal titolo analogo dello scrittore norvegese Jo Nesbǿ. Ma il film è
italiano, con regista italiano, e protagonista italiano: un caso rarissimo di
Sud che critica il Nord.
La mafia accademica
“La Gazzetta dello
Sport” fa Capodanno con una storia delle mafie: Cosa Nostra, Riina, Buscetta, la ‘ndrangheta, la camorra, etc.. Tanti volumi,
ognuno curato da uno “specialista”. La mafia è dunque una disciplina storica. Come
c’era la Storia dei Partiti Politici, per esempio, o la Storia d’Europa, c’è
ora la Storia delle Mafie – il prof. Pinco Pallino, Ordinario di Storia delle Mafie
all’università di Vattelapesca? Con pubblicazioni, impact factor, abilitazioni,
concorsi.
Disciplina diffusa
peraltro, “La Gazzetta dello Sport” regala il primo volume della collana. Un
insegnamento popolare, o da università popolare, per i patiti di sport, nel
tempo libero dalle partite.
Non si saprebbe
non complimentarsi, se c’è un ritorno delle scienze storiche - dopo l’abbandono
decretato venticinque anni fa dall’ultimo Berlinguer, ultimo ministro del partito
Comunista, benché defunto da qualche anno. Non è molto, ma è un segnale.
Non si fa una storia
dell’Italia repubblicana, per esempio. O del terrorismo. Nemmeno del partito Comunista
– una storia vera. O del leghismo. Ma si fa delle mafie. Del Sud, naturalmente,
che è mafioso. Significa che tira sul mercato, ma certo, poveri futuri scolari.
È un regalo che dobbiamo all’antimafia: l’antimafia genera mafia. In senso figurato, certo, negli studi. Ma anche di fatto. Prima non c’erano mafiosi di seconda generazione, non si ereditava, non c’erano dinastie, c’erano malfattori che prima o poi finivano male. Con l’antimafia è venuta la sociologia, e ora la storia. E non è più come pensava ancora Falcone, li mettiamo dentro e finiscono di fare danno. Ora la mafia si fa soggetto. Si fa personaggio, predica, eredita. Crea; crea carriere, ora anche cattedre.
Il mafioso testimone
di giustizia era inimmaginabile, ma anche a questo l’antimafia ha provveduto. Abbiamo
già il mafioso maestro di morale, con Biagi, Bellocchio, i giudici palermitani,
ora l’avremo ideologo, filosofo, professore - la storiografia è disciplina
insidiosa. Ci avevano già spiegato, gli orfani della rivoluzione di Mosca, che mafioso
è lo Stato, ora finalmente sapremo la verità, che mafiosi siamo noi, tutti gli
altri? Limitatamente alle regioni meridionali, ovvio.
Lockdown
giudiziario al Sud
Troppa – troppo invadente
– e indirizzata male, l’antimafia ha più critici che sostenitori, malgrado sia
materia non opinabile, non criticabile.
Il ministro della
Giustizia Nordio, che è stato un giudice, non cessa di ripetere che l’Italia è
oberata da una “enorme quantità” di leggi, “dieci volte più elevata che nella
media dei Paesi europei”, che la corruzione si annida nelle pieghe di questa normative
farraginosa, e che essa è “una
pesante palla al piede per il sistema economico e sociale e per la vita civile”.
Nordio, un socialista che la giustizia ha portato a ministro di un governo di destra,
è normalmente criticato su tutto, ma non lo è stato su questo.
All’affollata presentazione all’Auditorium di Roma al Parco
della Musica dell’ultimo libro di Alessandro Barbano, l’ex direttore del
“Mattino”, “L’inganno”, una sola voce si è levata a difendere gli attuali assetti
della giustizia, Giovanni Melillo, il Procuratore Nazionale Antimafia - che
peraltro ha operato a Napoli “in concorso” con Barbano per una migliore
giustizia. Solo critiche, aspre.
Giuliano Amato, presidente
uscente della Corte Costituzionale, che ha varato trent’anni fa le prime leggi
speciali contro la mafia, se ne è pentito. Ne è nato un apparato burocratico, politico
e affaristico fuori da ogni giusta finalità, al riparo dai controlli di
legalità e di merito. “Da giurista negli anni Sessanta”, ha detto, “ho firmato
un libro nel quale proclamavo l’insostenibilità delle misure di prevenzione, da
Presidente del Consiglio trent’anni dopo ho firmato le leggi speciali seguite all’omicidio Borsellino. Portando
dentro di me tanto le ragioni che ostano alla pena del sospetto quanto quelle
che ritengono prioritaria la lotta alla mafia, io condivido quello che scrive
l’autore del libro, e cioè che qui abbiamo passato il segno”.
Paolo Mieli, che da
direttore del “Corriere della sera” condivise alcune delle più efferate
intimidazioni del Procuratore di Milano Borrelli, denuncia ora un “lockdown
giudiziario”: “Tiene in una morsa la democrazia italiana e scatena retate
contro innocenti nell’indifferenza generale”. In particolare al Sud – Mieli,
ora storico a tempo perso, ha più tempo per alzare lo sguardo: “Come mai”, ha
chiesto, “abbiamo consegnato il Sud a questo stato di cose, senza avere neanche
un senso di colpa? Come mai”, rivolgendosi a Melillo, il Procuratore Antimafia,
“la scuola dell’illuminismo napoletano oggi si affanna a contestare il libro di
Barbano?”
Dettagliata la replica
di Barbano, che il Procuratore Melillo ha detto “un estremista”: “Sono un
estremista perché vorrei che le sentenze di assoluzione non divergessero dalle
sentenze di confisca? Perché ho criticato l’estensione del codice antimafia ai
reati contro la pubblica amministrazione, l’estensione della pericolosità dalle
persone alle cose, dai defunti agli eredi? Sono un estremista perché chiedo che
il concorso esterno sia definito da una legge dello Stato e non cucito dalle
sensibilità delle diverse sezioni della Cassazione, e poi ricucito nella prassi
attraverso le sentenze dei tribunali fondate sul sospetto? Sono un estremista
perché ricordo che la confisca senza condanna non esiste in quasi nessun paese
d’Europa, e dove pure esiste è ancorata alle garanzie del processo penale e
all’accertamento di un reato? Sono ancora un estremista perché chiedo che la
legge Rognoni-La Torre venga ricalibrata per tornare a colpire la mafia?” Per
concludere: “Non mi sento un estremista quando chiedo che la ricerca doverosa
degli autori delle stragi porti a giudizio prove verificate, o quando rivendico
che la giustizia non sia la sede della lotta alla mafia, ma il luogo sacro ed
estremo dove si accerta la colpevolezza o piuttosto l’innocenza”.
E si è parlato solo della
giustizia, non dell’amministrazione. Che ha superato gli arbitri del fascismo,
il confino senza condanna, la residenza obbligata, la perdita dei diritti. Per
esempio con lo scioglimento dei consigli comunali, la grande occupazione
(moltiplicatrice di commissariamenti e prebende) delle Prefetture. Con le
interdittive antimafia – non c’è bisogno di giustificarle. Con indagini mirate
sui propri personali nemici, di giudici e investigatori, o degli informatori, estenuanti,
a strascico, per anni, alla ricerca dello scoop, una frasetta, un’imprecazione
- come si fa nei social.
Shakespeare in Calabria
“La Lettura”
celebra Saverio La Ruina, commediante di Castrovillari, autore, attore e regista
di molte pièces calabro-qualcosa, Shakespeare, la tragedia greca, la
Bibbia, don Sturzo.
È diffusa la tendenza
fra gli artisti calabresi di riportare tutto alla Calabria, non solo Shakespeare
– che forse era calabrese, se era Florio, di Bagnara. Il teatro Nō cino-giapponese,
i manga giapponesi, il folk, come è giusto, da Otello Profazio, un
genio, al Parto delle Nuvole Pesanti, Voltarelli, Mellace, ma anche la world music,
Paolo Sofia e I Quarta Aumentata, o il jazz, Cammeriere – non sentiva questo
bisogno il grande cugino di Cammeriere, Rino Gaetano. È una identificazione forte, come un senso di colpa, ma sterile. Non apporta, cioè,
niente alla scena calabrese: si vive a distanza, a Bologna, a Roma, a Milano, con
qualche difficoltà, si suppone, più che curiosità, e si avalla o sopporta, per
la bravura degli interpreti, per l’entusiasmo, la bizzarria, l’inventività, per
qualcosa che comunque attira. Ma sterile: la Calabria non cambia né si muove di
un centimetro per queste pur lusinghiere identificazioni. Che restano
come celebrazioni, degli autori in fuga – delle vie di fuga e non di ritorno.
Un innesto non
riuscito? Un’impermeabilità del ceppo? Più probabile un desiderio di “saltare”
l’Italia, di collegarsi – di legare il futuro, il passato essendo irredimibile –
di collegare le origini a mondi “superni”, grandi, fantasiosi, mirabolanti,
prestigiosi. Sicuramente un segno d’insoddisfazione, dell’Italia più che delle
origini, per quanto modeste.
Napoli
Ha trepidato come tutti per Elisabetta d’Inghilterra,
mentre ha una regina santa in casa di cui non si cura, Maria Sofia Wittelsbach Borbone,
l’ultima regina di Napoli. Non ancora santa, ma beata da quasi dieci anni. E sepolta
al cuore di Napoli, in Santa Chiara. Sorella di Sissi, l’imperatrice, altra
strappalacrime.
Di Maria Sofia si occupò
Amedeo Tosti, che wikipedia definisce “il gigante della storiografia militare”,
ma un secolo fa. Ne scrisse d’Annunzio. Se ne occupò Proust. Napoli era città
di studi, nel Sette-Ottocento, ora di chiacchiere?
“A Napoli c’è sempre posto per tutti”, chiosa Marino Niola spiegando
paesaggi e figure del Presepe – del Presepe napoletano. Come dire di una condizione
metropolitana naturale, spontanea. Se non che Napoli è probabilmente la città
che più è se stessa, checché essa sia – più simile a se stessa, riproducibile
più che variabile.
“Ma jatevenne a farvi fottere”, il vescovo di Napoli, che è cardinale,
Crescenzio Sepe dice a un certo punto al giornalista di “Report”, Rai 3. La trasmissione
gli faceva lezioni di moralità sull’uso anche non sacro, commerciale, delle tante
chiese di Napoli ormai chiuse al culto – non monumentali e non parrocchiali.
“I miei cari
napoletani” sono (fra) le ultime parole che Rosario Romeo, il dimenticato grade
storico di Catania, attribuisce a Cavour nella sua biografia. Se non che Cavour
non ebbe mai di Napoli e dei napoletani buona opinione. I meridionali avrebbero voluto, e vogliono, una buona e bella unità d’Italia.
Garante dei detenuti
a Poggioreale è – era, è stato arrestato per traffico di droga e di cellulari –
un ex condannato per traffico di droga a 22 anni. Non un trafficante di
“canne”, un industriale della droga. L’aveva nominato il sindaco De Magistris,
un giudice, “come occasione di riscatto”. Napoli sempre si supera in immaginazione,
come fosse in gara con se stessa, a chi le spara più grosse di chi le ha
sparate grosse – De Magistris non è nemmeno uno corrotto o un camorrista in petto.
I Borbone realizzarono
a Santo Stefano, l’isolotto davanti a Ventotene, per mano di Vanvitelli a fine Settecento un edificio circolare,
visibile in ogni punto da un osservatore posto al centro, del grande cortile
circolare. Era un carcere – ora chiuso, dal 1965. Erano arretrati? Per l’epoca
era una specie di edilizia utopica: era il Panopticon di Fourier e Bentham, a
fine Settecento, l’utopia dell’illuminismo – Fourier emozionava ancora Italo Calvino.
leuzzi@antiit.eu
La Buona Novella è (ancora) la nascita
“Il Presepe è la
Buona Novella che diventa presene. È la Natività che rinasce. E ogni anno si fa
storia viva. Universale e locale. Perché ogni paese ne fa lo specchio di se
stesso”. Comincia così Niola, e ha detto tutto: Natale è l’incarnazione, che è
un mistero e una fede. Ma è anche un mito. Sotto un distico di De André che c’entra
poco, ma comincia con “Odore di Gersusalemme”: in qualche modo la cristianità c’entra
pure.
Il lavoro della
coppia Niola-Moro è sul Presepe napoletano. I paesaggi, le figure, “l’ingegnosa
devozione”. Con “La cantata dei pastori” che De Simone ha esumato, e Eduardo, “Natale
in casa Cupiello”. Con illustrazioni a colori fuori testo. E con una bibliografia
anche vasta, in cui rientra Heidegger. Molto è del protoevangelo di Giacomo,
uno dei vangeli apocrifi.
Del protoevangelo
di Giacomo faceva grande caso lo storico delle religioni Alfonso Maria Di Nola
in “Antropologia religiosa”, e in una intervista per la radio con Milvia Spadi
nel novembre del 1986 che viene qui riprodotta. Anzitutto sull’origine del Presepe,
da dove viene l’idea: “Viene dal bisogno di trasferire in una rappresentazione «immobile»
quelle che erano nell’ultimo Medio Evo le rappresentazioni sacre, le rappresentazioni
mobili. Vale a dire la nascita di Gesù, l’Annunciazione, la Fuga in Egitto,
erano oggetto di drammi sacri, presenti già nel’VIII-IX secolio, e questi
drammi sacri si celebravano o all’interno della chiesa presso l’altare
maggiore, o sui sagrati delle chiese, e danno origine a una notevole letteratura
drammatica che a sua volta è alle origini del teatro europeo. Posteriormente,
dal dramma mobile si è passati a quella che, direi, è una sacra
rappresentazione dei poveri. Si sono immobilizzati i protagonisti, gli attori
del dramma sacro, ed è venuto fuori il presepe”.
La disposizine e i
personaggi Di Nola fa risalire al Protoevangelo di Giacomo, alla “Visio Joseph”
in esso contenuta. La Vergine sta per partorire e Giuseppe va alla ricerca di
una levatrice: “Ma mentre Giuseppe è fuori, la Vergine ha partorito Gesù, e
Giuseppe assiste a uno spettacolo che si chiama «sospensione della vita cosmica»”:
gli esseri umani si bloccano nel gesto che stavano compiendo, “i fiumi si fermano”,
gli uccelli s’immobilizzano, gli alberi trattengono il fiato. Non è un fatto isolato:
“Situazioni analoghe, della sospensione della vita cosmica, sono nelle vite e
nelle nascite di molti uomini che appartengono ad altre religioni”, per esempio
Buddha.
“Il presepe
napoletano è …. la trascrizione di questa mitologia della sospensione della
vita cosmica”. La grotta, l’asinello e il bue sono adattamenti impropri di letture
bibliche ed evangeliche. I tre Magi pure, sono successivi – sono nominati nel Vangelo
di Luca, ma non sono re e non sono magi. Magi e non maghi, specifica Di Nola:
divengano tre in rapporto ai doni che portano.
Marino
Niola-Elisabetta Moro, Il Presepe, Il Mulino, pp. 239 ill. € 16
lunedì 19 dicembre 2022
Banche virtuose, banche centrali ignoranti
È come se le banche, private, controllatissime
dalle banche centrali, capissero e aiutassero l’economia, e le banche centrali, pubbliche, che controllano le banche, i governi e le economie, sapessero di economia (produzione,
distribuzione, prezzi) giusto per qualche infarinatura. Talmente macroscopici, potenzialmente
micidiali, sono gli errori che la Federal Reserve americana e la Banca centrale
europea hanno accumulato e manifestano. Di giudizio e di governo. Cieche su
fatti visibilissimi.
Intesa, per dire, moltiplica i fondi dedicati
a questo o quel settore produttivo, a condizioni specifiche, settoriali e regionali,
per aiutare il rilancio dopo il covid, e alleviare l’impatto del caro-energia.
Unicredit ha di suo un’intelligente moratoria su prestiti e debiti – che sembra
alla Eduardo, “a da pass’a’ a nuttata”, ma è, era, la funzione della banca,
assistere nel bisogno e non precipitare la fine. La Federal Reserve Usa invece,
che ha sottovalutato l’inflazione un anno fa, prima della guerra
russo-ucraina, accumula rincari dei tassi in percentuali e a ritmi esorbitanti,
come se l’inflazione fosse una bestia selvaggia da addomesticare – ora che,
invece, è per molti segnali già addomesticata. La Bce, che non sa fare niente
di suo, si adegua.
L’andamento difforme dell’inflazione è
anche un segnale degli interessi divaricanti dell’Europa e degli Stati Uniti.
Ma come spiegarlo alla Bce.
La Bce al guinzaglio della Fed – o la Ue non è gli Usa
La politica monetaria confidata alle
banche centrali, senza più alcun potere di indirizzo dei governi, non è una
canalizzazione entro criteri “tecnici” (norme di buon governo) ma un capestro, affidato
a boia inaffidabili se non sanguinari.
La Fed non è intervenuta prima contro l’inflazione,
quando avebbe potuto con mano più lieve, per non contrastare la Bidenomics, i
tre piani di gigantesca spesa federale del governo Usa: American Rescue Plan (2
mila miliardi di dollari), Infrastructure and Jobs Act (1,2 mila miliardi) e
Inflation Reduction Act (750 miliardi).
La Fed è intervenuta tardi e male. E la
Bce si adegua, senza più.
La Bce non capisce (Draghi fece eccezione, ed è per
questo un monumento) una differenza semplice tra Europa e Stati Uniti: gli Stati
Uniti possono creare debito senza limiti, federale, statale, col mondo, l’Europa
no.
O anche si può dire, il caso, dell’indigenza
più che dell’ignoranza dell’Europa. Che è nata all’insegna del “vincolo esterno”,
del potere taumaturgico tra i suoi membri di non si sa quale entità superna.
Purtroppo teorizzato, in Italia, da Draghi e dal presidente Ciampi (nella
opinione italiana a lungo si è fatto credere che l'Arcangelo fosse Angela Merkel…). E ora
si fa essa stessa soggetta a un mitizzato “vincolo esterno”, benché sia, scoperto
e anzi dichiarato, americano.
Poesia e morte in Persia
Un tardivo romanzo
storico, dal vero, che si divora. Molto ben scritto. Da un formalista emerito (coautore
con Roman Jakobson delle toste “Tesi sul linguaggio”, 1928, che rivoluzionano
la linguistica e anticipano lo strutturalismo, e in proprio di “Arcaisti e
innovatori” – tradotto in parte come “Avanguardia e tradizione”), che però è
anche narratore semplice (di una “Giovinezza di Puškin” dopo questo “Vasir
Mukhtar”), e si fa leggere con avidità. Benché dipani una storia multistrato,
non sempre esplicitata, più spesso allusa. Dell’indefinitezza del reale: il
destino brillante, caustico, legato alla migliore Russia, degli insorti liberali
del 1825 (“decabristi”) e di Puškin, coartati e liberi allo stesso tempo, e
creativi – protagonisti di una Russia ben viva, benché la fascetta editoriale
la faccia già marcia, come un secolo dopo.
È la storia di
Griboedov, letterato di talento, già di successo con la commedia “Che disgrazia,
l’ingegno!”, la disgrazia di capire che le cose non vanno, sospetto a corte per
le simpatie liberali, e inviato a Teheran invece che al confino, a estendervi l’influenza
russa, in competizione con l’Inghilterra. Ne ritorna con un Trattato di
Turkmanchay, che adombrerebbe, spiega, l’accettazione di un protettorato russo.
Rimandato a Teheran dopo questo successo con l’incarico ufficiale di vazir mukhtar,
ministro plenipotenziario, lungo la strada trova a Tiflis l’occasione di
sposare una giovane la metà dei suoi anni, la sedicenne principessa georgiana
Nina Čavčavadze. Con la quale prosegue per Tabriz,
all’incontro degli emissari dello scià per l’applicazione del trattato di pace.
Che secondo Griboedov riconosceva una indennità di guerra e la liberazione dei
prigionieri cristiani. In particolare delle donne “circasse”, le giovani armene
e georgiane chiuse negli harem persiani. I colloqui essendo infruttuosi, Griboedov
decide che lo scià, Fath Alì, personalmente gli avrebbe dato ragione. Ma Teheran
gli fu fatale: accusato di aver dato asilo a un eunuco di un harem e a due
spose armene, fu assaltato nell’ambasciata da una folla tradizionalista e
trucidato.
Lo
scià s’impegnò a restituire la salma, dopo il difficile riconoscimento – al
passaggio sarà omaggiata da Puškin, in Armenia con un corpo di spedizione
russo.
Ma il finale non
conta – se non per la ferocia delle folle, quando si tratta di fondamentalismo “religioso”:
non è un thriller. È la storia di un giovane, ottimo letterato, secondo Puškin uno dei più colti della
loro generazione, molto cosmopolita, benché non viaggiasse, giacché leggeva in
italiano, francese, inglese, arabo, tedesco e farsì. Di Pietroburgo, tra
giovani liberali e intrighi di corte. Della Persia. Della ferocia popolare. Che
sfilano come al cinema, bene individuati e come vivi, pur nelle tante
diversità, anche contrastanti. Una sorta di pittura dal vivo - non un’estemporanea,
un figurativo ben delineato, studiato nell’apparente semplice, spesso. Appassionante
come l’altro biopic di Tynyanov, non tradotto, il tardo e incompiuto “La gioventù
di Puškin”.
Yury Tynyanov, La
morte del vasil-mukhtar, Settecolori, pp. 600 € 26.
domenica 18 dicembre 2022
L’Europa spauracchio
Tra
spaventapasseri e babau, l’Europa non sa presentarsi che così, se Mario Monti,
l’europeista più europeo di tutti non sa parlarne in altro modo stamani sul
“Corriere della sera”.
Questa l’Europa
che gli europeisti italiani ci hanno cucito addosso – e le vestali della City,
“Financial Times” ed “Economist”, che pure fanno parte di un altro mondo,
dovrebero. Dell’Europa maestra di scuola. Mentre la verità è semplice: che
gliene frega dell’Italia e degli italiani a un olandese o a un finlandese? E
viceversa: se Bruxelles legifera, che dobbiamo e vogliamo esserne parte. Così
si governa una confederazione - ma anche una federazione, con legami stretti,
come negli Usa o in Germania: ad Ambrgo debbono e vogliono sapere cosa si decide
a Berlino e a Monaco. o a Los Angeles col Texas. In Europa no, nell’Europa italiana.
Altrove se ne parla come qualcosa di cui tenere conto, come in tutte le
famiglie. Non il “vincolo esterno”, di cui i professori Monti sono alfieri.
Oggi, per
dire, è urgente una legge europea che contrasti
quella Biden di aiuto pubblico massiccio allì’industria americana dell’Ict e
della transizione ecologica. Urgente nel senso che si sarebbe già dovuta fare,
e invece non se ne parla nemmeno. Monti, che queste cose le sa, fa la lezione
sul Mes, sapendo che una parte della maggioranza ne diffida, dopo le pessime,
quasi tragiche, prove che questo fondo europeo ha fatto in Grecia.
L’Europa è
vittima degli europeisti, non degli euroscettici. Degli europeisti italiani,
quelli mandati a Bruxelles. Provinciali sempre a bocca aperta, con chi parla
imglese, o francese, o anche tedesco. Che hanno fatto spesso (Monti soprattutto)
gli interessi della City e di altri interessi poco comunitari. E (forse) non lo
sanno neanche.
Il Qatar e i suoi vicini
Si scopre
il mondo dei principati della penisola arabica, corrotto e corruttore, per il Mondiale del Qatar, e per le mazzette che i progressisti
di Strasburgo hanno preteso dall’emirato. Come se solo il Qatar fosse corrotto
e corruttore. Mentre invece lotta e si difende dalla corruzione dei più grandi
e alquanto potenti vicini, Arabia Saudita e Abu Dhabi – non, curiosamente, il
Kuwait, il solo emirato che, da cinquant’anni, si è voluto dotare di una costituzione,
e di un sistema di governo passabilmente parlamentare.
Sono
questi Paesi poco più che dei deserti, ma importanti per l’Occidente, come finanziatori
e come produttori delle sue fonti di energia, gas e petrolio. Sono Stati “patrimoniali”,
nella classificazione di Max Weber. Stati cioè che sono la proiezione e la
pertinenza di una famglia dominante. Allargata con matrimoni e compravendite,
ma di origine e sostanza prettamente familiare, tribale.
Stati
padronali, per dirla con linguaggio più comprensibile. In guerra tra di loro,
quando non sono alleati o intrecciati (oggi, p. es., da nemici sono diventati consoci del Credit Suisse). Per esempio nelle notizie: siamo inondati
dalla notizia che gli stadi del Mondiale in Qatar sono stati costruiti a spese dei
lavoratori, che nell’emirato sono tutti immigrati (i qatarioti, beduini
sedentarizzati, non più di 300 mila, non lavorano, non di fatica), di cui 400 sono morti. Mentre i morti sul lavoro forse sono quattro, comunque molti meno di quanti ne muoiono in Italia, senza costruire
stadi. Che è un’informazione venuta da Abu Dhabi. Con un successo organizzativo
senza precedenti, e probabilmente anche in attivo dalle non in perdita, come normalmente
avviene in queste competizioni, più di lustro che di vantaggio. Con stadi sempre
pieni, anche se una vacanza al Qatar costa ogni giorno alcune centinaia di
dollari (i padroni del Qatar erano contrabbandieri di oro con l’India, che lo
tesaurizza, e trafficanti di piccolo cabotaggio con le dhows panciute,
fornitori di tutto, dalle “boatte” di pelati Cirio ai sanitari, e dal 1980, con
i soldi del petrolio, costruttori e gestori a Doha di un interporto aereo
commerciale con l’Oriente, che è diventato una miniera), e nemmeno un ferito.
È curioso,
o forse, no, che in un mese di Qatar non se ne sappia o scriva niente.
L’ecatombe terrorista, trascurata
Dal 1969 al 1982 Della
Porta e Rosi conteggiano 324 attentati, 272 di sinsitra e 51 di destra,
paricolarente numerosi dal 1977 in poi. Con 351 morti. Inclusi i morti per stragi
– ma esclusi i morti della stazione di Bologna. Totale di morti e feriti 360 di
sinistra, 758 di destra.
Si rimuove volentieri.
Ma senza nemmeno un’analisi delle origini – origini vere, politiche,
ideologiche, più che dei “servizi deviati”.
Donatella Della
Porta-Maurizio Rossi, Cifre crudeli. Bilancio dei terrorismi italiani,
Istituto Cattaneo, free online
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